Vi fu un tempo in cui a
governare in Europa vi erano, per diritto divino, i monarchi. Una semplice
offesa al monarca poteva culminare - dopo ore di supplizi carnali - con lo
squartamento del malcapitato sulla pubblica piazza. Come noto, il concetto moderno di nazione trova le sue origini nelle tre
rivoluzioni in Inghilterra, Nordamerica e Francia, tra XVII e XVIII secolo.
E così, le monarchie precedenti e i sovrani per diritto divino
che governavano attraverso la macchina statale sulla moltitudine dei sudditi,
lasciano il posto ad un soggetto metaindividuale costituito idealmente da tutti
i cittadini che compongono la nazione.
La rivoluzione francese,
accorciando il corpo dei sovrani pose fine, un po' a singhiozzo, sia alla
lungaggine dei supplizi corporali sia al legame pseudogiuridico che univa il
governante terreno a quello celeste. In
Francia la rivoluzione ebbe il carattere della radicalità. Già quando il Terzo
Stato si proclamò Assemblea Nazionale Costituente avvenne un passaggio fondamentale:
da quel momento la nazione è riconosciuta come un tutto da cui non si può
prescindere. Il re è tale perché la nazione lo riconosce. Il seguito dispotico
e sanguinario e il successivo impero napoleonico non cancelleranno l’idea della
sovranità del popolo, che verrà ripresa in varie forme in tanti paesi d’Europa
e del mondo intero. A partire dall’Assemblea nazionale francese del 1789, la
nazione diveniva il corpo politico individuato che stava di fronte al sovrano:
“sovranità nazionale” era l’espressione rivoluzionaria opposta alla tradizione
dell’assolutismo dinastico.
Gli illuministi francesi si
misero in testa di far ragionare gli uomini illuminandone le menti.
L'analfabetismo a quell'epoca dilagante cominciò lentamente a regredire. I
testi scritti, che fino a quel momento venivano percepiti dal popolo analfabeta
come Testi Sacri, vergati da qualche mano in contatto con il mondo
sovrasensibile, cominciarono ad essere interpretati anche dal popolo. A dirla
tutta, la Chiesa, abituata da secoli a gestire il gregge, li aveva preceduti di
qualche secolo per mano degli odiati confratelli protestanti, traducendo la
Bibbia in tedesco.
I pensatori tedeschi amano
andare in profondità, sono i matematici e gli analitici del pensiero. Hanno,
però, grosse difficoltà a voltare la teoria in pratica e quindi risultano
sostanzialmente innocui agli occhi dei loro governanti. Lo stesso non avviene
per i loro confinanti. Le idee circolano e poi qualcuno finisce per metterle in
pratica. Sia come sia, l'Ottocento tedesco è tutto un fermentare di strane idee
sull'uomo, la natura e le cose di questo mondo. A qualcuno, cresciuto alla
scuola dei Feuerbach, dei Fichte e degli Hegel viene in mente di affermare che
Dio è “l'oppio dei popoli” e che è ora di smetterla di espiare in terra per
mano dei dominanti e degli sfruttatori, consolandosi, pensando alla favoletta
salvifica e riscattatrice del Regno dei Cieli. Regno che ci affrancherà il
giorno in cui le trombe divine suoneranno e risvegliranno i morti che
finalmente risorgeranno dalle loro tombe e potranno contemplare Dio, Uno e
Trino, per tutta l'eternità. Sempre che se lo siano meritati espiando l'onta di
essere nati marchiati dal peccato originale in quella valle di lacrime e noia
che è il regno terreno.
Nel contempo, però, le
nazioni andavano consolidandosi sciogliendo i legami con i monarchi e con le
alterne vicende della storia dinastica, militare ed ecclesiastica. Le nazioni
europee, affermando il principio della sovranità popolare, cominciavano a
percepirsi come un corpus, appellandosi alle specifiche identità nazionali,
smussando le inevitabili differenze e presentando ognuna il proprio pedigree.
Fioriscono le leggende e i racconti atti a dimostrare la propria continuità
storica, la lingua diventa il veicolo identitario e nello stesso tempo il mezzo
per identificare il pericolo rappresentato dall'altro e diffidare dello
straniero (il potenziale nemico). Si passano al setaccio i luoghi della
memoria, si erigono statue in onore degli eroi nazionali, si sottolinea la fondamentale
importanza del folklore, dei costumi locali e dell'arte culinaria locale. La
prima fase che potremmo definire di costituzione identitaria e di lotta contro
l'assolutismo si protrae fin dopo il 1848. La
sovranità degli Stati era divenuta, dunque, l’asse della storia, l’elemento che
la orienta; il nomos della
Terra nello jus publicum europaeum.
La sovranità moderna, nata dalla crisi dell’idea
medievale della pace come ristabilimento della giustizia che non è più in grado
di far fronte al grande dinamismo impresso alla società europea, ha come
obiettivo quello di produrre l’ordine, non di reintegrare una giustizia
naturale.
In
seguito prende avvio la fase burocratica: come stabilire i confini della
nazione? La teoria moderna della sovranità, come noto, ha posto al centro della
politica lo spazio. E il principio spaziale apre ad una concezione territoriale
della politica. Come dimenticare Hobbes e il contrattualismo, che trasforma lo
spazio in un'area di stati sovrani che utilizzano il confine come simbolo di
tale configurazione spaziale e della differenziazione di due popoli? Da allora,
l'Atlantico ricoprirà un ruolo fondamentale nel Leviatano, perché rappresenta
lo spazio dello stato: l’Atlantico simboleggia la logica europea dello Stato.
Per
confermare, allora, il possesso di quel dato territorio, si evocano le ombre
dei trapassati che vengono ridestati dal sonno eterno, ma al contempo nascono i
primi contenziosi tra gli stati che si contendono porzioni di un determinato
territorio.
Il sorgere delle nazioni
nell'Ottocento segnò la sconfitta politica delle idee universalizzanti
dell'illuminismo che, come è noto, si era sforzato di trovare delle regole
valide per ogni governo. Secondo questa visione del
mondo, lo Stato-nazione dovrebbe garantire, meglio di quanto non avessero fatto
le precedenti formazioni monarchiche, tranquillità sociale e sviluppo
economico. Naturalmente l’unificazione territoriale e un vago sentimento
unitario non sono sufficienti a costituire una nazione coesa, bisogna lavorare
sul materiale umano e plasmarlo in funzione nazionale.
In questa prospettiva,
soprattutto gli italiani e i tedeschi si ersero a veri e propri paladini
dell'individuale, della singola nazione... in sostanza: dello Stato nazionale.
Questa volta però non fu sufficiente tirare in ballo le ombre dei morti per
confermare il possesso di un territorio, ma si fece un balzo all'indietro di
migliaia di anni e si rispolverò l'animismo. I tedeschi, grazie ai Romantici,
fanno parlare i fiumi, i prati, gli alberi e la Luna. Tutto si anima. Fichte,
nel suo pur lodevole tentativo di porre un argine alle velleità di conquista
napoleoniche, serra le fila con i suoi Discorsi alla nazione tedesca e,
senza volerlo, finisce per porre le basi per un ideale nazionalistico e pangermanistico.
L'io tedesco non deriva dall'universalità, ma al contrario è questo stesso
io che genera l'universalità. Gli italiani dal canto loro sottolineano che
l'dentità non è solo linguistica ed etnica, ma di tradizione e di pensiero.
Insomma: l'Italia ha un'anima tutta sua che si distingue da quella degli altri
Paesi. La passione per la nazione era tale che presto finì per coincidere con
la Patria. Con l'aggiunta di un pizzico di condimento divino il brodino era
pronto per essere servito: Dio, Patria, Nazione.
La nazionalizzazione delle masse avviene più
agevolmente quando nello Stato-nazione prevale un certo autoritarismo, quando
la storia – nella cui narrazione compaiono elementi fantasiosi e irrazionali –
viene investita della missione di forgiare cittadini orgogliosi della propria
origine, fieri dell’avvenire che li attende e pronti alla difesa della patria.
Visto che i confini fra gli stati europei sono abbastanza definiti e in ogni
caso non è così semplice modificarli, la grandezza della patria si accresce
gareggiando nelle conquiste coloniali e ritrovando Dio.
Nei fatti, una popolazione nazionale omogenea non
coincide quasi mai con il rispettivo stato nel quale è inquadrata, e ciò può
servire a chi detiene il potere per alimentare lo spirito nazionalistico. Le
controversie sociali interne vengono sopite dallo spirito unitario e la
propaganda del potere ha buon gioco nell’attribuire le cause del malessere
sociale agli altri, agli stati vicini che con le loro politiche danneggiano
l’economia nazionale. Le alleanze tra paesi nazionalistici non hanno idealità
profonde, ma sono solo funzionali ad una Realpolitik finalizzata a mettere in
difficoltà l’avversario per dividersi le sue eventuali spoglie.
Con il trascorrere del tempo il progressivo sviluppo
del sistema capitalistico, sistema che ha assunto i caratteri di un vero e
proprio deus ex machina, ha corroso, relegandoli al ruolo di comparse, i
princìpi cardine dello Stato-nazione.
Ciò che è rimasto invariato è soltanto il principio fondante del sistema capitalistico che, oggi come ieri, si
basa sulla produzione, la circolazione e il consumo di merci.
Ciò che invece è radicalmente mutato è il modo in cui i mondi industriale,
commerciale e finanziario si rapportano tra loro, con gli Stati, con le
conseguenze che ne derivano.
Nell'attuale fase di dominio del capitale, ai processi di globalizzazione
dell'economia transnazionale non corrispondono adeguate istituzioni
democratiche transnazionali.
La globalizzazione dei mercati, che non conosce confini territoriali, ha
progressivamente eroso il potere di intervento degli stati sovrani, relegandoli
al ruolo di attori comprimari. A prendere decisioni di vitale importanza per il
destino di milioni di esseri umani e dell'economia non sono più gli stati, ma
gruppi di esperti che agiscono esclusivamente in base al principio della
massimizzazione dei profitti. E la massimalizzazione dei profitti non contempla
i principi elementari della democrazia e del senso di responsabilità per la
comunità.
Paradossalmente, mentre da un lato il processo di globalizzazione e
liberalizzazione dei mercati non conosce limiti, dall'altro proprio le
istituzioni politiche globali che, a partire dalla seconda Guerra Mondiale ne
avrebbero dovuto controllare il funzionamento, sono state imbavagliate e
marginalizzate.
La globalizzazione, imposta al mondo come promessa di felicità in terra, si
è rivelata una falsa promessa di crescita economica, stabilità, sicurezza e
pace.
La crescita economica infatti si sta trasformando in progressivo declino
delle economie forti (Usa, Giappone).
La stabilità è minacciata dalla crisi dei mercati finanziari, dalla
crescente disoccupazione e dalle incertezze che serpeggiano tra i piccoli
risparmiatori.
La sicurezza è messa a dura prova non tanto dalle immense ondate migratorie
provenienti dai cosiddetti paesi del Terzo Mondo, quanto dall'incapacità degli
stati nazionali di dare una risposta positiva a questa situazione d'emergenza.
Alle promesse di pace si sono rapidamente sostituiti i proclami di guerra dei
vari fondamentalismi religiosi e ultranazionalisti. La nuova ondata migratoria
prevista dall'Ucraina non farà altro che aggravare la già precaria situazione.
In Gemania l'AFD e i cascami dell'ultranazionalismo stanno già affilando i coltelli.
Putin, ignorando il fatto di trovarsi nell'era della globalizzazione, ha
commesso il fatale errore di dar corso, in Occidente, ad una guerra
convenzionale fuori tempo massimo. Il suo maldestro tentativo di condurre un Blitzkrieg
si rivelerà un disastro sia dal punto di vista strategico che militare. I primi
ad accorgersi di questo suo fatale modus operandi sono stati proprio quelli che
lui riteneva essere i suoi alleati, i cinesi. La Cina non ha alcun interesse a
muoversi in questo pantano guerrafondaio. Essa si è magnificamente adeguata - e
con che risultati! - alle nuove dinamiche del capitale e quindi è ben
consapevole che nell'era della globalizzazione le guerre si conducono con altri
mezzi, sul terreno della finanza e dell'economia. Putin è probabilmente
destinato a far la fine del Prete Gianni che, stando alle cronache riportate
nel Milione di Marco Polo, “oltre a tutti i territori conquistati perse anche
la vita”. Non se ne abbiano a male gli interventisti rossobruni o di altra
matrice!