domenica 12 dicembre 2010

Parla per te coglione! - Basta con le menzogne e la falsificazione della storia.



Le pareti della redazione, in Rue Jacob, erano tappezzate di “dazebao”, e sulla copertina della rivista campeggiavano minacciosi ideogrammi. In quell’autunno del 1971, gli uffici parigini di Tel Quel, nel quartiere latino, erano diventati una Tien an men in miniatura. Per mostrare la saldezza delle sue nuove convinzioni lo stesso direttore, Philippe Sollers, si era insaccato in una tuta alla Mao. Non sappiamo se di cachemire come quella che sfoggiava, più o meno negli stessi mesi, il giovane Carlo Rossella per le vie di Milano, ma sicuramente di buon taglio. Sollers, 74 anni, è tuttora uno dei mostri sacri della scena culturale francese, uno di quegli snobboni inossidabili da cui dipendono le sorti dei premi letterari, ospite fisso di festival e talk-show in competizione con la moglie, la psicoanalista di origine bulgara Julia Kristeva. Oggi è approdato sulle sponde di un papismo controriformista.
Dalle guardie rosse alle guardie svizzere, purché alla corte di qualche Grande Timoniere, un po’ come Rossella, che il suo lo ha incontrato ad Arcore. Fa una certa impressione ritrovare questi nomi e queste facce, ormai incanutite e incravattate, negli appelli in difesa del Nobel dissidente Liu Xiaobo, tenuto sotto chiave dai degni nipotini di Mao. Quelli che oggi avallano le storielle berlusconiane sui cinesi mangiabambini (salvo addobbare di lanterne il centro di Roma per la visita di Wen Jiabao) sono talvolta gli stessi che quarant’anni fa sventolavano il libretto rosso. Come sia nata, e da dove venisse quell’infatuazione, che tanta parte ebbe nella storia culturale del Sessantotto e degli anni Settanta, lo ricostruisce lo storico americano Richard Wolin in un bel libro uscito da Princeton University Press: The Wind from the East (Il vento dell’est). La storia comincia con un gruppo di gauchistes cresciuti all’ombra del filosofo marxista Louis Althusser alla prestigiosa Ecole Normale Supérieure. Tutti innamorati della Cina di Mao, convintissimi che la ricetta della Rivoluzione culturale fosse la panacea per curare l’immobilismo politico della Francia gollista, la giusta risposta all’ottusità dei burocrati filosovietici del Pcf.
Nel fatidico maggio del 1968 si contavano almeno millecinquecento maoisti, raccolti sotto le bandiere del Mouvement communiste français marxiste-léniniste (MCF-ML). I compagni “col trattino”. Trentacinque di loro erano concentrati in Rue d’Ulm, sede dell’Ecole Normale. Nessuno di loro parlava o leggeva il cinese, e di informazioni attendibili da Pechino non era possibile averne, con la stampa imbavagliata e il dissenso spazzato via dal regime. Poco importa. Come scrive Wolin, la Cina era diventata “uno schermo di proiezione, un test di Rorschach, per le più recondite speranze e fantasie politiche radicali, che nella Francia di De Gaulle erano state private di uno sfogo nel mondo reale”. Gli althusseriani “puri e duri” si consideravano le incarnazioni francesi delle Guardie Rosse, in rotta di collisione con la borghesia alla quale pure appartenevano, e cercavano nella militanza rivoluzionaria un riscatto dal passato colonialista del paese.
Ma anche in una cerchia più larga, il contagio miete vittime illustri, da Michel Foucault a Roland Barthes: sì proprio loro, lo storico del controllo sociale e il semiologo dell’Impero dei segni, entrambi in diverso modo sedotti dalle sirene maoiste. Nel film La Chinoise Jean-Luc Godard immortala le delusioni dei marxisti-leninisti della Normale. E quando nella primavera del 1970 il governo Pompidou arresta i capi del movimento e mette al bando il loro giornale, La Cause du Peuple, è Jean-Paul Sartre in persona ad assumerne la direzione. Perfino Mick Jagger interrompe un concerto a Parigi per chiedere il rilascio dei prigionieri.
L’intossicazione maoista, secondo Wolin, non si può liquidare come una semplice ondata di demenza collettiva, anche se tale può apparire ora a noi che conosciamo gli orrori della Rivoluzione culturale. È stato piuttosto un rito di passaggio generazionale, una specie di exit strategy dall’ortodossia marxista. Ben presto, le gigantografie di Mao persero ogni connotazione geopolitica, per fondersi con la “critica della vita quotidiana” elaborata dall’avanguardia francese degli anni Sessanta. In realtà, quando i mandarini di Tel Quel, forse anche per scimmiottare Sartre, salgono sul carro del maoismo, le migliori intelligenze del maggio francese, a cominciare dai nouveaux philosophes Christian Jambet e André Glucksmann, hanno già iniziato a prenderne le distanze: hanno scoperto che i diritti umani valgono ben più dell’utopia socialista, in nome della quale troppo spesso quei diritti vengono calpestati. Ma Sollers e compagnia si considerano i soli, veri interpreti ed eredi del Sessantotto. Anche se, come ricorda Wolin, il movimento del maggio era stato dionisiaco, libertario e antiautoritario, mentre le guardie rosse incarnavano il peggiore dogmatismo ideologico, i convertiti di Tel Quel vedono nella Cina maoista il paradiso dei semiologi: per la prima volta una rivoluzione mette al centro la cultura invece dell’economia o della politica. Si infiammano alla lettura del bestseller di un’italiana, Maria Antonietta Macciocchi (Dalla Cina), che presto verrà cooptata al vertice della rivista: “Questa rivoluzione – assicura la Macciocchi – ha eliminato le élite politiche e tecnocratiche, la burocrazia, le gerarchie e i privilegi. Ha riunificato il lavoro manuale e intellettuale, le città e le campagne, ha sostituito i direttori delle fabbriche e delle università con delle direzioni collegiali. L’homo sapiens e l’homo faber qui formano un essere completo, un uomo totale”.
Se l’uomo è totale, ancor più totale è la donna. In un articolo sulla condizione femminile in Cina, Julia Kristeva sostiene che la fasciatura dei piedi delle bambine non sarebbe una pratica barbara, una vera e propria tortura, ma “testimonia il potere segreto delle donne”: l’equivalente, pensate un po’, della circoncisione dei maschi in Occidente! E nella perspicua analisi di un altro cervellone, il fatto che nel paese di Mao non si trovi uno psichiatra dimostra che il socialismo ha abolito l’alienazione e le conseguenti nevrosi, frutto del capitalismo e della proprietà privata.
Ansiosi di vedere questo paradiso, finalmente, nel 1974 i nostri eroi riescono a ottenere il visto per Pechino. Atterrano, in compagnia di Roland Barthes, e i premurosi padroni di casa li conducono in giro al guinzaglio, gli mostrano fabbriche modello, scuole modello, case editrici modello. Un editore di Pechino espone uno striscione di benvenuto col nome della rivista, e il candido Sollers ha quasi un orgasmo pensando che la fama di Tel Quel sia arrivata fin laggiù.
Mentre un rapito Barthes, sempre a caccia di simboli e segni, scrive su Le Monde: “La calligrafia di Mao, riprodotta a ogni angolo, segna lo spazio cinese con un’arte ammirevole, onnipresente… Un popolo (che in 25 anni ha già costruito una nazione straordinaria) viaggia, lavora, beve il tè o fa ginnastica da solo: senza teatro, senza rumore, senza posare, insomma, senza isterie”.
In quegli anni, del resto, i pellegrini politici non vengono solo dalla Francia. Nel 1975 è la volta dei nostri Mario Capanna, Dario Fo e Franca Rame. Al ritorno, il futuro premio Nobel, oggi in prima linea nella battaglia per la liberazione di Xiaobo, così riassume la sua esperienza: “È stato un lungo viaggio verso un nuovo mondo: ospedali perfettamente funzionanti, immense case della cultura, negozi carichi di roba, una miriade di parchi, tanta, tanta pulizia, laghi, canali imponenti, soprattutto gente serena”. La Svizzera, insomma. Se questi erano gli umori che circolavano all’indomani del mitico Sessantotto, non hanno proprio nulla da invidiare ai loro padri e nonni, i ragazzi del movimento anti-Gelmini. Neppure il fatto di non avere maestri. Piuttosto che quei maestri con la tutina di cachemire e la stella rossa sul berretto, meglio nessun maestro. Meglio avere imparato la lezione del secolo breve e lottare per i diritti (tutti i diritti, a cominciare dallo studio e dalla cultura) anziché per un’ideologia sanguinaria. da Il Fatto Quotidiano dell’11 dicembre 2010
Dal movimento per l’autogestione generalizzata:“Parla per te coglione!”
Ghirardi Sergio scrive: il 12 dicembre 2010
Questo articolo è infetto. Non so stabilire la percentuale di ignoranza e di malafede ma siamo di fronte all’ennesimo delirio falsificante di un momento cruciale della storia contemporanea. Non a caso appena nel contesto internazionale riaffiora un leggero tratto di coscienza radicale si ritorna a pescare nel torbido dell’ideologia per far credere che nella notte delle coscienze tutte le vacche sono e sono state nere. Nello specifico rosse del fascismo maoista.
Io c’ero e come molti ho vissuto intensamente e in prima persona quegli anni e quella rivoluzione culturale internazionale che nella cosiddetta rivoluzione culturale cinese ha trovato in realtà un ostacolo reazionario terribile. Certo che sono esistiti i chierichetti sadici del maoismo, in Francia come in Italia – oggi reazionari come allora, ma orfani di Mao -, ma sti zombi sono stati lo scarto della coscienza radicale dell’epoca.
Sollers, mondano da sempre, non ha smesso di leccare il culo di Debord (che lo disprezzava) dopo essere stato uno stupido maoista. In Italia come in Francia e non solo, i situazionisti sono stati al cuore della rivoluzione libertaria che ha attraversato il Maggio contro bolscevismo e maoismo + tutto il confusionismo gauchista che si è riversato sui resti di una rivoluzione incompiuta.
In “Non abbiamo paura delle rovine” ho restituito i fatti di una verità storica che né destra né sinistra di potere e di governo vogliono far circolare.
Leggete i telegrammi inviati dalla Sorbona occupata al Cremlino e alla Porta della Pace Celeste di Pechino per capire il rapporto tra maoismo, bolscevismo e rivoluzione sociale nel’68. Guardate il film di Vienet del 1976 su Mao e la descrizione del fascismo maoista prima e dopo la banda dei quattro. Nel’68 c’era anche il papa, il PCI, Sartre, Padre Pio e la DC ma non hanno partecipato certo alla radicalità della rivolta epocale alla quale il potere ha risposto con le bombe di piazza Fontana.
Basta con le menzogne e la falsificazione della storia.