sabato 25 ottobre 2014
Occupy palco? non ne vale la pena - On the road again
Per quanto riguarda la "strategia politica" del M5S credo proprio di aver sopravvalutato Grillo e Casaleggio, indotta in errore da molte valide citazioni e interviste a persone centrali per le teorie del movimento globale... Attribuivo loro delle capacità da "piloti invisibili" credendo che volessero utilizzare lo strumento elettorale come nel judo, per mettere in discussione tutto il sistema, e infatti ho sentito molte parole giuste come "non vogliamo voti ma cittadini attivi", ciascuno leader di se stesso, e anche che la questione non era governare piuttosto "discutere insieme finché si trova una soluzione condivisa"... Ma poi ha vinto la piazza, hanno vinto i tanto odiati (?) media e le percentuali del 25%, e si sono arresi a quella lumpen-piccola-borghesia incazzata che desidera da sempre un leader perché non è interessata minimamente alla politica come azione ma solo come "utenza bisognosa e passiva". Non per caso i più amareggiati sono proprio gli attivisti, quelli ora messi in disparte dopo che hanno reso possibile il miracolo che lo Staff ha poi realizzato tramite lo spettacolo mediatico. Per me, dire che il M5S è l'unica possibilità di liberazione è un'affermazione falsa e pericolosa, perché non fa vedere che in realtà il movimento potrebbe esserci, fuori dai palazzi, con la forza rivoluzionaria degli inizi, se si decidesse a ritrovare se stesso una volta che abbia digerito il boccone amaro della sconfitta... Speriamo che il coraggio di nuotare in mare aperto verso la meta sia con noi
ps: non vale la pena di occupare alcun palco, non ne vale la pena! On the road again
venerdì 24 ottobre 2014
ROGER RABBIT alla LIGURE - M5S: che fine ha fatto la democrazia diretta?
M5S: che fine ha fatto la
democrazia diretta?
Dopo tre mesi di “fumate nere”, i partiti della
maggioranza sembrano aver capito che, per l’elezione dei giudici della Consulta,
il coinvolgimento del Movimento 5 Stelle appare indispensabile: «Dobbiamo
guardare avanti. Ai grillini», ha dichiarato Renzi. Si propone lo
“scambio di poltrone”: «Abbiamo un
posto nel Csm che possiamo lasciare a loro, e loro saranno ovviamente
liberi di scegliersi il candidato che preferiscono. Noi, per la Consulta,
dobbiamo indicare due nomi di tecnici puri, nomi di alto profilo, se
fossero due donne sarebbe ancora meglio».
E la proposta, ai “grillini”, non sembra dispiacere.
Il nome per il Csm è quello di Alessio Zaccaria, mentre, per la
Consulta, i parlamentari del M5S aspettano le proposte renziane, i «nomi
validi», come chiede Toninelli. Una vittoria del MoVimento, dunque, che
si è visto finalmente riconoscere come interlocutore politico fondamentale dal
Governo? Forse. Ma a che prezzo?
I deputati grillini, oggi, plaudono alla fine della politica
degli scambi, dopo la rinuncia al nome di Violante da parte del Pd: «Grazie
al M5S, per la prima volta il metodo dello scambio di poltrone fallisce»
(Toninelli); «Grazie a noi è finito il gioco delle poltrone per i partiti»
(Cecconi). Ma che altro è l’accordo proposto da Renzi ai 5 Stelle se non un
nuovo “voto di scambio”? Non si tratta proprio della vecchia logica
delle poltrone contro la quale si è sempre schierato il M5S?
Ancora Cecconi, ha precisato: «da mesi
chiediamo nomi di alto profilo, super partes, slegati dai giochi della
politica, per ricoprire ruoli importanti al Csm e alla Consulta. E dopo venti
fumate nere i partiti sono costretti ad abdicare al bene comune. A noi non
importano i nomi e le poltrone, ma persone valide e indipendenti nelle
istituzioni di garanzia». Davvero è sufficiente, per sottrarsi a
questa logica, rispondere che il M5S voterà soltanto «nomi degni», personalità
«indipendenti», «tecnici» slegati dalla politica?
Da una parte, questa posizione del M5S (che ricorda un
po’ il vecchio, vecchissimo «mito» positivista di una presunta neutralità
della tecnica) non tiene conto che, proprio negli ultimi mesi, il ruolo
della Corte Costituzionale si è ormai definitivamente consolidato come quello
di un super-legislatore – più che di giudice supremo di legittimità –,
come dimostrano esemplarmente le vicende della legge elettorale e di
quella sulla fecondazione assistita. La Consulta, oggi, fa direttamente
le leggi.
Dall’altra, i deputati grillini sembrano ormai aver
rinunciato a quell’idea di democrazia diretta che imponeva loro di essere
semplici “portavoce” degli iscritti, di essere meri delegati – con
vincolo di mandato – chiamati a portare le decisioni prese direttamente dai
cittadini in Parlamento. Che fine hanno fatto le consultazioni e le votazioni
on line? Anziché “attendere” da Renzi «due nomi», il M5S avrebbe dovuto – e
dovrebbe – esprimere la propria rosa di candidati attraverso il voto dei suoi
iscritti. Non è “la rete” che decide?
Si è detto che non ci sarebbe più tempo. Ma il tempo
c’è stato: sono tre mesi che vanno avanti le “fumate nere”, e, sul blog di
Grillo, nessuna consultazione è mai stata aperta.
L’11 giugno, i portavoce del M5S della Commissione
Affari Costituzionali avevano pubblicato sul blog una
dichiarazione congiunta in cui si dichiarava che «il MoVimento 5 Stelle vuole fare la sua parte
nella selezione di queste due persone che andranno a ricoprire un ruolo così
rilevante. Vogliamo evitare che i vecchi partiti facciano sotto banco i loro
comodi spartendosi i posti in un gioco di reciproci favori», e si
indicavano i candidati «selezionati» dal MoVimento: Antonio D’Andrea,
Franco Modugno, Silvia Niccolai, Felice Besostri. Tre
osservazioni:
1. il fatto che sin dall’11 giugno scorso il M5S
dichiarava di aver selezionato i propri candidati dimostra che una
consultazione on line si sarebbe potuta fare senza alcun problema di tempistica;
2. non è dato capire chi – e, soprattutto, con
quale legittimazione – abbia selezionato i candidati allora
indicati. Probabilmente, i deputati e senatori 5 Stelle: ma non erano, lo si
ripete, semplici portavoce?
3. nessuno di questi nomi, oggi, sarà probabilmente e
verosimilmente “speso” dai parlamentari grillini, i quali hanno deciso di attendere
le proposte del governo ed i nomi di due “tecnici” (possibilmente donne). A
dire il vero, nessuno di questi nomi è mai stato seriamente sostenuto
dal MoVimento, il quale – fin dalle prime votazioni per l’elezione dei giudici
della Consulta – ha disperso i propri voti tra i quattro candidati «per
dimostrare che siamo in grado di far superare il quorum a un candidato
condiviso col Pd, se buono» (cfr. Consulta
e riforma elettorale: il M5S è in stato confusionale, in “Panorama”, 20
giugno 2014). Insomma:
l’intenzione è sempre stata, fin dall’inizio, quella di aspettare un candidato
del Pd.
A questo punto, ci chiediamo che fine abbia fatto il
M5S, che fine abbia fatto quell’idea di democrazia diretta che aveva
costituito il suo ideale, quel «sogno di una cosa» che sembrava finalmente si
fosse incarnato nelle speranze, nelle lotte e nella partecipazione di milioni
di italiani al MoVimento.
Commento di
Sergio Ghirardi:
La
componente radicale del M5S aspira alla democrazia diretta ma è stata ridotta dalla
burocrazia movimentista a un parlamentarismo che, etico o corrotto, è il vero
populismo capitalista per gestire gli schiavi salariati. Scegliete: democrazia
fittizia o fascismo?
Gli
eletti si sono narcisisticamente identificati al ruolo e Grillo, patriarca che
legge e riflette ma pur sempre patriarca sanguigno, oscilla tra un libertarismo
generico e pulsioni autoritarie imbarazzanti su vari temi. L'urgenza attira
sempre tentazioni autoritarie pur se condite da una contraddittoria volontà
libertaria. Ho spesso difeso l'autenticità dello spirito della democrazia
diretta nel movimento e diffidato al contempo delle isterie autoritarie e dei
narcisismi beceri di parecchi eletti (o no) dal popolo dalla scarsa armonia
psicoaffettiva e politica.
La
democrazia diretta è una rivoluzione culturale che nemmeno i 5S possono dare
per scontata e le ultime peripezie immobiliste del movimento dicono che la
personalità autoritaria s'accontenta della democrazia fittizia del
parlamentarismo nell'illusione conservatrice -populista di destra e/o di sinistra-
che "noi siamo onesti e questo è il
cambiamento". Balle. Tutto il potere ai Consigli e superamento del
totalitarismo parlamentare. Come fare? (continua)
martedì 21 ottobre 2014
Perché il mondo ignora i Curdi rivoluzionari in Siria ? di David Graeber
Perché il mondo ignora i Curdi
rivoluzionari in Siria ?
Articolo di David Graeber su The Guardian dell’8 ottobre 2014. Traduzione di
Sergio Ghirardi, il 20 ottobre 2014.
In piena zona
di guerra siriana un esperimento democratico sta per essere spazzato via
dall’Isis. Che il mondo intero non ne sappia nulla è uno scandalo.
Nel 1937, mio
padre fu volontario per combattere nelle Brigate Internazionali in difesa della
Repubblica spagnola. Quello che si sarebbe concluso con un colpo di Stato
fascista era stato temporaneamente bloccato da un sollevamento dei lavoratori, sostenuto
da anarchici e socialisti. Ne seguì nella maggior parte della Spagna un’autentica
rivoluzione sociale che ha portato intere città a essere gestite con metodi di
democrazia diretta, le fabbriche sotto il controllo operaio e a un aumento
radicale del potere delle donne.
I rivoluzionari spagnoli
speravano di creare l’abbozzo di una società libera che tutto il mondo avrebbe
potuto prendere a esempio. Invece, i poteri mondiali dichiararono una politica
di “non intervento” e mantennero un
rigoroso embargo nei confronti della repubblica, anche dopo che Hitler e
Mussolini, finti sostenitori del “non
intervento”, iniziarono a fare affluire truppe e armi per rinforzare la movenza
fascista. Ne risultarono anni di guerra civile finiti con la liquidazione della
rivoluzione e alcuni dei più sanguinosi massacri di un secolo sanguinario.
Non avrei mai
pensato di vedere ripetersi, nel corso della mia vita, la stessa cosa.
Ovviamente, nessun evento storico si ripete davvero due volte. Ci sono infinite
differenze fra quello che accadde in Spagna nel 1936 e quello che sta accadendo
oggi nel nord della Siria, nelle tre province a larga maggioranza curda del
Rojava. Tuttavia, alcune somiglianze sono così lampanti e preoccupanti, che
credo sia un dovere incombente per qualcuno cresciuto in una famiglia le cui
idee politiche furono per molti aspetti definite dalla rivoluzione spagnola,
dire: non possiamo permettere che le cose finiscano ancora una volta nello
stesso modo.
La regione
autonoma del Rojava, così come esiste oggi, è uno dei rari punti luminosi – ma davvero
molto luminosi – emergenti dalla tragedia della rivoluzione siriana. Dopo aver
scacciato gli agenti del regime di Assad nel 2011, e nonostante l’ostilità di
quasi tutti i suoi vicini, il Rojava non solo ha mantenuto la sua indipendenza,
ma porta avanti un rilevante esperimento democratico. Sono state create
assemblee popolari come organo decisionale supremo, Consigli attenti al
rispetto dell’equilibrio etnico (in ogni municipalità, per esempio, le tre
cariche più importanti devono essere ricoperte da un curdo, da un arabo e da un
cristiano assiro o armeno, e almeno uno dei tre deve essere una donna), ci sono
Consigli delle donne e dei giovani, e, con un nesso degno di nota alle Mujeres Libres (Donne Libere) della Spagna, una milizia di sole donne, la “YJA
Star” (l’Unione delle donne libere, in cui star
fa riferimento all’antica dea mesopotamica Ishtar), che ha condotto una larga
parte delle operazioni militari contro le forze dello Stato Islamico.
Come può qualcosa
di simile accadere e restare quasi totalmente ignorato dalla comunità
internazionale e anche, in gran parte, dalla sinistra internazionale?
Principalmente, sembrerebbe, perché il partito rivoluzionario del Rojava, il
PYD, ha stretto alleanza con il Partito Curdo dei Lavoratori (PKK) di Turchia,
un movimento guerrigliero marxista impegnato sin dagli anni settanta in una
lunga guerra contro lo Stato turco. La Nato, gli Stati Uniti e l’Unione Europea
lo classificano ufficialmente come “organizzazione terroristica”, mentre
l’opinione di sinistra lo rigetta come stalinista.
Ma, in realtà, lo
stesso PKK non assomiglia neppure lontanamente al vecchio partito leninista di
una volta, organizzato verticalmente. La sua stessa evoluzione interna, e la
conversione intellettuale del suo fondatore, Abdullah Ocalan, detenuto in
un’isola-prigione turca dal 1999, lo hanno condotto a mutare radicalmente obiettivi
e tattiche.
Il PKK ha
dichiarato di non cercare nemmeno più di creare uno Stato curdo. Ispirato in
parte dalla visione dell’ecologista sociale e anarchico Murray Bookchin,
ha invece adottato una visione di “municipalismo libertario”, invitando i curdi
a formare delle libere comunità autogestite, basate sui principi della democrazia
diretta, che si federerebbero oltre i confini nazionali – con la speranza che
questi, col tempo, perdano sempre più significato. In questo modo, essi suggeriscono
che la lotta dei curdi potrebbe diventare un modello per un movimento globale
verso una vera democrazia, un’economia cooperativa e la graduale dissoluzione
dello stato-nazione burocratico.
A partire dal 2005
il PKK, ispirato dalla strategia dei ribelli zapatisti in Chiapas, ha
dichiarato un cessate il fuoco unilaterale nei confronti dello Stato turco e ha
iniziato a concentrare i propri sforzi sullo sviluppo di strutture democratiche
nei territori già sotto il suo controllo. Alcuni si sono chiesti quanto tutto
ciò fosse veramente serio. Evidentemente, restano ancora degli elementi
autoritari, ma quel che è successo in Rojava, dove la rivoluzione siriana ha
dato ai radicali curdi l’opportunità di condurre tali esperimenti su un ampio territorio
dai confini unitari, suggerisce che si tratta di tutt’altro che di un’iniziativa
di facciata. Sono stati formati Consigli, assemblee e milizie popolari, le
proprietà del regime sono state trasformate in cooperative dirette dai
lavoratori – e il tutto nonostante i continui attacchi dalle forze di estrema
destra dell’ISIS. Il risultato coincide perfettamente con ogni definizione di
“rivoluzione sociale”. In Medio Oriente, almeno, tali sforzi sono stati notati:
in particolare dopo che il PKK e le forze del Rojava sono intervenuti con
successo per combattere nei territori dell’ISIS in Iraq, al fine di salvare
migliaia di rifugiati Yezidi intrappolati sul Monte Sinjar in seguito all’abbandono
del campo di battaglia da parte delle milizie locali peshmerga. Queste azioni
sono state ampiamente celebrate nella regione, significativamente però, nessuna
eco è risalita fino alla stampa europea o nord-americana.
Ora, l’ISIS è
tornato, con abbondanza di carri armati americani e di artiglieria pesante
sottratti alle forze irachene, per vendicarsi su molte di quelle stesse milizie
rivoluzionarie a Kobané, dichiarando la loro intenzione di massacrare e ridurre
in schiavitù – si, letteralmente ridurre in schiavitù – l’intera popolazione
civile. Nel frattempo, l’armata turca staziona sui confini, impedendo che
rinforzi e munizioni raggiungano i difensori mentre gli aeroplani americani rombano
in cielo bombardando puntualmente, con simboliche punture di spillo, giusto per
poter salvare le apparenze e non essere accusati di non avere fatto niente
contro un gruppo che ha dichiarato guerra ai difensori di uno dei più grandi
esperimenti democratici mondiali.
Se c’è un possibile
parallelo odierno con i sedicenti devoti di Franco, i Falangisti assassini, con chi farlo se non con
l’ISIS? Se c’è un parallelo con le Mujeres
Libres di Spagna, con chi farlo se non le coraggiose donne che difendono le
barricate a Kobané ? Davvero il mondo – e stavolta, fatto più scandaloso di
tutti, la sinistra internazionale – sta per rendersi complice lasciando che la
storia si ripeta ?
lunedì 20 ottobre 2014
Servizietto Zero
Ma è così
strano indignarsi davanti allo scempio di una città e di una Regione
malgovernate da decenni che quasi ogni anno contano i morti e all’ipocrisia dei
responsabili che cementificano tutto e poi pontificano in tv col culetto
al caldo nei loro salotti? Davvero parlare di queste porcate chiamandole col
loro nome e chiedendone conto a chi le ha fatte è violazione del bon ton e
rifiuto del contraddittorio? Davvero è bestemmiare gli angeli invitare
uno spalatore diciassettenne a guardare il faccione sformato di chi l’ha
costretto e sempre lo costringerà a spalare, e a pretenderne spiegazioni
anziché farsene ipnotizzare? Non sarà che il problema è opposto a quello
agitato dalle suorine delle buone maniere e della linesotis delle presunte
regole, e cioè che nessuno ha mai detto in faccia a questi sepolcri imbiancati
(di calce) quel che si meritavano, aiutandoli a rimpinzarsi di voti e di soldi
a suon di grattacieli, palazzi-alveare, parcheggi, ipermercati, porti
turistici, dando fra l’altro un sacco di lavoro ai giudici e ai secondini? Se i
colpevoli sono tutti al potere, convertiti in tarda età al renzismo per
rottamare non si sa chi, è anche perché troppa gente si lascia abbindolare dai
diversivi retorici tipo “angeli del fango” che, intendiamoci, fanno
benissimo e vanno ringraziati, purché però non si prestino a distrarre
l’attenzione dai portatori del fango.
Quanto a me,
attendo che qualcuno mi dica un solo fatto non vero tra quelli che ho ricordato
giovedì. Ma temo che anche stavolta, come sempre dal Satyricon di Luttazzi
nel 2001, la domanda resterà inevasa. Molto più facile dipingere i fatti come
“insulti” e le critiche come “rissa”, anche se me ne sono andato proprio per
evitare di trascendere davvero negl’insulti e nella rissa. Restare calmi e
zitti in quella bolgia di bugie e ipocrisie è un’impresa che può riuscire ai
figuranti da talk show, marionette senza sangue che s’incazzano e si placano a
comando, poi vanno a farsi due spaghi insieme. Io, quando sento certe balle e
vedo certe facce, mi indigno per davvero, specie se ci sono morti che
chiedono giustizia. Chi insinua dissensi politici fra il conduttore
renziano e il collaboratore grillino, risentimenti per l’ora tarda, nervosismi
da share, gelosie da primedonne, mente per la gola. Qui la questione è un po’
più seria. Esiste ancora nel talk show uno spazio indipendente per il talk
inteso come racconto di fatti veri al riparo dallo show, cioè del
pollaio gabellato per “contraddittorio” e “ascolto” dove chi ha torto e mente
passa dalla parte della ragione e della verità solo perché se ne sta comodo a
cuccia, certo dell’impunità politica che gli consente di sgovernare da 30
anni, in una notte dove tutte le vacche sono nere? Prima di domandarsi se
il collaboratore fa la pace col conduttore e torna a bordo, andrebbe sciolto un
rebus: cosa rimane, del giornalismo come lo conosciamo tutti, nei talk show?
Resterebbe da
parlare del solito Merlo che, in perfetta simbiosi col mèchato di Libero,
mi accusa su Repubblica di essermi “illividito da maramaldo in
cattiverie biografiche contro Burlando”, anzi “il povero Burlando”, dopo
una vita di “tv dell’insulto” (ma quali? me ne dica uno) “senza
contraddittorio, senza risposte né domande, chiuso e protetto nel recinto del
monologo sprezzante”. Questo presunto giornalista di cui sfuggono le notizie e
soprattutto i lettori (quando Repubblica testava con sondaggi le sue
firme più lette, Merlo guadagnava sempre l’ultima posizione), questo finto frondeur
che si crede Sciascia e Brancati solo perché è nato in Sicilia orientale e
passa il tempo a intrecciare merletti barocchi senza mai prendere posizione, se
non per bastonare chi si oppone al sistema, non ha mai visto una puntata di Annozero
e Servizio Pubblico. Sennò saprebbe che in 8 anni ho risposto a migliaia
di domande e affrontato centinaia di contraddittorii, senza che nessuno
riuscisse a smentire una sola mia parola. Piuttosto, quando mai il Merlettaio
s’è sottoposto al contraddittorio? Perché non chiede al direttore di Repubblica
di affiancare ai suoi articoli una replica del primo che passa? Forse perché
già conosce la replica: “Ma chi è questo Merlo?”.
Commento di
Sergio Ghirardi:
Burlando non è la
croce rossa ma un tank che spara cemento e intasca crediti politici e
sussidiariamente economici. Travaglio è un riformista autentico che di fronte
al belare suddito del sistema del presentatore burocrate, gauchista sdentato e
servitore volontario della democrazia spettacolare, finisce per essere caricato
di una radicalità che non credo affatto egli ami. Tempi cupi quando la sola
risposta udibile di fronte al borbottio indecente del potere è quella
dell'onestà intellettuale di qualche raro uomo coraggiosamente intelligente e
moderato. Siamo al minimo storico di una società libera che libera lo è meno
che mai, tra corruzione e cinismo becero del potere. Difendere oggi Travaglio è
la conditio sine qua non per riaprire
un giorno gli spazi della critica a una vera radicalità che - è bene
sottolinearlo visto che circola costantemente la calunnia contraria che parla
di "radicalizzazione" per parlare dei fanatismi estremisti più
mostruosi - non ha nulla a che fare con l'estremismo mentre ha tutto da
spartire con un progetto di rovesciamento di prospettiva, con una vera
democrazia, con una società finalmente umana.
Un primo giudizio su rogo e portafoglio
Pd: Pippo Civati, coraggio!
Non rischia mica il rogo
Qualcuno ci giudicherà è il titolo del suo libro. Le
spiace se do il mio contributo? Da malpancista del Pd è diventato
apertamente dissidente, ma – al di là delle etichette – nella sostanza non mi
sembra sia cambiato molto. La coerenza, valore inestimabile cui lei in queste
ore si appella per partecipare alla manifestazione della Cgil contro il Jobs
Act, è secondo il vocabolario “conformità tra le proprie convinzioni e
l’agire pratico”. Scusi ma questa conformità, nel suo comportamento
parlamentare, mi sfugge.
È stato coerente non votare la fiducia al governo
Letta e poi far passare tutto il resto? Promettere di vendicare Prodi, ma non
fare i nomi dei 101 che l’hanno impallinato? E siamo a Renzi. Capisco che ci
sia anche del risentimento personale, per essere stato rottamato ben due
volte nonostante l’età (dopo Leopolda 2010 e alle primarie 2013), ma è coerente
dire “Matteo sbagli” e poi votargli la fiducia? Soprattutto: adesso cosa farà
quando il Jobs Act – che lei critica duramente e giustamente – arriverà alla
Camera? Darà un’ennesima prova di coerenza, facendo come altri dissidenti: non
condivido ma dico sì lo stesso o mi astengo o esco dall’aula? O farà come il civatiano
Tocci che, dopo aver annunciato “voto la fiducia ma mi dimetto da
senatore”, ha poi
trovato il tempo di salvare il governo nel Def?
Forse è davvero il Palazzo a confondere le idee e a
creare queste scappatoie formali: sono quasi da rivalutare i voltagabbana di ieri,
quelli del “solo i cretini non cambiano idea” – almeno ammettevano di aver
cambiato idea –, di fronte ai tanti incoerenti di oggi che rivendicano la
coerenza. Il maestro – lei ha ragione – è Renzi, ma non si può rispondere alla
sua incoerenza (annunci, “promesse che non si realizzano” – come scrive nel suo blog – infedeltà al programma elettorale
e delle primarie) razzolando allo stesso modo. Tuonando e poi lasciando passare,
gettando il sasso e nascondendo la mano, con l’alibi della “democrazia
interna al partito”, del “comportamento corretto e leale verso gli
elettori” o, peggio ancora, del “bene del paese”.
La coerenza è molto più semplice: se non si condivide
un provvedimento, si vota no (solo così si può poi criticarlo anche in piazza,
non dopo averlo comunque avallato in Parlamento); se si dice “mi dimetto” si va
via; se non si è d’accordo con la linea del premier-segretario si saluta e si
prova ad affermare altrove le proprie idee. Questa è coerenza. Questo
sarebbe un comportamento leale e corretto verso gli elettori. Questo farebbe il
bene del paese.
Caro Civati, lo so: ci vuole coraggio. La coerenza è l’opposto della
convenienza, e può far pagare prezzi salati. Non voglio arrivare a ricordare, a
lei ex ricercatore in Filosofia, quel tal Giordano Bruno che pagò col rogo la
mancata abiura delle sue idee (giuste) sull’universo e sui mondi infiniti. Non
esageriamo. I roghi fortunatamente non ci sono più, e di coraggio oggi ne
basterebbe anche poco. Lei ne conserva almeno un grammo? Ci pensi quando passa
per Campo de’ Fiori, magari per un aperitivo. Un cordiale saluto.
Commento di
Sergio Ghirardi:
L'opportunismo di
Civati gli fa guadagnare lautamente da vivere come politico, alla faccia dei
milioni di diseredati che votano PD come altri vanno a Lourdes per guarire,
mentre per i servitori volontari giustificare il suo opportunismo come un segno
di alta strategia politica indica solo il loro stato di servitori volontari.
Il parlamentarismo è
la forma moderna del totalitarismo spettacolare-mercantile che ci prepara
all'orribile ritorno del mostro fascista. Se mai sarà reso necessario dal
rischio di una rivolta degli schiavi, quest'ultimo non durerà poi molto. Il
capitalismo ha bisogno di schiavi salariati che si credano liberi. Durerà solo
il tempo per fare rimpiangere ai servitori volontari il bel tempo andato della
democrazia spettacolare, con i suoi Scilipoti, Orellana, Razzi, Renzi,
Berlusconi e più modestamente Civati, della
sua corruzione sistemica e del suo cinismo redditizio meno raccapricciante
delle squadracce e dei pitbull razzisti e assassini pronti alla bisogna se
qualcuno osa occupare durevolmente le fabbriche o Wall Street o più
semplicemente la propria vita con una dignità da uomini liberi. Corsi e
rincorse storiche di una storia confiscata dallo spettacolo.
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