“I giovani devono abituarsi a non avere un posto fisso
nella vita. E poi diciamo anche: che monotonia averlo per tutta la vita. È
bello cambiare”. Questa frase di
Mario Monti ha suscitato polemiche e ironie (“è un discorso snob”).
È chiaro che il premier
tira l’acqua al suo mulino perché il governo deve varare una riforma del lavoro
dove il posto fisso e garantito a vita non ci sarà più, però la sua notazione è
assolutamente valida dal
punto di vista esistenziale e psicologico. Scrive Nietzsche: “Amleto chi lo capisce? Non è il
dubbio, ma la certezza che uccide”. I Paesi scandinavi, dove
l’esistenza scorre garantita, lineare, prevedibile ‘dalla culla alla tomba’,
hanno il più alto tasso di suicidi
in Europa, cinque o sei volte superiore al nostro Sud dove sono
in parecchi a doversi inventare ogni giorno la vita per far quadrare il pranzo
con la cena. La necessità aguzza l’ingegno, la sicurezza lo ottunde.
Quando ero in Pirelli,
alla fine degli anni Sessanta, ho assistito alla cerimonia che ogni anno
l’azienda organizzava per gli “anziani Pirelli”, impiegati e operai che dopo
quarant’anni di servizio andavano in pensione lasciandosi docilmente seppellire
anzitempo. Era una cerimonia, nonostante tutti gli sforzi della Pirelli per
renderla potabile, o anzi forse anche a causa di questo, di una tristezza senza pari,
da film del primo Olmi, quello de Il
posto (appunto). Si leggeva su quei volti l’asfissia. Per 40 anni
erano stati garantiti, ma per 40 anni avevano vissuto nelle stesse stanze,
negli stessi luoghi, visto le stesse facce, fatto gli stessi discorsi. “Una cosa da fare rincretinire un
uomo per quanto può rincretinire” dice cinicamente lo stesso Adam
Smith che pur è un primigenio fautore del lavoro parcellizzato e della catena
di montaggio.
Cambiare quindi è
vitale. Ma bisogna avere delle chance di poterlo fare, pur assumendosi qualche
rischio. E la società di oggi è molto meno “aperta” di quella di ieri e non
solo nel campo del lavoro. Oggi quelle che una volta erano strade e anche
autostrade si sono ridotte a stretti viottoli. A mio parere la situazione non è
particolarmente drammatica, come si strombazza per i giovani che non trovano il
primo lavoro (intanto son giovani, beati loro, mi cambierei all’istante con un
ventenne disoccupato), ma per gli uomini
di mezz’età che lo perdono. Soprattutto per quelli che
appartengono al ceto medio, borghese, intellettuale.
Giorni e nuvole, il bel film di
Soldini, racconta la storia di un manager cinquantenne di un’azienda di Genova,
troppo morbido, troppo umano. L’azienda va così così e vi entra un socio con
meno scrupoli che licenzia il manager e un bel mucchietto di operai. Costoro –
siamo a Genova, una città che conserva una tradizione operaia – riusciranno in
qualche modo a cavarsela attraverso la rete di solidarietà proletaria. Il
manager (Albanese nel film) no. Manda curriculum su curriculum, inutilmente.
Nessuno oggi assume un uomo di 50 anni. Perché nella società attuale, con i rapidissimi
cambiamenti tecnologici, diventiamo tutti
presto obsoleti. Albanese, per sopravvivere, rinuncia allora a
qualsiasi ambizione e si mette a far lavoretti d’occasione, si improvvisa
tappezziere. Ma non ha il know
how, gli manca la manualità necessaria.
Per questo trovo assai
interessante l’iniziativa di Edibrico, una casa editrice di giornali di
bricolage, che ha sponsorizzato gratuitamente l’insegnamento ai bambini, in
varie sedi, di quella manualità
che abbiamo quasi tutti perduto. Altro che farli chattare, già
a due o tre anni, compulsivamente sull’iPhone. Della manualità, e non solo per
sport, avremo presto tutti estremo bisogno. Quella manualità che consentiva
all’uomo di Neanderthal di costruirsi empiricamente una stranissima, complicata
ma efficacissima lancia (gli serviva per uccidere i mammuth) che oggi nessuna
tecnologia sarebbe in grado di riprodurre. L’uomo Sapiens Sapiens deve fare qualche passo indietro.
Commento di Sergio
Ghirardi:
L'alienazione che è al
cuore dello sfruttamento del tempo di lavoro impedisce sia ai pro che ai contro
di cogliere l'essenziale. Per chi come me si è nutrito praticamente fin
dall'adolescenza dell'ottimo proposito di non lavorare mai ( o almeno solo
quando non se ne può fare a meno, seguendo un principio inderogabile: non posso
lavorare, sono troppo occupato) è irritante e divertente nello stesso tempo che
a fare i situazionisti da salotto siano dei poveri privilegiati dell'alienazione
capitalistica.
Sia Monti che Fini, da
salotti diversi e spettacolarmente opposti, difendono lo stesso mondo.
Fini per criticare il
colonialismo fa l'apologia del talibano e per criticare il capitalismo critica
il lavoro come uno che vive di rendita, come un aristocratico che non concepisce
altro come alternativa al lavoro alienato che il ritorno ai signori con gli
schiavi. Naturalmente non lo dice chiaramente. A volte sembra quasi pronto a
condividere un processo di emancipazione con il suo sdegno patriarcale, ma poi,
sempre. si rassicura sognando di tornare indietro anziche inventare un altrove.
Il suo lato reazionario è sempre un sorpasso con l'inversione a U. È il nostalgico
di un futuro che sogna del passato.
Monti, invece è un
cinico come tutti i burocrati che l'analfabetismo imperante ha promosso a
decisionisti, tecnici, professori. Monti è un vero specialista e come tutti gli
specialisti sa quasi tutto di quasi niente. La critica del lavoro salariato la
vede dal punto di vista dello sfruttamento capitalistico. È pagato per questo,
ma lo farebbe anche gratis, tra una messa e una conferenza tra economisti.
La società
produttivistica e il mostruoso progresso capitalista hanno in Monti un travet
milionario che serve il sistema e in Fini un critico non dialettico che non
riesce a uscire dal manicheismo. La terza strada, quella della democrazia
diretta locale e planetaria in mano a soggetti anonimi e decisi, è ancora solo
teorica, ma non più di quanto lo fosse la repubblica in Francia nel 1780.
Chi vivrà ancora un po',
ne vedrà delle belle, ne sono convinto.
Ne travaillez jamais!
Commento di Fulvio1964
Gentile dott. Fini,
ogni persona deve aver il diritto di disporre della
propria esistenza come meglio crede. Quindi non esiste nessuna giustificazione
né filosofica né tantomeno psicologica nel giudicare un individuo in base alle
scelte professionali. Non si può essere tutti "imprenditori" ed
"accettare il rischio". Soprattutto in un paese come il nostro nel
quale le classi più deboli (disabili, anziani) sono letteralmente ignorate,
anzi, considerate quasi come una sorta di fastidio. Lei ha lavorato in Pirelli;
il sottoscritto, prima di diventare imprenditore (se è opportuno
indicare con questo terrmine chi con la consorte gestisce una
microattività), ha cambiato spesso lavoro. In base a ciò che ho visto negli anni, chi
vive realtà drammatiche quali la malattia o la disabilità di un
familiare, oppure l'emigrazione da altri paesi ad esempio, NON PUO'
in molti casi accettare la sfida sociale che il Prof. Monti propone. Ci sono
inoltre tutti coloro che NON VOGLIONO diventare imprenditori; qualunque sia la
ragione alla base di questa scelta, meritano comunque rispetto. E stiamo
parlando di MILIONI di cittadini, non di una piccola minoranza!
Chi dirige la cosa pubblica deve avere il buon gusto di
evitare di esprimere giudizi di merito sulle scelte personali, soprattutto se
questi giudizi attingono a piene mani dal luogo comune. Il Prof. Monti ha
ovviamente tutto il diritto di pensare quello che vuole del lavoro dipendente,
ma non ha il diritto (come nessuno del resto) di giudicare un cittadino in base
al proprio lavoro.
Forse, se l'Italia è un paese triste e se è caduta in
questo baratro, è anche responsabilità di una classe intellettuale che troppo
spesso al posto di confrontarsi con la realtà, ha preferito trincerarsi
nella tranquillità del mondo accademico.
Risposta di Sergio Ghirardi a Fulvio 1964:
Trovo significativo che il suo commento sia tanto
apprezzato (ha ricevuto quindici apprezzamenti positivi). Infatti è denso di
buon senso, di sensibilità e di correttezza nel restituire al cittadino
virtuale una sua dignità di ruolo. Non mi soddisfa però e vorrei provare a
dirle il perché per fare avanzare il dialogo. Prima di tutto perché
probabilmemte io sono un pessimo esempio di normale cittadinanza. Da tempo mi
sento francese in Italia e italiano in Francia e apprezzo moltissimo questa mia
condizione privilegiata di straniero ovunque perché credo che la sovranità del
popolo sia oggi una trappola per servitori volontari della democrazia
rappresentativa. La quale è una democrazia svuotata di contenuti e messa al
servizio del sistema di caste che ha preso il posto della lotta di classe nella
società dello spettacolo.
Se ho torto, il suo discorso non fa una grinza.
Altrimenti la vera questione è che siamo di fronte (non solo in Italia, ma in
Italia in modo eclatante per il suo bigottismo atavico) a una rivoluzione
culturale bloccata da quasi mezzo secolo a causa di una restaurazione (da
piazza Fontana in poi) del vecchio sistema di valori cha stava crollando. In
realtà, continua a crollare, ma sono riusciti a chiamarla crisi e pure a
convincere le masse a pagarla.
Il lavoro che era diventato una miserabile necessità di
chi non aveva nient'altro da vendere sul mercato, è stato risacralizzato
soprattutto a causa della sua rarità intrattenuta e gonfiata. Anzichè
trasformare equamente la distribuzione della ricchezza, si è furbescamente
mitizzato il lavoro.
Quando una fetta minoritaria ma consistente della mia
generazione ha potuto danzare con gioia intorno al progetto di non lavorare mai
( non per parassitismo ma per coscienza di un altro mondo possibile fondato
sulle libere attività di ciascuno) il ricatto della povertà si era attenuato in
nome del consumismo trionfante. Di fronte a quella rivoluzione pacifica e
emancipatoria, la penuria (prima di benzina poi di lavoro) è stata
immediatamente reintrodotta per contrare questa rivoluzione gaudente che oggi
quasi tutti (da destra a sinistra) mistificano e odiano.
I peggiori razzisti anti emigrazione sono spesso gli
antichi emigranti (leggi gli italiani). I più biechi sostenitori dell'attività
salariata sono i lavoratori sfruttati e i disoccupati che non intravvedono
alternative di sopravvivenza.
Io credo si debba smetterla di cercare i colpevoli in una
sorta di antipasto di guerra civile tra poveri e cominciare a correggere gli
errori. Il nostro errore di base è credere che lo Stato siamo noi. Lo Stato
sono loro e la democrazia è incompatibile con la loro democrazia totalitaria.
Noi non decideremo nulla della nostra vita finché non capiremo che lo Stato per
noi non è nulla e che sta a noi diventare tutto, tutti insieme e ognuno per se.
Loro decidono del nostro lavoro, della sua precarietà, della nostra povertà e
della loro ricchezza, dei nostri doveri e dei loro privilegi. Loro sono ciò che
resta di una classe dominante che domina ormai solo la miseria altrui. Noi
siamo i proletari che non riconoscono nemmeno più la loro condizione di schiavi
salariati o di disoccupati ma con il telefonino.
Non abbiamo più nulla da perdere se non la nostra
alienazione, ma non riusciremo mai a liberarci se non rompiamo l'ipnosi di un
superio addomesticato.
I morsi rabbiosi scambiati nei blog tra opinioni diverse
sembrano spesso deliri senza radici, mentre sono, in effetti, le beccate
disperate tra polli in batteria destinati a essere venduti in pezzi nel
supermercato globale.
Ne travaillez
jamais - la parola
travail deriva da trepalium, uno strumento di tortura - continua testardamente
a essere solo l'inizio...