Pd di rissa e di governo, il piano D’Alema: il Vietnam di Renzi in
Parlamento
Il passo è, da
sempre, felpato. Si vede e non si vede, ma è peggio quando non si vede; le
conseguenze, poi, arrivano all’improvviso, quando è ormai troppo tardi per
metterci riparo. Le dimissioni di Cuperlo, per dire, sono opera sua. Massimo D’Alema ne aveva già discusso
con l’ormai ex presidente Pd prima della direzione del partito, Fassina
ne era al corrente, ma non approvava, poi quella frase, sprezzante,
di Renzi nella replica al suo discorso e tutto è
stato più semplice. Il piano del vero, grande rottamatore della sinistra
italiana, appunto Massimo D’Alema, è andato splendidamente in porto. Renzi
ha perso definitivamente il controllo della sinistra del partito e il suo
incubo peggiore, ora, è che questa sinistra non abbia un vero leader con il
quale interloquire. E che il percorso di tutte le sue iniziative, dalla legge
elettorale al piano lavoro, passando anche per la riforma della giustizia (che sta
scrivendo con Maria Elena Boschi) si trasformino in un Vietnam,
prima in commissione, poi in Aula.
D’Alema, però,
è fatto così. Non conoscendo la possibilità di un confronto aperto, ma solo vendette
trasversali e trame nell’ombra, il presidente di Italianieuropei sta per
intestarsi l’ennesimo momento di grave crisi del primo partito della
sinistra italiana. Lui che, a quanto sembra, nella sinistra non c’ha mai
creduto davvero. Disse: “Questo autolesionismo è la conferma di ciò che
penso da anni, che la sinistra di per sé è un male; solo l’esistenza della
destra rende questo male sopportabile”. Era il 19 dicembre del 2003, non
ieri, e in quell’intervista all’Espresso si parlava d’altro. Ma quelle
parole vanno bene anche oggi, il pensiero è sempre il suo e l’iniziativa è
pure, perché fotografano uno status assai noto, quello di una sinistra – anzi,
di un Pd – capace di perdere ad un passo dalla conquista dell’obiettivo.
Oggi sono le
riforme, D’Alema sostiene di trovarsi a distanza perché “com’è noto, passo la
maggior parte del mio tempo all’estero”, ma dietro questo ennesimo
cortocircuito interno c’è chi l’ha giurata a Renzi da sempre. Solo a fine
estate scorsa, d’altra parte, diceva: “Renzi è come quelli che vogliono
prendere la Bastiglia con l’accordo di baroni e baronesse”. E che poi, giusto
l’altro giorno, a commento del discorso del segretario in direzione: “Siamo
alle comiche”. L’ultimo che l’ha detto è finito male, ma lui non se ne cura;
l’importante, in questa fase, è non far trionfare Renzi, forse per dimostrare
che nessuno è in grado davvero di “cambiare verso” al Paese.
Lui ci provò
con la Bicamerale, ne uscì sconfitto, difficile tollerare che altri,
principalmente il sindaco di Firenze, faccia ciò che a lui non è riuscito.
Soprattutto vedersi anche sottrarre il primato del rapporto con il Cavaliere,
di cui lui è stato, giusto fino all’altro giorno, l’unico reale detentore. Poi
Renzi ha fatto entrare il pregiudicato al Nazareno, colpendo al cuore
l’ortodossia dell’ancien regime del Pd, certo, ma rompendo anche un tabù
della “vecchia politica”, cifra dalemiana nei rapporti con gli avversari di
sempre. Per questo, ora D’Alema punzecchia. L’ha fatto anche l’altro giorno, ovviamente
dall’estero, mandando i soliti messaggi cifrati: “Fare le riforme è un elemento molto positivo, sono necessarie per il
nostro Paese, certamente bisogna farle bene. Il Parlamento discuterà e
approfondirà, nella piena libertà di approfondire, correggere, decidere,
secondo le regole democratiche normali”. Pochi minuti prima, il sindaco di Firenze
aveva avvertito: “Se si cambia qualcosa, salta tutto”. La lettura in filigrana del messaggio dalemiano non ha bisogno di grande
esegesi, è limpida: occhio Renzi – ecco la “profanazione” del verbo politichese
dalemiano – perché in Aula sulle riforme te le facciamo scontare tutte. E prima
dell’Aula, direttamente in commissione.
I numeri,
invero, sono tutti a sfavore di Renzi. Commissioni, gruppi, ovunque bisogna
fare i conti con la composizione voluta da Bersani e, dunque, di stretta
osservanza della sinistra del partito. Il commissione Affari Costituzionali,
dove c’è la legge elettorale, la geografia è particolarmente contraria al
segretario Pd: 13 a 8. Altro che Vietnam. Servirebbe un mediatore, uno
capace di reggere le fila senza dar sfogo all’ala dalemiana che a ogni pie’
spinto da l’idea di voler riaprire il congresso. Pensano a Pier Luigi
Bersani, anche per la sostituzione di Cuperlo, l’uomo capace di arrivare al
chiarimento di rapporti tra maggioranza e minoranza Pd senza strappare tutto e,
soprattutto, senza lasciare che i tatticismi dalemiani prendano il sopravvento.
Un lavoto certosino, di lunga e difficile tessitura, che presuppone anche
l’assenso proprio di D’Alema a farsi da parte e dare il via libera al “cambio
del verso” del partito. Ma come fidarsi mai di chi sostiene, non smentito, che
“capotavola è solo dove mi siedo io”?
Commento di Sergio
Ghirardi:
Ormai
lo schifo assoluto ha raggiunto l'inimmaginabile ma il peggio non sono questi
burocrati e maggiordomi del capitalismo di sinistra che lo servono per un pugno
di dollari e di consenso elettorale, pronti al peggior patto con mafiosi e
furbastri di destra pur di profittare delle briciole e degli ossi del banchetto
dell'1% contro il 99%.
Il
peggio alberga nelle masse di ridicoli cittadini ignari di appartenere al 99%,
ridotti a credenti ipocriti che fanno finta di avere ancora speranze e
convinzioni per continuare a mentire a se stessi facendo gli spettatori
interessati della loro schiavitù salariata ormai ridotta a disoccupazione e
miseria.