Riuscito
o mancato, l’obiettivo di ogni movimento vitale, quindi anche del mio, è il
superamento. Non si tratta di opporre la verità alla menzogna, il vero al
falso, ma di scoprire, oltre le contraddizioni, una verità in costante divenire
che affini la teoria comune in fieri spogliandola dalle ideologie parassite.
Che ci crediate o no, che quel che resta del disprezzo di classe reciproco vada
contro il popolo bue e ignorante o attacchi l’intellettuale forbito che parla
bene e razzola male, l’ombrello della mia sincera voglia di vivere mi protegge
dalla pioggia acida dei pregiudizi e dagli sputi impotenti di qualunque morale.
La
mia giovinezza é stata marcata intellettualmente dall’incontro con Marx, Reich
e i situazionisti. Soprattutto ma non solo, ovviamente, per qualcuno che ha
finito per essere dichiarato professore di filosofia dalle Istituzioni e che ha
quindi avuto accesso a tutti i libri che voleva (anche a quelli aborriti)[1]. Sono
stato dunque dichiarato filosofo quasi senza accorgermene, senza che mi
sfiorasse l’idea di proclamarlo ai quattro venti se non per gioco sulla mia
carta d’identità dove avrei preferito, però, scrivere psicogeografo ma non è stato possibile. In realtà, sia prima sia
dopo la Laurea in scienze umane e storia[2], la mia
priorità radicale è sempre stata l’esplorazione di una vita senza tempi morti,
il godimento concreto, corporale, della vita che la sessualità e lo sport mi avevano
indicato con prepotenza fin da giovane, tra voglia di vivere e alienazione.
Amor che a nullo amato amar perdona. Fare cultura mescolando la mia vita con
quelle di compagne e compagni di varie umanità che a loro volta incrociavano la
mia esistenza è stata la mia tendenza prioritaria in nome di un godimento pratico
dell’essere al mondo onorato in tutte le sue forme sensuali e sensibili, dalla
sessualità alla musica, passando per la gastronomia e i viaggi, il più
possibile psicogeografici.
Ho
sempre diffidato di tutte le Istituzioni come organi di un potere che ho tenuto
lontano come meglio potevo sia nei rapporti individuali che sociali. Per
fortuna non ero e non sono, nonostante le apparenze, un intellettuale. Non coltivo,
cioè, alcuna supremazia ideologica imposta a parole e consumata nei fatti, tra
narcisismo e lucro, su quanti non condividono le mie idee meravigliose o le
condividono religiosamente, vale a dire senza l’autonomia necessaria per essere
liberi.
Ho
scoperto tardivamente il termine di ACRAZIA, ma mi ha sempre guidato senza
saperlo anche prima di scoprirlo. Ne conoscevo i contenuti grazie al mio buon
padre autoritario contro il quale ho imparato a battermi fin dall’infanzia. Una
brava persona con alcune qualità umane certamente apprezzabili ma sofferente
nella sua energia vitale, dunque pesante da sopportare, cosicché ho dovuto
difendermi e imparare a farlo senza riprendere a mia volta la facilità
autoritaria con il rischio di diventare altrettanto pesante del mio genitore.
Non è stato facile e conosco chi dirà che non ci sono riuscito. Secondo me,
invece, almeno in parte ma mai abbastanza, credo di avere raggiunto lo scopo
grazie alla sensibilità femminile che m’ispira e mi dona piacere da decenni
mostrandomi la sua capacità di marcare i rapporti sociali dei mammiferi che
siamo ineluttabilmente, con la sua spontanea centralità acratica. Il che non
garantisce che tutte le donne ne siano portatrici, perché nessun genere è al
riparo dal rischio di addomesticamento che la civiltà produttivista fa pesare
senza distinzioni da millenni sugli esseri umani; tuttavia, quelle che non sono
salite, volenti o nolenti, sul carro del fascismo patriarcale o della sua
versione al femminile (il matriarcato), hanno preservato le doti innate di
genitalità acratica che noi maschietti abbiamo abbondantemente dissipato sull’altare
fallico della virilità.
Nella
mia riflessione, Proudhon è passato come una meteora. L’ho guardato di riflesso
in quanto antagonista di Marx. Poi, una volta acquisita una sensibilità
radicale al conflitto di genere, l’ho percepito come qualcuno la cui pur
indubbia intelligenza sensibile si era bloccata di fronte allo spauracchio che
il femminile evoca per il maschio patriarcale di qualunque cappella ideologica.
Lettura plausibile la mia, ma semplicistica. C’è voluta dunque la passione per Proudhon
di un caro amico che stimo per spingermi tardivamente, già con lo zaino della
vecchiaia sul dorso, a un incontro meno superficiale con quest’altro cantore
della cosmogonia libertaria nella quale mi sono mosso se non come un pesce
nell’acqua almeno come un cuoco in cucina. A chi ne abbia voglia, stabilire la
commestibilità dei miei piatti.
Il
nodo triangolare delle mie Bermude teoriche originarie (Marx, Reich,
situazionisti) è cominciato con l’incontro con il Marx giovanile che ha aperto
la finestra della mia coscienza sociale al mio arrivo nelle marmoree stanze
dell’università genovese, nella famosa via Balbi. Il giovanotto che ero dalla
cultura liceale e familiare aperta ma limitata, amava con il suo corpo vivo la
libertà ma non conosceva le parole giuste per dirla e sostenerla se non attraverso
una risposta istintiva all’autoritarismo altrui.
Non
solo per me ma per molti in quegli anni storici, l’identità proletaria e la
lotta di classe sono state sottoposte a un’agopuntura sociale che ha segnato la
fine di un’epoca, un tornante incompiuto della storia ancora oggi. Infatti, i
due concetti succitati sono archiviati nell’attesa di un superamento urgente e necessario
perché la lotta è stata integrata allo spettacolo sociale e le classi si sono
sciolte in caste di una società artificiale planetaria, digitalizzata e unica per
tutti i perdenti, ricchi o poveri, sfruttatori o sfruttati, disperati o
opportunisti, ben nutriti o morti di fame, tutti mascherati da democratici
fittizi con il telefono in mano e, almeno psicologicamente, moribondi di fronte
al decadimento radicale delle condizioni di vita sul pianeta.
Lo
sport è come l’intellettualismo: nei due casi, se non colleghi lo spirito al
corpo, puoi solo scegliere una forma di fascismo suprematista per cercare d’importi
agli altri, dominarli, umiliarli e offenderli con un potere indecente che
soffoca la potenza orgastica fondata sull’aiuto reciproco e la solidarietà. In
un mondo frustrato e frustrante il gioco è un esercizio di respirazione. In
particolare nell’italietta cattolica del dopoguerra di cui ero un enfant sauvage senza saperlo, quello del
calcio è stato uno straccio di paradiso nel ghetto; un attimo di potenza vitale
nell’ordinario triste della sopravvivenza, prima che lo tsunami del denaro finanziarizzato
corrompesse il gioco riducendo lo sport, e il calcio in particolare, a un
lavoro privilegiato per poveri stupidi arricchiti e il dispendio d’energia che
lo rende attraente alla sua misera dimensione mercantile, becera, umiliante e
soprattutto immensamente noiosa a praticare e ancora di più a guardare. Per il
ragazzo che ero, lo sport è stato una palestra di vita, dove sapevo dribblare
chi voleva impedirmi di avanzare liberamente e dove sapevo danzare col corpo
assai bene per dare al pallone una traiettoria magica e farlo entrare in porta
dove volevo io, portiere o no. Come negare che ne ho goduto in modo neppure
lontanamente comparabile con il tiepido piacere intellettuale di leggere La Nausea di Sartre?
Nel
gioco, come in amore, il corpo si esprime liberamente a patto di non essere
sempre e soltanto voyeur. E nel gioco, più che in amore, nessuno lo è mai
intimamente e definitivamente se lo vuole, a differenza della vita quotidiana,
dove con lo sfruttamento non c’è niente da fare. Nulla se non la rivoluzione, certo,
ma non quella delle parole come armi e delle armi come parole che uccidono in
cerca di potere. Ed ecco che invece di parlare di Marx ho parlato di me e, a
mio avviso, anche di voi, dovunque sia situata la vostra tana, il vostro campo
di gioco. Eppure Marx c’entra. Provate a leggerlo. È un poeta sublime prima ancora
che una delle teste più lucide dell’era moderna. Il che non mi rende marxista perché
Marx ha contribuito a quell’ideologia comunista che è stata il peggior nemico
di una società a venire in cui ciascuno possa avere secondo i suoi bisogni per poter essere quello che vuole diventare, che lo sappia già o stia ancora
cercando.
Sublime
Marx che ci dice che il comunismo è la realizzazione dell’individuo, ma è
difficile cogliere nel socialismo che doveva preparare queste nobili condizioni
nient’altro che un totalitarismo capace di ucciderti perché porti gli occhiali,
perché vuoi i soviet acratici e non un Soviet supremo. La mostruosità del
potere di ogni risma è tale che verrebbe da ridere se non fosse insopportabile.
Il potere è un tergicristallo che percorre lo specchio sociale da destra a
sinistra e reciprocamente, il cui vai e vieni non fa che accentuarsi quando dei
gentili imprenditori democratici intravvedono
nella massa dei più vecchi sopravvissuti alla sopravvivenza una fonte di
redditività che ne fa gli scampati di un ghetto da avviare alla morte con
razionalità nazista e spirito commerciale a tracolla, anziché sostenerli e
aiutarli, loro arrivati al rispettabile e commovente tramonto della vita.
La
banalità del male di questi mercanti di morte che denunciano ipocritamente il
totalitarismo comunista mentre organizzano dei campi di concentramento redditizi
per immigrati, per vecchi, per giovani, per donne, per sognatori e per chiunque
non si sottometta alla norma della merce sovrana, si aggiunge a quella denunciata
da Hannah Arendt, banalità il cui spot pubblicitario circola sempre: il lavoro rende liberi. Tutti i mercanti
democratici sono, infatti, d’accordo su questo mantra morboso.
Ecco
quindi, per finire questo mio dribbling verso la porta avversaria, quel che non
è che un inizio fra i tanti debutti necessari e auspicabili, diversi e
contradditori. Un po’ di Proudhon come antidoto intelligente a tutti i cospirazionismi
poiché dei situazionisti e del mio amico Wilhelm Reich ho già parlato
abbastanza: “Essere
governati è essere tenuti d'occhio, ispezionati, spiati, diretti, legiferati,
regolamentati, parcheggiati, indottrinati, predicati, controllati, stimati, apprezzati,
censurati, comandati da individui che non hanno né il titolo né la scienza, né la
virtù... Essere governati significa essere, a ogni operazione, a ogni transazione,
a ogni movimento, annotati, registrati, recensiti, prezzolati, timbrati, tosati,
quotati, patentati, licenziati, autorizzati, annotati, ammoniti, impediti,
riformati, rettificati, corretti. Con il pretesto della pubblica utilità e in
nome dell'interesse generale, significa essere obbligati a contributi ed
esercitazioni, essere ricattati, sfruttati, monopolizzati, estorti, pressati,
disorientati, derubati; poi alla minima resistenza, alla prima parola di
lamentela, repressi, multati, diffamati, vessati, braccati, molestati,
storditi, disarmati, garrottati, imprigionati, fucilati, mitragliati,
giudicati, condannati, deportati, sacrificati, venduti, traditi, e come colmo,
giocati, ingannati, oltraggiati, disonorati”.
Oggi siamo ben piazzati per
vedere che la storia non si ferma mai e che non ci libereremo con nessuna
piroetta ideologica della crisi sanitaria che imperversa aggiungendosi al
degrado climatico, sociale e vitale. Tutti i disastri annunciati e altri che il
produttivismo ci sta preparando esortano la nostra residua umanità a superare
tutte le ideologie. Nessuna morale reazionaria o rivoluzionaria, nessuno Stato
o Mercato, nessuna avanguardia o oscurantismo ci porteranno magicamente oltre
il mondo morboso che ci travolge con le sue malattie. Sarà ed è già necessario
prendersi cura di sé con uno slancio di reciproca solidarietà, diffidando di
tutti i mercanti di sciroppi che spiano e manipolano gli indiani che siamo.
Indiani che vogliono essere e non accontentarsi
di un avere miserabile e mistico che
dei ricchi oligarchi gestiscono a loro vantaggio.
La batracomiomachia dei
vaccinati e dei non vaccinati ha esteso a tutto il popolo e alla vita
quotidiana l'opposizione intellettuale tra la filosofia della miseria e la
miseria della filosofia. Andare oltre questa lite che lo spettacolo ci infligge
a grandezza naturale è un omaggio, senza dio né padrone, tanto a Proudhon
quanto a Marx, ma è soprattutto la conditio
sine qua non della sopravvivenza della nostra umanità.
Sergio Ghirardi
Sauvageon, 14 febbraio 2022
[1]
Soprattutto in un’epoca in
cui persino per chi mancasse di mezzi non era davvero difficile accedere a
qualunque lettura desiderata, surrettiziamente o no, per semplice pratica
dell’abolizione dell’appropriazione privativa.
[2] Titolo conseguito quattro anni
dopo il mitico maggio 68 con tutti i ridicoli onori cattedratici che mi hanno
sfiorato come il lavaggio automatico accarezza un’automobile, meccanicamente,
senza emozioni, senza illusioni né benefici se non qualche periodo
d’insegnamento a dosi omeopatiche in Italia, Inghilterra e Francia.
Notes autobiographiques d’un animal au cirque
Au-delà de Marx et Proudhon, le couple des champions
Réussi ou
non, le dépassement est le but de tout mouvement vital, donc du mien aussi. Il
ne s'agit pas d'opposer vérité et mensonge, le vrai au faux, mais de découvrir,
au-delà des contradictions, une vérité en devenir constant qui polisse la
théorie commune in fieri en la dépouillant
des idéologies parasitaires. Croyez-le ou non, que ce qui reste du mépris de
classe réciproque attaque la populace bête et ignorante ou l'intellectuel poli
qui ne pratique pas ce qu’il prêche, le parapluie de ma sincère volonté de
vivre me protège des pluies acides des préjugés et des crachats impuissants de
toute morale.
Ma
jeunesse a été marquée intellectuellement par la rencontre avec Marx, Reich et
les situationnistes. Surtout mais pas seulement, bien sûr, car quelqu'un qui a
fini par être déclaré professeur de philosophie par les Institutions a forcément
eu accès à tous les livres qu'il voulait (et même à ceux qu’il ne voulait pas)[1]. Je fus donc promu philosophe presque sans m'en rendre compte, sans que jamais
ne me traverse l’idée de le proclamer aux quatre coins de la terre, sauf, par plaisanterie,
sur ma carte d'identité où j'aurais pourtant préféré écrire psychogéographe mais ce ne fut pas
possible. En fait, avant comme après ma Maîtrise
de sciences humaines et histoire[2], ma priorité radicale a toujours été la poursuite
d’une vie sans temps morts, la jouissance concrète et corporelle de la vie dont
la sexualité et le sport m'avaient, tout jeune, signalé puissamment
l’existence, entre envie de vivre et aliénation.
Amor che a nullo amato
amar perdona. Faire culture en mêlant
ma vie à celles de compagnes et compagnons aux penchants differents qui à leur
tour croisaient mon existence, a été ma tendance prioritaire au nom d’une
jouissance pratique d’être au monde honorée sous
toutes ses formes sensuelles et sensibles, de la sexualité à la musique, en
passant par la gastronomie et les voyages, psychogéographiques autant que
possible.
Je me suis toujours méfié de toutes les Institutions
en tant qu'organes d'un pouvoir que j'ai tenu à l'écart du mieux que j'ai pu
tant dans les relations individuelles que sociales. Heureusement, je n'étais
pas et je ne suis pas, malgré les apparences, un intellectuel. C'est-à-dire que
je ne cultive aucune suprématie idéologique imposée en paroles et consommée en
actes, entre narcissisme et profit, sur ceux qui ne partagent pas mes idées
merveilleuses ou les partagent religieusement, c'est-à-dire sans l'autonomie
nécessaire pour être libres.
J'ai découvert le terme ACRATIE tardivement
mais, avant même que je ne le découvre il m'a toujours guidé sans que je le
sache. J'en connaissais les significations grâce à mon bon père autoritaire
contre qui j'ai appris à me battre depuis l'enfance. Une très bonne personne
avec quelques qualités humaines certes appréciables mais souffrant dans son
énergie vitale, donc lourd à supporter, si bien que j'ai dû me défendre et
apprendre à le faire sans utiliser à mon tour la facilité autoritaire au risque
de devenir moi-même tout aussi lourd que mon père. Ce n'était pas facile, et je
connais qui dira que je n'ai pas si bien réussi. A mon sens, cependant, au
moins en partie mais jamais assez, je crois avoir atteint le but grâce à la
sensibilité féminine qui m'inspire et me donne du plaisir depuis des décennies
en me montrant sa capacité à marquer de sa centralité acratique spontanée les
rapports sociaux des mammifères que nous sommes. Ce qui ne garantit pas que
toutes les femmes en soient porteuses, car aucun genre n'est à l'abri du risque
de domestication que la civilisation productiviste fait peser depuis des
millénaires sur tous les humains sans distinction ; néanmoins, celles qui
n'ont pas grimpé, bon gré mal gré, dans le wagon du fascisme patriarcal ou dans
sa version féminine (le matriarcat), ont conservé les qualités innées de
génitalité acratique que nous, les garçons, avons dissipées sur l'autel
phallique de la virilité.
Dans ma réflexion, Proudhon est passé comme
un météore. Je le regardais par réflexe comme un antagoniste de Marx. Puis, une
fois acquise une sensibilité radicale au conflit de genre, je l’ai perçu comme quelqu'un
dont l'indiscutable intelligence sensible avait été saisie par l’épouvantail
que le féminin évoque au mâle patriarcal de toute chapelle idéologique. Lecture
plausible la mienne, mais simpliste. Il a donc fallu la passion pour Proudhon
d'un ami cher que j'estime pour m’inciter tardivement, déjà chargé du sac à dos
de la vieillesse, à une rencontre moins superficielle avec cet autre chantre de
la cosmogonie libertaire dans laquelle j'ai évolué sinon comme un poisson dans
l'eau au moins comme un cuisinier dans la cuisine. A ceux qui en ont envie, la
tâche d’établir la comestibilité de mes plats.
Le nœud triangulaire de mes Bermudes
théoriques originaires (Marx, Reich, situationnistes) a commencé par la
rencontre avec le jeune Marx qui a ouvert la fenêtre de ma conscience sociale
dès mon arrivée dans les salles de marbre de l'université génoise, dans la bien
connue via Balbi. Le jeune homme que j'étais, à la culture lycéenne et familiale
ouverte mais limitée, aimait la liberté avec son corps vivant, mais ne connaissait
pas les mots justes pour la dire et la soutenir sinon par une opposition instinctive
à l'autoritarisme d’autrui.
Non seulement pour moi mais pour beaucoup
dans ces années historiques, l'identité prolétarienne et la lutte des classes ont
été touchées par une acupuncture sociale qui a marqué la fin d’une époque, un
tournant, encore maintenant, inachevé de l’histoire. Car, aujourd'hui, les deux
concepts mentionnés ci-dessus sont archivées dans l’attente d’un dépassement urgent
et nécessaire parce que la lutte a été intégrée au spectacle social et les
classes se sont dissoutes en castes d'une artificielle société planétaire, numérique
et unique pour tous les perdants, riches ou pauvres, exploiteurs ou exploités,
désespérés ou opportunistes, bien nourris ou affamés, tous déguisés en
démocrates fictifs avec le portable à la main et, du moins psychologiquement, moribonds
face à la dégradation radicale des conditions de vie sur la planète.
Le sport, c'est comme l'intellectualisme : dans
les deux cas, si vous ne reliez pas l'esprit et le corps, vous faites que
choisir une forme du fascisme suprématiste pour essayer de vous imposer aux
autres, de les dominer, de les humilier et les offenser par un pouvoir indécent
qui étouffe la puissance orgastique fondée sur l'entraide et la solidarité.
Dans un monde frustré et frustrant, jouer est un exercice de respiration. En
particulier dans l'Italie catholique d'après-guerre dont j’ai été un enfant
sauvage sans le savoir, le football était un coin de paradis dans le
ghetto ; il était un moment de puissance vitale dans le triste ordinaire
de la survie, avant que le tsunami de l'argent financiarisé ne corrompe le jeu en
réduisant le sport, et le football en particulier, à un boulot privilégié pour
pauvres nantis débiles et la dépense d’énergie qui le rend attractif à sa
misérable dimension marchande, rustre, humiliante et surtout immensément
ennuyeuse à pratiquer et encore plus à regarder. Pour le garçon que j’étais, le
sport était un terrain d'entraînement pour la vie où je savais dribbler ceux
qui voulaient m'empêcher d'avancer librement et où je savais assez bien danser
avec mon corps pour donner au ballon une trajectoire magique et le faire entrer
dans le but là où je voulais, gardien ou pas. Comment nier que ce fut, de très loin,
beaucoup plus jouissif que le tiède plaisir intellectuel de la lecture de La Nausée de Sartre ?
Dans le jeu, comme en amour, le corps
s'exprime librement tant qu'on n'est pas toujours et uniquement des voyeurs. Et
dans le jeu, plus qu’en amour, personne ne l'est jamais intimement et
définitivement s'il le veut, contrairement à ce qui se passe dans le quotidien
où il n'y a aucune chance contre l'exploitation. Rien à faire sinon la
révolution, bien sûr, mais pas celle des mots comme des armes et des armes comme
des mots qui tuent en quête de pouvoir.
Ainsi, voilà que plutôt que parler de Marx
j'ai parlé de moi et, à mon avis, aussi de vous, où que se trouve votre refuge,
votre terrain de jeu. Pourtant Marx y est pour quelque chose. Essayez de le
lire. C'est un poète sublime avant même d'être l'une des têtes les plus claires
de l'ère moderne. Ce qui ne fait pas de moi un marxiste car je n’oublie pas que
Marx a contribué à cette idéologie communiste qui fut le pire ennemi d'une
société à venir dans laquelle chacun peut avoir
selon ses besoins, afin de pouvoir être
ce qu'il veut devenir, qu'il le sache déjà ou qu'il soit encore en train de
chercher.
Sublime Marx qui nous dit que le communisme
est la réalisation de l'individu. Mais dans le socialisme qui devait préparer
ces nobles conditions il est difficile de saisir rien d'autre qu'un
totalitarisme capable de vous tuer parce que vous portez des lunettes, parce
que vous voulez des soviets acratiques et non un Soviet suprême. La
monstruosité du pouvoir de tout acabit est telle qu'elle serait risible si elle
n'était pas insupportable. Le pouvoir est un essuie-glace qui balaie le miroir
social de droite à gauche et réciproquement, dont le va-et-vient s'accentue encore
lorsque des gentils entrepreneurs
démocrates aperçoivent dans la masse des plus vieux survivants à la survie
une source de rentabilité qui en fait les rescapés d’un ghetto à envoyer à la
mort avec une rationalité nazie et l'esprit commercial en bandoulière, plutôt
que les soutenir et les aider, eux qui sont au respectable et émouvant coucher
de soleil de la vie.
La banalité du mal de ces marchands de mort
qui dénoncent hypocritement le totalitarisme communiste mais organisent de
camps de concentration rentables pour immigrés, pour vieux, pour jeunes, pour
femmes, pour rêveurs et pour tous ceux qui ne se soumettent pas à la règle de
la marchandise souveraine, s'ajoute à celle dénoncée par Hannah Arendt,
banalité dont le spot publicitaire circule toujours : le travail rend libre. Car tous les marchands démocrates
sont d’accord sur ce mantra morbide.
Voilà donc, pour finir mon dribble vers le
but adverse, ce qui n'est qu'un début parmi tant d'autres commencements nécessaires
et souhaitables, différents et contradictoires. Un peu de Proudhon comme
antidote intelligent à toutes les conspirations puisque j'ai déjà souvent rappelé
les situationnistes et mon ami Wilhelm Reich : « Etre gouverné, c’est être gardé à vue,
inspecté, espionné, dirigé, légiféré, réglementé, parqué, endoctriné, prêché,
contrôlé, estimé, apprécié, censuré, commandé, par des êtres qui n’ont ni le
titre ni la science, ni la vertu... Etre gouverné, c’est être, à chaque
opération, à chaque transaction, à chaque mouvement, noté, enregistré, recensé,
tarifé, timbré, toisé, coté, cotisé, patenté, licencié, autorisé, apostillé,
admonesté, empêché, réformé, redressé, corrigé. C’est sous prétexte d’utilité
publique et au nom de l’intérêt général, être mis à contribution, exercé,
rançonné, exploité, monopolisé, concussionné, pressuré, mystifié, volé ;
puis à la moindre résistance, au premier mot de plainte, réprimé, amendé,
vilipendé, vexé, traqué, houspillé, assommé, désarmé, garrotté, emprisonné,
fusillé, mitraillé, jugé, condamné, déporté, sacrifié, vendu, trahi, et pour
comble, joué, berné, outragé, déshonoré. »
Nous sommes bien placés aujourd’hui pour constater que l’histoire ne
s’arrête jamais et qu’on ne se libérera pas par une quelconque pirouette
idéologique de la crise sanitaire qui déferle s’ajoutant au délabrement
climatique, social et vital. L’ensemble des catastrophes annoncées et des
autres que le productivisme nous prépare, exhorte notre humanité résiduelle à
dépasser toutes les idéologies. Aucune morale réactionnaire ou révolutionnaire,
aucun Etat ni aucun Marché, aucune avant-garde ni aucun obscurantisme ne nous transporteront
magiquement par-delà ce monde morbide qui nous accable de ses maladies. Il
faudra et il faut déjà se soigner soi-même par un élan de solidarité
réciproque, en se méfiant de tous les marchands de sirop qui guettent et
manipulent les Indiens que nous sommes. Des Indiens qui veulent être ne se contentant pas d’un avoir misérable et mystique que des oligarques
nantis gèrent à leur avantage.
La batrachomyomachie des vaccinés
et de non vaccinés a étendu au peuple entier et à la vie quotidienne
l’opposition intellectuelle entre la philosophie de la misère et la misère de
la philosophie. Dépasser cette querelle que le spectacle nous inflige à grandeur
nature est un hommage, sans dieu ni maître, autant à Proudhon qu’à Marx, mais
c’est surtout la conditio sine qua non
de la survie de notre humanité.
Sergio Ghirardi Sauvageon, 14 février 2022
[1] Surtout à une époque où il n'était vraiment pas difficile,
même pour ceux qui manquaient de moyens, d'accéder à toute lecture désirée,
subrepticement ou non, par la simple pratique de l’abolition de l’appropriation
privative.
[2] Titre obtenu quatre ans après le mythique Mai 68 avec tous les honneurs
académiques dérisoires qui m'ont touché comme le lavage automatique caresse une
voiture, mécaniquement, sans émotions, sans illusions et sans bénéfice, exception
faite de charges d’enseignement à doses homéopathiques exercées en Italie, en
Angleterre et en France.