jardin-kreyol de Balata |
Camarades, (splendida
parola francese che abbraccia compagne e compagni senza distinguo di genere)
Vi
ho tradotto da un bel francese creolo questo documento ormai vecchio di qualche
anno (2009) che contiene molte specificità ma anche stati d’animo, dubbi,
riflessioni e prese di coscienza che l’attualità torna a mettere prepotentemente
al centro dell’attenzione. Non è facile per dei poveri europei cogliere
pienamente la specificità creola, ma l’apporto di lucidità poetica di questo
testo mi pare importante. A voi di valutare la sua attualità internazionalista.
Dovunque,
infatti, in un pianeta malato dei suoi mammiferi umanoidi, il totalitarismo
light di una democratura elettoralistica diffusa come un antidoto truffaldino alle
arcaiche dittature esplicite, non nasconde più alle popolazioni arrabbiate e
scontente la realtà di classe di una democrazia parlamentare che non è altro
che la difesa accanita dei privilegi di una casta oligarchica dall'’hybris
patologica.
Il
testo che segue è certamente chiaro su un punto centrale: nella specificità della
loro nazione caraibica gli autori ci ricordano che ogni alternativa alla
mondializzazione produttivista presuppone la rivalutazione del “mangiare-paese”
(le manger-pays), cioè la
ricostituzione di un’autonomia locale perduta politicamente e socialmente. Ciò
è vero dappertutto, ben oltre la loro situazione in gran parte insulare di
colonie di oltremare. Sotto il dominio del Capitale reale, siamo comunque tutti
degli indigeni pesantemente colonizzati da un sistema produttivo che ha fatto
del profitto il dogma assoluto e dei cittadini degli aborigeni da sottomettere
al totalitarismo della merce venuta a civilizzarli.
Nella
civiltà produttivista, la nazione non è che la comunità immaginaria dello Stato
così come la massa dei consumatori è la comunità immaginaria del mercato. Con
lo Stato, la comunità sparisce e poiché lo Stato è incompatibile con la
democrazia reale, quest’ultima non potrà realizzarsi che attraverso
un’organizzazione consiliare diretta e autogestita della cosa pubblica e del
quotidiano comune di ogni nazione antropologica radicata nel locale e sensibile
a una fraternità planetaria.
La
fine del produttivismo, del capitalismo e delle gerarchie che confortano il
dominio di entrambi gli aspetti del Leviatano (Stato e Mercato) sono l’unica
alternativa possibile al tracollo tragico già in corso della società umana
esistente. Attendere ancora, prima di rovesciare radicalmente la prospettiva
della vita, comporta il rischio crescente di una decisione diventata inutile
perché tardiva.
Una
rabbia e una lucidità nuove si manifestano oggi, prepotentemente, dal Cile al
Rojava, dall’Algeria a Hong Kong, passando per l’Ecuador, ma anche altrove e di
nuovo in Francia, lumière spesso
anticipatrice di un’Europa ancora assopita nel suo recente super Stato
economicista.
Che
l’uguaglianza degli ineguali che siamo, diversi per genere, convinzioni,
desideri, fantasie e creatività ci guidi tutti verso una libertà autogestita da
tutte e da tutti, per tutte e per tutti. E che la radicalità che la poesia di
questo testo esprimeva già qualche anno fa, anticipando l’eruzione recente dei
Gilet Jaunes francesi, ci aiuti a migliorare le nostre coscienze e a tradurle
in pratica emancipatrice dovunque noi siamo.
Sergio
Ghirardi
Martinica-Guadalupe-Guyana-Reunion
MANIFESTO
PER I “PRODOTTI” DI ALTA NECESSITA
Ernest BRELEUR, Patrick CHAMOISEAU, Serge DOMI, Gérard
DELVER, Edouard GLISSANT, Guillaume PIGEARD DE GURBERT, Olivier PORTECOP,
Olivier PULVAR, Jean-Claude WILLIAM
Nel
momento in cui il signore, il colonizzatore proclamano “qui non c’è mai stato
un popolo”, il popolo che manca è un divenire, s’inventa nelle bidonville e nei
campi, oppure nei ghetti, nelle nuove condizioni di lotta alle quali un’arte
necessariamente politica deve contribuire.
Gilles Deleuze,
L’Image-temps
Ciò
non può significare che una cosa: non che non c’è via di uscirne, ma che l’ora
è venuta di abbandonare tutte le vie antiche.
Aimé Césaire, Lettera a Maurice Thorez
È con piena solidarietà e
senza alcuna riserva che noi salutiamo il profondo movimento sociale che si è
istallato in Guadalupe, poi in Martinica e che tende ed espandersi in Guyana e
nell’isola della Réunion. Nessuna delle nostre rivendicazioni è illegittima.
Nessuna è irrazionale in se e soprattutto non più enorme dei meccanismi del
sistema con il quale si confronta. Nessuna di esse deve dunque essere negletta
in quel che rappresenta, né in quel che implica riguardo all’insieme delle
altre rivendicazioni. La forza di questo movimento è, infatti, di avere saputo
organizzare su una stessa base quel che finora si era visto separatamente, vuoi
isolato nella cecità categoriale – per esempio le lotte finora inaudibili nelle
amministrazioni, negli ospedali, nelle scuole, negli stabilimenti, nelle
collettività territoriali, nel mondo associativo, in tutte le professioni
artigianali o liberali ...
Tuttavia, il più
importante è che per la dinamica del Lyannaj
[1] – che significa andare e
raggruppare, legare riunire e collegare tutto quel che si trovava desolidarizzato
– la sofferenza reale della maggior parte della gente (confrontata a un delirio
di concentrazioni economiche, di alleanze e di profitti) si ricongiunge con
aspirazioni diffuse, ancora difficili da esprimere ma ben reali, tra i giovani,
gli adulti, i dimenticati, gli invisibili e altri sofferenti indecifrabili
delle nostre società. La maggior parte di quelli che sfilano in massa scopre (o
ricominciano a ricordarsi) che si può prendere l’impossibile per il collo o
scalzare il trono della nostra rinuncia di fronte alla fatalità.
Questo sciopero è dunque
più che legittimo e più che benefico e quanti titubano, temporizzano,
tergiversano, rinunciano a dargli delle risposte decenti, si rimpiccoliscono e
si condannano. Per conseguenza, dietro la prosaicità del “potere d’acquisto” o
della “borsa della spesa” si profila l’essenziale che ci manca e che dà un significato
all’esistenza, vale a dire il poetico. Ogni vita umana un po’ equilibrata si
articola tra le necessità immediate del bere-sopravvivere-mangiare (in chiaro:
il prosaico) da un lato e dall'’altro l’aspirazione a un appagamento di se
stessi che si nutre della dignità, dell’onore, della musica, di canti, di
sport, di danze, di letture, di filosofia, di spiritualità, d’amore, di tempo
libero dedicato al compimento del grande desiderio intimo (cioè il poetico).
Come propone Edgar Morin, il vivere per
vivere così come il vivere per sé,
non sboccano su nessuna pienezza senza il donare
da vivere a quel che noi amiamo, a quelli che amiamo, agli impossibili e ai
superamenti ai quali aspiriamo. “L’aumento dei prezzi” o “la vita cara” non
sono dei piccoli diavoli ziguidi[2]
che sorgono davanti a noi per crudeltà spontanea o semplicemente dalla coscia
di qualche puro béké[3].
Sono i risultati di una dentatura di sistema in cui regna il dogma del liberalismo
economico. Quest’ultimo si è impadronito del pianeta, pesa sulla totalità dei
popoli e presiede in tutti gli immaginari – non a un’epurazione etnica ma a una
sorta di epurazione etica (intendere disincanto,
dissacrazione, desimbolizzazione e persino decostruzione)
di tutto il fatto umano.
Questo sistema ha
confinato le nostre esistenze in individuazioni egoistiche che ci sopprimono
ogni orizzonte e ci condannano a due miserie profonde: essere “consumatore”
oppure essere “produttore”. Il consumatore non lavora che per consumare quel
che produce la sua forza-lavoro diventata merce; mentre il produttore riduce la
sua produzione all’unica prospettiva di profitti senza limiti per dei consumi
fantasmatici senza confini. Il tutto apre a quella socializzazione antisociale di cui parlava Gorz in cui l’economico
diventa dunque la sua stessa finalità e diserta tutto il resto. Allora, quando
il “prosaico” non apre alle elevazioni del “poetico”, quando diventa la sua stessa
finalità e dunque si consuma, abbiamo tendenza a credere che le aspirazioni
della nostra vita e il suo bisogno di senso, possano situarsi nei codici barre
che sono il “potere d’acquisto” o “la borsa della spesa”. E peggio: finiamo per
pensare che la gestione virtuosa delle miserie più intollerabili dipenda da una
politica umana o progressista. È dunque urgente accompagnare i prodotti di
prima necessità con un’altra categoria di derrate o di fattori che
rileverebbero decisamente di “un’alta necessità”.
Per quest’idea di “alta
necessità” invitiamo a prendere coscienza del poetico già all’opera in un
movimento che, oltre il potere d’acquisto, porta in sé un’esigenza esistenziale
reale, un richiamo molto profondo agli aspetti più nobili della vita.
Allora che cosa mettere
in questi “prodotti” di alta necessità?
È tutto quel che
costituisce il cuore del nostro sofferto desiderio di fare popolo e nazione, di
entrare in dignità sul grande palcoscenico del mondo con un’esigenza che non si
trova oggi al centro dei negoziati in Martinica o in Guadalupe ma che si
esprimerà presto, senza dubbio, in Guyana e alla Réunion.
Prima di tutto, non si
potranno avere miglioramenti sociali soddisfatti di se stessi. Ogni avanzata
sociale non si compie veramente che in un’esperienza politica capace di trarre
le lezioni strutturanti da quel che è successo. Questo movimento ha messo in
luce il tragico sgretolamento istituzionale del nostro paese e l’assenza di
potere che gli serve da ossatura. Il “determinante”, oppure il “decisivo”, si
ottiene tramite dei viaggi o per telefono. La competenza non arriva che tramite
emissari. La disinvoltura e il disprezzo circolano a tutti i livelli. La
distanza, la cecità e la deformazione presiedono alle analisi. Gli pseudo
poteri Regione-Dipartimento-Prefetto, così come quella cosa che è
l’associazione dei sindaci, hanno mostrato la loro impotenza e persino il loro disfacimento,
quando una seria rivendicazione di massa si esprime in un’entità culturale
storica, identitaria, umana, distinta da quella della metropoli amministrante,
ma che non si è mai vista trattare come tale. Gli slogan e le domande hanno
subito saltato oltre i nostri “presidenti locali” per andarsene altrove.
Purtroppo, ogni vittoria sociale così ottenuta (con questo salto oltre a noi
stessi) che si fermasse lì, rinforzerebbe la nostra assimilazione, confortando
dunque la nostra inesistenza nel mondo e i nostri pseudo poteri.
Questo movimento deve
dunque germogliare in visione politica la quale dovrà aprirsi a una forza
politica di rinnovamento e di proiezione atta a farci accedere alla
responsabilità di noi per noi stessi e al potere di noi su noi stessi. Anche se
un tale potere non risolvesse davvero nessuno di questi problemi, ci
permetterebbe almeno di abbordarli finalmente in sana responsabilità,
affrontandoli dunque, anziché acquiescere alle gestioni esterne. La questione
békee e dei ghetti che
germogliano qui e là è una piccola questione che una responsabilità politica
endogena può risolvere. Lo stesso vale da tutti i punti di vista per la
ripartizione e la protezione delle nostre terre così come per l’accoglienza
preferenziale dei nostri giovani. Quella di un’altra giustizia o della lotta
contro il flagello della droga ne dipende largamente ... Il deficit di
responsabilità crea amarezza, xenofobia, paura dell’altro, diminuzione della
fiducia in se stessi... La questione della responsabilità è dunque di alta
necessità. È nell’irresponsabilità collettiva che proliferano i blocchi
persistenti negli attuali negoziati. Ed è nella responsabilità che si acquisisce
l’inventività, la souplesse, la creatività, la necessità di trovare delle
soluzioni endogene praticabili. È nella responsabilità che lo scacco o
l’impotenza diventano occasioni di effettiva esperienza e di maturazione. È con
la responsabilità che si tende più rapidamente e positivamente verso quel che è
essenziale tanto nelle lotte che nelle aspirazioni o nelle analisi.
In seguito, c’è l’alta
necessità di comprendere che il labirinto oscuro e inestricabile dei prezzi
(margini, sottomargini, commissioni occulte e profitti indecenti) è iscritto in
una logica del sistema liberale mercantile che si è esteso a tutto il pianeta
con la forza cieca di una religione. Gli organi di potere sono anche infognati
in un’assurdità coloniale che ci ha sviato dal nostro “mangiare-paese”, dal nostro ambiente prossimo e dalle nostre realtà
culturali per consegnarci ai modi alimentari europei senza pantaloni e senza jardins bo kay [4]. È come se la Francia
fosse stata formattata per importare tutta la sua alimentazione e i suoi prodotti
di grande necessità da molte migliaia di chilometri. Negoziare in questo quadro
coloniale assurdo con l’insondabile catena degli operatori e degli intermediari
può certamente alleviare qualche sofferenza nell’immediato; tuttavia,
l’illusorio beneficio di questi accordi sarà presto spazzato via dal principio
del “Mercato” e da tutti quei meccanismi che creano una nube di voracità
(dunque dei comportamenti approfittatori nutriti dallo “spirito coloniale” e
regolati dalla distanza) che i premi, i geli, gli arrangiamenti virtuosi, le
riduzioni opportuniste, risibili trucchi del dominio d’oltre mare, non
potrebbero limitare.
C’è dunque un’alta necessità di
viverci come caraibici nei nostri import-export vitali, di pensarci americani
per la soddisfazione delle nostre necessità, della nostra autosufficienza
energetica e alimentare. L’altra altissima necessità è poi d’iscriversi in una
contestazione radicale del capitalismo contemporaneo che non è una perversione
ma precisamente la pienezza isterica di un dogma. L’alta necessità è di tentare
subito di gettare le basi di una società non economica in cui l’idea di
sviluppare una crescita continua sarebbe scartata a vantaggio della
realizzazione di una condizione in cui, impiego, salario, consumo e produzione
sarebbero dei luoghi di creazione di sé e di compimento dell’umano. Se il
capitalismo (nel suo principio più puro che ne è la forma contemporanea) ha
creato questo Frankenstein consumatore che si riduce al suo paniere di
necessità, genera anche dei ben miseri “produttori” – padroni, impresari e
altri socio professionisti inetti – incapaci di affliggersi di fronte a un
aumento improvviso di sofferenza e all’imperiosa necessità di un altro
immaginario politico, economico, sociale e culturale. E in proposito non ci
sono campi differenti. Siamo tutti vittime di un sistema sfuocato,
globalizzato, che dobbiamo affrontare insieme. Operai e piccoli padroni,
consumatori e produttori, portano in loro, da qualche parte, silenziosa ma
irriducibile, quell’alta necessità che bisogna risvegliare: vale a dire il
vivere la vita e la propria vita elevandola costantemente verso la sua forma
più nobile e più esigente, dunque la più soddisfacente.
Ciò che
significa vivere la propria vita e la vita collettiva con tutta l’ampiezza del
poetico.
Si può mettere in ginocchio la gran
distribuzione mangiando sano e altrimenti.
Si possono mettere fuori gioco la SARA (Società Anonima della Raffineria
delle Antille) e le compagnie petrolifere rompendo con il tutto automobile.
Si possono bloccare le agenzie
dell’acqua, i loro prezzi esorbitanti, prendendo in conto, immediatamente, la
minima goccia come un bene prezioso da proteggere dappertutto, da utilizzare
come fossero gli ultimi spiccioli di un tesoro che appartiene a tutti.
Non si può vincere né superare il
prosaico restando nella caverna del prosaico; bisogna aprirsi al poetico, alla decrescita,
alla sobrietà. Nessuna delle istituzioni oggi tanto arroganti e potenti
(banche, multinazionali, supermercati, business men della salute e della telefonia
mobile ...) saprebbe né potrebbe resistergli.
Infine sulla questione dei salari e
dell’impiego. Anche a questo proposito bisogna determinare l’alta necessità.
Il capitalismo contemporaneo riduce
la parte salariale nella misura in cui aumenta la sua produzione i suoi
profitti. La disoccupazione è una conseguenza diretta della diminuzione del suo
bisogno di mano d’opera. Quando delocalizza, non è alla ricerca di una mano
d’opera abbondante, ma si preoccupa di un crollo accelerato della parte
salariale. Ogni deflazione salariale produce dei profitti che vanno
immediatamente nel gran gioco della finanza. Reclamare un aumento di salario
conseguente non è dunque per nulla illegittimo: è l’inizio di un’equità che
deve diventare mondiale.
Quanto all’idea del “pieno impiego”,
ci è stata introdotta nell’immaginario dalle necessità dello sviluppo
industriale e dalle epurazioni etiche che l’hanno accompagnato. Il lavoro era
all’origine iscritto in un sistema simbolico e sacro (d’ordine politico,
culturale, personale) che ne determinava le estensioni e il senso. Sotto la
regia capitalista ha perso il suo senso creatore e la sua virtù realizzatrice
nella misura in cui diventava nello stesso tempo, a detrimento di tutto il
resto, un semplice “impiego” e l’unica colonna vertebrale delle nostre
settimane e dei nostri giorni. Il lavoro ha finito per perdere ogni significato
quando, diventato esso stesso una semplice merce, si è messo a non rendere
possibile che il consumo.
Siamo ormai in fondo al baratro.
Dobbiamo reinstallare il lavoro in
seno al poetico. Per quanto accanito, faticoso esso sia, che torni a essere un
luogo di realizzazione, d’invenzione sociale e di costruzione di sé, altrimenti
che sia solo un utensile secondario tra altri. Esistono miriadi di competenze,
di talenti, di creatività, di follie benefiche che si trovano in questo momento
sterilizzate nei corridoi dell’ANPE (Agence Nationale Pour l’Emploi) e nei
campi senza filo spinato della disoccupazione strutturale nata dal capitalismo.
Anche quando ci saremo sbarazzati del dogma mercantile, i progressi tecnologici
(votati alla sobrietà e alla decrescita selettiva) ci aiuteranno a trasformare
il valore lavoro in una specie di arcobaleno che va dal semplice utensile
accessorio fino all’equazione di un’attività ad alta incandescenza creatrice.
Il pieno impiego non farà parte del prosaico produttivista, ma s’intenderà per
quel che si può creare di socializzazione, di autoproduzione, di tempo libero,
di tempo morto, per quel che potrà permettere di solidarietà, di condivisione,
di sostegno ai più in difficoltà, di rivitalizzazione ecologica del nostro
ambiente ... Si coglierà in “tutto quel che fa sì che la vita valga la pena di
essere vissuta”.
Ci sarà del lavoro e dei salari di
cittadinanza in quel che stimola, che aiuta a sognare, che spinge a meditare e
che apre la via alle delizie della noia, che istalla nella musica, che orienta verso
un’escursione nel paese dei libri, delle arti, del canto, della filosofia,
dello studio o del consumo di alta necessità che invita alla creazione – creaconsumo.
In valore poetico, non esistono né
disoccupazione, né pieno impiego, né assistenzialismo ma auto rigenerazione e
auto organizzazione, ma del possibile all’infinito per tutti i talenti, tutte
le aspirazioni. In valore poetico, il PIB delle società economiche rivela la
sua brutalità.
Ecco un primo paniere di esigenze
che portiamo a tutti i tavoli di discussione e ai loro prolungamenti: che il
principio di gratuità sia stabilito per tutto quel che permette un distacco
delle catene, un’amplificazione dell’immaginario, uno stimolo delle facoltà
cognitive, una messa in creatività di tutti, uno sbocco autonomo
dell’intelligenza sensibile. Che questo principio marchi il cammino verso i
libri, i racconti, il teatro, la musica, il ballo, le arti visive,
l’artigianato, la cultura e l’agricoltura ...
Invitiamo dunque a quelle utopie in
cui il politico non sarebbe ridotto alla gestione delle miserie inammissibili
né alla regolazione delle barbarie del “Mercato”, ma dove ritroverebbe invece
la sua essenza al servizio di tutto quel che conferisce un’anima al prosaico,
superandolo o usandolo nella maniera più stretta.
Facciamo appello a un’alta politica,
a un’arte politica che istalli l’individuo, la sua relazione all’Altro, al
centro di un progetto comune dove regni quel che la vita ha di più esigente, di
più intenso e di più eclatante, dunque di più sensibile alla bellezza.
Così, cari compatrioti,
sbarazzandoci degli arcaismi coloniali, della dipendenza e dell’assistenzialismo,
iscrivendoci risolutamente nella realizzazione ecologica dei nostri paesi e del
mondo a venire, contestando la violenza economica e il sistema mercantile, noi
nasceremo al mondo con una visibilità aumentata dal superamento del capitalismo
e da un rapporto ecologico globale con gli equilibri del pianeta ...
Allora, ecco
la nostra visione: piccoli paesi improvvisamente nel cuore nuovo del mondo,
improvvisamente immensi per essere i primi esempi di società postcapitaliste,
capaci di mettere in atto una realizzazione umana che s’iscrive
nell’orizzontale pienezza del vivente ...
[1] Nella lingua
della Guadalupe, lyannaj significa il legame collettivo, neologismo forgiato
durante gli anni di lotta dal LKP (Liyannaj Kont Pwofitasyon, Alleanza
contro il profitto) il cui porta parola è Elie Domata.
[2] Riferimento alle favole di Guyana
di Alfred et Auguste Saint-Quentin (19° secolo) riprese da Pierre Appolinaire
Stephenson per i bambini e i loro genitori.
[4] Questo giardino creolo s’iscrive
in una lunga tradizione dall’epoca degli indiani kalinagos e dei loro
« ichalis ». Vero riflesso della cultura creola, è un misto
d’influenze amerindie, africane, europee … Giardino di auto sussistenza per
eccellenza, vi si mescolano le piante commestibili, le piante medicinali e le
piante ornamentali in un sapiente insieme nello spazio e nel tempo che permette
una produzione familiare abbondante in uno spazio ristretto. Un vero modello
per l’agroecologia.
[5] Elogio di un genere letterario di
origine haitiana – La lodyans
– caratterizzato da un discorso breve
simile al racconto.