La prima pagina di Liberation del 25 marzo 2011 porta un titolo cubitale: NUCLEARE: e se ci fermassimo?
Riprendendo il titolo di un giornale della resistenza e sotto l’ala di un Sartre maoistizzato, Liberation nasce dopo il ’68, nei primi anni settanta, come l’interprete ideologico di una sinistra oscillante tra ricomposizione e decomposizione. Molto postcomunista, poco postgauchista e decisamente postrivoluzionario, il giornale della Paris qui s’eveille toujours trop tard incarna il superamento fittizio di un vecchio mondo che la novlingua alternativa ha congelato, garantendone la conservazione.
Io non sono un devoto di questo foglio ( né di nessun altro, del resto) che leggo al mattino, mescolato alla rinfusa con tutti gli altri, dall’Humanité al Midi Libre e persino L’Equipe, la cui sensibilità politica, affiorante sotto i calci a un pallone o a una corsa in bicicletta, spesso anticipa le dubbie scelte peresonali del petit peuple della democrazia spettacolare.
Prendendo il caffè nel bar del mio buen retiro campagnolo, mi faccio un’idea, mobile per quanto possibile, del rapporto tra realtà e interpretazione nell’universo spietato e assurdo della società dello spettacolo, prima di leggermi Il Fatto su Internet in modo da non rimpiangere affatto di non stare più con il culo in Italia.
Oggi, però, il nucleare unifica il mondo aldilà di ogni distanza e oltre tutte le ideologie e non è più possibile sottrarsi a una scelta di campo da cui dipende l’avvenire anche fisico dell’umanità.
Poche balle, nuclearisti allucinati o antinuclearisti terrorizzati, la questione che unifica il pianeta sotto la sua radiosa ecumenicità è una sola: nucleare sì o nucleare no?
Se persino la Francia, paese più nuclearizzato del mondo (secondo in numero di reattori agli Stati Uniti, ma primo per percentuale di produzione di elettricità attraverso il nucleare) si pone la questione, solo un’Italia definitivamente in mano alla logica mafiosa più spinta potrebbe fare a meno di titubare prima di reintegrare il clan degli irradianti e non solo quello, ormai planetario, degli irradiati.
Lo so, nel bel paese della libera spazzatura, si farà finta di riflettere per un anno prima di ricominciare a fondo con la pubblicità in favore del nucleare, dopo aver eventualmente archiviato un ennesimo referendum imbarazzante. Che sfiga: primo referendum sul nucleare perso subito dopo Chernobyl e ora che si stava per risolvere - fondendolo nel nocciolo - il problema della spazzatura di Napoli, ecco che arrivano i giapponesi con i loro sushi al plutonio e un secondo referendum previsto per giugno..
Per un paese intimamente cattolico, dovrebbe essere imbarazzante decidere di fare agli altri quel che non si vorrebbe fosse fatto a sé, ma si sa che, “purché se magna”, c’è un rimedio a tutto e che la confessione del peccatore e le indulgenze del clero hanno sempre fatto miracoli, a Lourdes come al Quirinale. Quindi acqua in bocca, e tra un anno si ricomincia come niente fosse.
Bisogna riconoscere che la Francia, pur se marcata dalla nomea di figlia maggiore della Chiesa cattolica e romana, ha saputo essere - e va tutto a suo onore - una figlia degenere. Tagliata qualche testa al clero più privilegiato in nome dei diritti dell’uomo, non ha saputo, però, in tempi moderni davvero degni di Charlot, resistere alla tentazione di integrare laicamente e imperialmente lo sfruttamento dell’atomo nello sfruttamento del lavoro astratto degli esseri umani, attività diffusa su tutto il pianeta come cinica base della civiltà produttivistica.
Così, ora che da Hiroshima a Fukushima (con una piccola deviazione per Three Miles Island e Chernobyl) il ciclo dell’apocalisse nucleare annuncia in giapponese i suoi titoli di coda, non resta ai francesi che farsi piccoli piccoli dietro la loro grandeur e porsi, persino loro, la dannata questione: e se ci fermassimo?
Se si fermano loro, il nucleare è finito, e se già osano anche solo ipotizzare in astratto una simile ipotesi, vuol dire che il nucleare ha altrettanto piombo nelle ali che mox nei reattori. Quel che ancora non si sa, è invece se l’umanità potrà sopravvivere alla fine di questa energia mortifera o se la scomparsa della specie umana sarà il danno collaterale finale.
La prima novità dopo Fukushima, è che il discorso costantemente reimbobinato dei nuclearisti viaggia ormai nell’etere come un mantra demenziale per chiunque non sia malato della sindrome del dottor Stranamore.
Chi li ascolta più per davvero, ‘sti pazzi furiosi? Blaterano di discorso razionale, pretendono di non farsi mai prendere dall’emozione - facile per loro, la cui sola emozione sopravvissuta alla lobotomia economicista è il fruscio delle banconote nelle loro tasche.
Sottolineano spudoratamente il “fatto” che in fondo dopo cinquanta anni di nucleare i danni sono minimi. Obliterano, nel loro razionalismo morboso e demenziale, i fatti che li contraddicono: la spazzatura ineliminabile delle scorie pestilenziali e il fatto che quei “danni minimi” sono già milioni di morti accertati e la garanzia che l’orrore delle nascite e delle morti orribili durerà per innumerevoli generazioni.
Non si sa neppure se il magma radioattivo che circola sul pianeta sia totalmente inoffensivo oppure no, né si sa ancora come andrà a finire nella centrale di Fukushima che la Tepco ha cercato di salvare per cinico calcolo economico (è venuto alla luce che avrebbero potuto inondare subito i reattori provocando una immediata e definitiva chiusura della centrale, ma hanno preferito, mettendo in pericolo la vita umana e l’ambiente, aspettare nella speranza di riuscire a salvare i loro mezzi di produzione di valore aggiunto e accessoriamente di energia). Intanto, un intero battaglione multinazionale di untori mercenari va all’assalto, manipolando le già false coscienze di una popolazione di consumatori asserviti la cui idiozia è ricattata dallo spauracchio di un ritorno all’età della pietra.
Non si accorgono, en passant, che è proprio il disatro nucleare che avanza che sta per riportare l’umanità all’età della pietra. Il ritorno alla candela è già un’ipotesi concreta per molti giapponesi orfani di un’elettricità nucleare la cui luce è oscuramente crepuscolare.
E se ci fermassimo?
A pagina due di Liberation si parla di scelta: la catastrofe obbliga a pensare e, si spera, ad agire.
Ci si chiede se il nucleare è un destino ineluttabile per la Francia (e dunque a maggior ragione per il mondo, Italia inclusa) e per la prima volta la risposta non è più perentoria. Tutt’altro.
A pagina 3 si passa poi, chiaramente all’azione (virtuale, ovviamente): il nucleare come se ne esce.
Liberarsi dell’atomo, nonostante la Francia produca con le centrali nucleari più del 75% della sua elettricità, è possibile a condizione di scommettere sulla sobrietà e sull’investimento nelle energie rinnovabili. Certo non in un giorno, privilegio che hanno invece quei paesi che per fortuna il nucleare lo hanno finora evitato per la saggezza della popolazione e non certo dei loro politici avidi di commissioni e mazzette.
Laddove l’ipotesi di decrescita economica è considerata un oscurantismo da salotto o da marginali da parte dei servitori volontari e suicidi dei paesi industriali e produttivisti, s’ipotizza, qui, chiaramente, una rivoluzione antiproduttivistica, poiché, per una volta, si osa analizzare la sensibilità in forte crescita della decrescita senza farne una caricatura ridicola.
Del resto a farne una caricatura ci pensano già abbastanza gli stessi militanti spiritualisti di una decrescita spesso miseramente ridotta a una nuova morale di sacrificio, esaltata talvolta persino come una asfittica visione del mondo. “Decrescita o barbarie” pigolano i nuovi intellettuali nel vecchio salotto della mondanità politica, sognando di essere eletti dal popolo. Obiettori di crescita ancora uno sforzo per diventare rivoluzionari!
È inevitabile, tuttavia, che popolazioni e individui educati da millenni alla voluttà perversa del sacrificio e della sofferenza, approffittino facilmente dell’occasione per fare della sobrietà una nuova cintura di castità. E gli edonisti da supermercato che riducono il piacere al consumo di cose inutili e spesso dannose, sono pronti a dar loro il cambio denunciando quest’orribile cintura in nome di un desiderio alienato. Travestono così della loro verità ideologica la menzogna che li presenta come i difensori di un piacere di vivere rappresentato in maniera oscena dalle pitture naives che ornano le ciminiere delle centrali al plutonio.
Perché, oltre ogni morale, è sul piano biologico che l’osceno si mostra.
Un po’ come riempire di film porno la casa di qualcuno che non ha mai fatto l’amore. Al massimo, se un giorno diventa ricco si pagherà il bunga bunga, guardando amorevolmente nello specchio delle sue brame narcisiste, il “tombeur des femmes” a tassametro le cui piccole eiaculazioni nevrotiche non hanno niente a che spartire con l’amore sensuale.
Gli edonisti da supermercato confondono l’orgasmo genitale con il possesso a cui si abbandonano fallicamente, ignorando la gratuità e il dono su cui si fondano i desideri naturali che forgiano il sano egoismo degli individui sociali giunti alla poesia generosa di esseri umani. Ma lasciamo stare la digressione sull’energia vitale dell’amore per tornare alla crisi di quella mortifera del nucleare.
Sobrietà si diceva, da applicare con intelligenza sensibile, laddove l’eccesso anziché piacere produce disastri. La sobrietà non impedisce l’eccesso ma lo regola, ne limita i danni e ne prolunga gli effetti positivi. La sobrietà significa rinuncia solo per chi ha la cultura del sacrificio.
Io non voglio rinunciare a niente, neppure all’automobile, voglio liberarmene. Non si tratta di rinunciare all’elettricità necessaria ma di liberarsi del nucleare prima che sia troppo tardi.
Se siete così ingenui da chiedere un parere sul senso della vita a un mercante d’armi non stupitevi che faccia l’elogio della guerra .
Non si tratta di guardare agli orrori e ai crimini contro l’umanità da pacifisti contemplativi quanto di agire per la pace in radicale alternativa alla guerra. In alcuni casi ci si può ritrovare con i fucili in mano. Bisogna allora assumere una tale tragedia, chiedendosi dove si è sbagliato per non ripetere mai più l’errore.
Lo Stato nucleocrate è la prima lobby dell’atomo, denuncia Liberation, sempre in terza pagina. Per questo si assiste a un tale colpevole ritardo nel settore delle energie rinnovabili.
La scelta dell’atomo civile discende dalla scelta militare di dissuasione nucleare voluta da DeGaulle e rafforzatasi nel 1973 come risposta al primo choc petrolifero. Ne è risultata una tecnostruttura monopolistica composta dal Commissariato all’energia atomica (CEA) e EDF (Elettricità Di Francia). Il tutto nelle mani del Corps des Mines, una élite di ingegneri fondata nel 1810 in pieno impero napoleonico, uscita principalmente dall’Ecole Polytechnique. Questi specialisti della tecnica e del business guidano da più di un secolo gli affari dell’industria francese sia sul piano politico che per quel che concerne la direzione dei grandi gruppi. Una tale endogamia ha oscurato quasi completamente la maggior parte delle questioni riguardanti l’atomo (vedi in proposito il comunicato della CRIIRAD del 23 marzo).
Fino all’arrivo degli ecologisti, tutta l’assemblea nazionale francese era quasi unanimemente per il “tutto nucleare”, dal Partito Comunista all’UMP, passando per i socialisti.
L’effetto di una tale situazione è l’attuale fortissima dipendenza dall’atomo con quasi 80% di elettricità di origine nucleare.
La pagina quattro di Liberation conclude questo rapido ma fondamentale giro di pista che socchiude la porta di una possibile rottura del tabù nucleare francese. Si osa addirittura ipotizzare un dopo a cui tendere: bisogna lavorare sulla sobrietà energetica.
Appunto, sobrietà in relazione alla precauzione che dovrebbe spingere chiunque a rifiutare il rischio apocalittico implicito, e ormai tristemente verificato empiricamente più volte, nel nucleare.
Nella stessa pagina, un ultimo articolo denuncia le incongruenze e il mito delle centrali di terza generazione (la quarta è soltanto virtuale): “Un responsabile di EDF - racconta lo scienziato Jacques Foss - mi ha detto che i motori diesel delle pompe dell’EPR (reattore di terza generazione alla cui installazione è implicata anche l’Italia denuclearizzata, fino a prova contraria) sarebbero stati anche loro inondati da un’onda delle dimensioni di quella di Fukushima”. Con i risultati, o quasi, che sono sotto gli occhi di tutti e in presenza, per di più, di una carica energetica ben superiore.
Niente panico, fifoni: tutto ciò è altamente improbabile. Ancor di più di quanto già lo fosse a Fukushima.
A proposito di Fukushima, un’ultima notiziola, nel caso fosse sfuggita alla stampa italiana in tut’altre faccende affaccendata : Masataka Shimizu, padrone della Tepco è sparito nel nulla dal 13 marzo, secondo giorno seguente lo tsunami, dopo essersi banalmente scusato “per avere causato dell’ansia e delle nocività agli abitanti vicini alla centrale, alla Prefettura di Fukushima e al paese intero”. Questo vicepresidente della Keidanren, equivalente della Confindustria italiana, è ancora a capo (harakiri permettendo) di una società valutata in 40 miliardi di cifra d’affari in euro nel 2010, e ha nel suo comitato direttivo quasi tutti i grandi nomi del produttivismo giapponese (Mizuho, Toyota, Canon, Ajinomoto, ANA, Mitsui, Sumitomo…).
Forse, sempre con sobrietà e misura, per affrontare la questione del superamento del nucleare bisognerà ricominciare dalla critica dell’economia politica.
E se ci fermassimo? Finché c’è tempo.
Sergio Ghirardi