martedì 21 ottobre 2014

Perché il mondo ignora i Curdi rivoluzionari in Siria ? di David Graeber







Perché il mondo ignora i Curdi rivoluzionari in Siria ?
Articolo di David Graeber su The Guardian dell’8 ottobre 2014. Traduzione di Sergio Ghirardi, il 20 ottobre 2014.

In piena zona di guerra siriana un esperimento democratico sta per essere spazzato via dall’Isis. Che il mondo intero non ne sappia nulla è uno scandalo.
Nel 1937, mio padre fu volontario per combattere nelle Brigate Internazionali in difesa della Repubblica spagnola. Quello che si sarebbe concluso con un colpo di Stato fascista era stato temporaneamente bloccato da un sollevamento dei lavoratori, sostenuto da anarchici e socialisti. Ne seguì nella maggior parte della Spagna un’autentica rivoluzione sociale che ha portato intere città a essere gestite con metodi di democrazia diretta, le fabbriche sotto il controllo operaio e a un aumento radicale del potere delle donne.
I rivoluzionari spagnoli speravano di creare l’abbozzo di una società libera che tutto il mondo avrebbe potuto prendere a esempio. Invece, i poteri mondiali dichiararono una politica di “non intervento” e mantennero un rigoroso embargo nei confronti della repubblica, anche dopo che Hitler e Mussolini, finti sostenitori del “non intervento”, iniziarono a fare affluire truppe e armi per rinforzare la movenza fascista. Ne risultarono anni di guerra civile finiti con la liquidazione della rivoluzione e alcuni dei più sanguinosi massacri di un secolo sanguinario.
Non avrei mai pensato di vedere ripetersi, nel corso della mia vita, la stessa cosa. Ovviamente, nessun evento storico si ripete davvero due volte. Ci sono infinite differenze fra quello che accadde in Spagna nel 1936 e quello che sta accadendo oggi nel nord della Siria, nelle tre province a larga maggioranza curda del Rojava. Tuttavia, alcune somiglianze sono così lampanti e preoccupanti, che credo sia un dovere incombente per qualcuno cresciuto in una famiglia le cui idee politiche furono per molti aspetti definite dalla rivoluzione spagnola, dire:  non possiamo permettere che le cose finiscano ancora una volta nello stesso modo.
La regione autonoma del Rojava, così come esiste oggi, è uno dei rari punti luminosi – ma davvero molto luminosi – emergenti dalla tragedia della rivoluzione siriana. Dopo aver scacciato gli agenti del regime di Assad nel 2011, e nonostante l’ostilità di quasi tutti i suoi vicini, il Rojava non solo ha mantenuto la sua indipendenza, ma porta avanti un rilevante esperimento democratico. Sono state create assemblee popolari come organo decisionale supremo, Consigli attenti al rispetto dell’equilibrio etnico (in ogni municipalità, per esempio, le tre cariche più importanti devono essere ricoperte da un curdo, da un arabo e da un cristiano assiro o armeno, e almeno uno dei tre deve essere una donna), ci sono Consigli delle donne e dei giovani, e, con un nesso degno di nota alle Mujeres Libres (Donne Libere) della Spagna, una milizia di sole donne, la “YJA Star” (l’Unione delle donne libere, in cui star fa riferimento all’antica dea mesopotamica Ishtar), che ha condotto una larga parte delle operazioni militari contro le forze dello Stato Islamico.
Come può qualcosa di simile accadere e restare quasi totalmente ignorato dalla comunità internazionale e anche, in gran parte, dalla sinistra internazionale? Principalmente, sembrerebbe, perché il partito rivoluzionario del Rojava, il PYD, ha stretto alleanza con il Partito Curdo dei Lavoratori (PKK) di Turchia, un movimento guerrigliero marxista impegnato sin dagli anni settanta in una lunga guerra contro lo Stato turco. La Nato, gli Stati Uniti e l’Unione Europea lo classificano ufficialmente come “organizzazione terroristica”, mentre l’opinione di sinistra lo rigetta come stalinista.
Ma, in realtà, lo stesso PKK non assomiglia neppure lontanamente al vecchio partito leninista di una volta, organizzato verticalmente. La sua stessa evoluzione interna, e la conversione intellettuale del suo fondatore, Abdullah Ocalan, detenuto in un’isola-prigione turca dal 1999, lo hanno condotto a mutare radicalmente obiettivi e tattiche.
Il PKK ha dichiarato di non cercare nemmeno più di creare uno Stato curdo. Ispirato in parte dalla visione dell’ecologista sociale e anarchico Murray Bookchin,  ha invece adottato una visione di “municipalismo libertario”, invitando i curdi a formare delle libere comunità autogestite, basate sui principi della democrazia diretta, che si federerebbero oltre i confini nazionali – con la speranza che questi, col tempo, perdano sempre più significato. In questo modo, essi suggeriscono che la lotta dei curdi potrebbe diventare un modello per un movimento globale verso una vera democrazia, un’economia cooperativa e la graduale dissoluzione dello stato-nazione burocratico.
A partire dal 2005 il PKK, ispirato dalla strategia dei ribelli zapatisti in Chiapas, ha dichiarato un cessate il fuoco unilaterale nei confronti dello Stato turco e ha iniziato a concentrare i propri sforzi sullo sviluppo di strutture democratiche nei territori già sotto il suo controllo. Alcuni si sono chiesti quanto tutto ciò fosse veramente serio. Evidentemente, restano ancora degli elementi autoritari, ma quel che è successo in Rojava, dove la rivoluzione siriana ha dato ai radicali curdi l’opportunità di condurre tali esperimenti su un ampio territorio dai confini unitari, suggerisce che si tratta di tutt’altro che di un’iniziativa di facciata. Sono stati formati Consigli, assemblee e milizie popolari, le proprietà del regime sono state trasformate in cooperative dirette dai lavoratori – e il tutto nonostante i continui attacchi dalle forze di estrema destra dell’ISIS. Il risultato coincide perfettamente con ogni definizione di “rivoluzione sociale”. In Medio Oriente, almeno, tali sforzi sono stati notati: in particolare dopo che il PKK e le forze del Rojava sono intervenuti con successo per combattere nei territori dell’ISIS in Iraq, al fine di salvare migliaia di rifugiati Yezidi intrappolati sul Monte Sinjar in seguito all’abbandono del campo di battaglia da parte delle milizie locali peshmerga. Queste azioni sono state ampiamente celebrate nella regione, significativamente però, nessuna eco è risalita fino alla stampa europea o nord-americana.
Ora, l’ISIS è tornato, con abbondanza di carri armati americani e di artiglieria pesante sottratti alle forze irachene, per vendicarsi su molte di quelle stesse milizie rivoluzionarie a Kobané, dichiarando la loro intenzione di massacrare e ridurre in schiavitù – si, letteralmente ridurre in schiavitù – l’intera popolazione civile. Nel frattempo, l’armata turca staziona sui confini, impedendo che rinforzi e munizioni raggiungano i difensori mentre gli aeroplani americani rombano in cielo bombardando puntualmente, con simboliche punture di spillo, giusto per poter salvare le apparenze e non essere accusati di non avere fatto niente contro un gruppo che ha dichiarato guerra ai difensori di uno dei più grandi esperimenti democratici mondiali.
Se c’è un possibile parallelo odierno con i sedicenti devoti di Franco,  i Falangisti assassini, con chi farlo se non con l’ISIS? Se c’è un parallelo con le Mujeres Libres di Spagna, con chi farlo se non le coraggiose donne che difendono le barricate a Kobané ? Davvero il mondo – e stavolta, fatto più scandaloso di tutti, la sinistra internazionale    sta per rendersi complice lasciando che la storia si ripeta ?