mercoledì 26 giugno 2013

Alcune ragioni per le quali i No TAV hanno ragione (di Sergio Bologna)





La tensione che si è verificata nelle ultime settimane in Val di Susa ha portato all’affermazione, da parte di qualcuno, che il movimento di opposizione alla “grande opera” in realtà non ha come oggetto l’opera in quanto tale ma la simbologia del potere dello stato centrale. Il movimento quindi avrebbe un carattere intrinsecamente eversivo, anche se la maggioranza dei suoi esponenti si dichiara a favore di metodi di lotta pacifici. Alcuni organi di stampa si sono fatti portavoce di questa interpretazione. Poiché a me pare invece che nella sua sostanza il movimento abbia un forte senso civico e contenga elementi di razionalità, che non trovo in molte affermazioni di tono “fideistico” dei sostenitori dell’opera, vorrei condividere con le persone con le quali in questi ultimi vent’anni ho lavorato fianco a fianco sul tema della pianificazione del trasporto merci e della logistica alcune considerazioni.
Gli argomenti che vengono portati pro o contro la costruzione del tunnel di base riguardano sostanzialmente due aspetti: il rapporto costi/benefici dell’opera e l’impatto ambientale. Molto trascurato finora è stato un aspetto che a mio avviso è fondamentale, quello del mercato del trasporto ferroviario delle merci, un mercato che presenta caratteristiche specifiche che non possono essere trattate come una variabile secondaria. L’opera infatti viene definita come uno strumento indispensabile per incrementare il trasporto merci transalpino su ferro. Questo è il punto, tutto il resto, il pericolo di un isolamento dall’Europa, lo sviluppo dei territori interessati, l’occupazione, il valore intrinsecamente strategico delle grandi infrastrutture ecc. fa parte di un corollario che definirei ideologico, perché non si può che affidare a ipotesi contro le quali non è difficile opporre altre ipotesi di segno contrario.

Un vizio universale
Alcuni anni or sono Standard&Poor aveva pubblicato un elenco di grandi infrastrutture di trasporto realizzate nel mondo, paragonando le previsioni di traffico che erano state fatte all’atto della loro messa in cantiere con il traffico effettivo alcuni anni dopo la realizzazione. Nella grande maggioranza dei casi le previsioni avevano superato largamente, cioè di sei, sette, otto volte, il traffico effettivo. Com’è noto l’affidabilità delle previsioni di traffico non solo è essenziale per calibrare la capacità dell’infrastruttura ma soprattutto per valutare la sua sostenibilità economica, che si basa sulle tariffe d’accesso, sull’ammontare dei pedaggi – ne sanno qualcosa i gestori di autostrade. Se le previsioni di traffico sono state sovradimensionate l’opera non riuscirà a ripagarsi e finirà per pesare più del previsto sul debito pubblico. Con questo esempio intendo dire che non è solo un vizio italiano quello di “sparare dei numeri” altisonanti nel sottoporre la progettazione di un’infrastruttura ai decisori pubblici e al mondo finanziario (sto pensando in questo momento a certe idee di infrastrutture portuali). E’ un vizio universale, nel quale ci lasciano l’onore, purtroppo, diversi esponenti del mondo scientifico ed accademico.

I valichi transalpini: quali priorità?
L’Italia dispone di otto valichi ferroviari per l’attraversamento delle Alpi: Ventimiglia, Modane, Domodossola, Luino, Chiasso, Brennero, Tarvisio, Villa Opicina. Non ha molto senso valutare come si distribuisce il traffico tra questi valichi in termini di tonnellate/chilometro. La graduale sostituzione di merci leggere rispetto alle merci pesanti, dovuta anche alla trasformazione degli assetti produttivi, ci consiglia di utilizzare come parametro più affidabile il numero di treni merci che nella settimana attraversano i valichi nei due sensi. Il valico più “trafficato” è il Brennero, ma la maggioranza dei treni, pari a circa il 50% del totale, transita per i tre valichi italo-svizzeri di Domodossola, Luino e Chiasso. Logica vorrebbe che un Paese, così preoccupato di non restare isolato dall’Europa, si adoperasse per concentrare le risorse sui lavori necessari al miglioramento dell’infrastruttura di valico là dove il traffico non solo è più intenso ma ha continuato a crescere in questi anni, mettendo in secondo piano nell’agenda delle priorità i lavori ai valichi dove il traffico è assai limitato e negli ultimi anni in continua diminuzione. Logica vorrebbe inoltre che un Paese, preoccupato di avere buoni rapporti di vicinato coi Paesi confinanti, coordinasse i suoi sforzi con quelli, soprattutto quando da parte loro – nel caso specifico la Svizzera – vengono fatti degli investimenti straordinari in infrastrutture di trasporto destinate a creare dei corridoi merci che sboccano nel nostro Paese, lo collegano ai grandi assi europei e di cui il nostro Paese è il primo beneficiario se vuole, come si usa dire, “togliere camion dalla strada”. La Svizzera ha ultimato nei tempi previsti un’opera straordinaria come il tunnel del Lötschberg, che ha notevolmente aumentato la capacità della linea, consentendo il passaggio di un maggior numero di treni merci. I quali, arrivati in Italia, per proseguire si trovano a dover utilizzare la linea Domodossola-Arona-Sesto Calende-Milano oppure la Domodossola-Omegna-Borgomanero-Novara che è una linea a senso alterno, risalente agli Anni Venti (Novara, com’è noto, è uno dei maggiori Interporti italiani, caratterizzato in questi ultimi anni da una crescita costante, terminal di uno degli assi ferroviari europei Nord-Sud fondamentali). E’ vero che il tunnel del Lötschberg non può essere utilizzato ancora al massimo della sua capacità perché ci sono dei lavori di adeguamento della linea da completare sia a valle che a monte in territorio svizzero, ma è altrettanto vero che in questi ultimi dieci anni mentre il nostro udito è stato assordato dalle grida d’allarme perché la Torino-Lione non andava avanti, nessuno ha alzato un dito – o lo ha fatto in maniera sommessa – sui rischi dei “colli di bottiglia” che possono diventare strutturali sulla linea che porta un numero di treni assai superiore a quelli che transitano per Modane. Non è un caso quindi che non più tardi di qualche settimana fa la società svizzera Hupac, che gestisce la grande maggioranza di questi treni, si sia permessa di far osservare che anche il valico di Luino meriterebbe maggior attenzione da parte italiana, più ancora di Chiasso, perché Luino – attraverso il quale passano soprattutto container marittimi, mentre per Domodossola e Chiasso passano prevalentemente treni di casse mobili, semirimorchi e “autostrada viaggiante” (quanto conta questa differenza lo vedremo dopo) – se opportunamente adeguato, potrebbe aiutare a risolvere certe criticità, in parole povere il rischio di saturazione dei collegamenti con la Svizzera in certi giorni della settimana. Se l’asse Nord-Sud che passa per la Svizzera presenta a breve il rischio di una certa saturazione nel tratto italiano, i primi a rimetterci sono i nostri porti di Savona, Genova e, in parte, La Spezia, cioè le nostre principali porte di accesso via mare ai traffici intercontinentali. Mentre se l’asse Est-Ovest, che passa da Modane, resta nelle condizioni attuali, nessun particolare svantaggio ricade sui porti liguri. Riassumendo: l’Italia fa poco o nulla per assicurarsi un collegamento ferroviario al passo coi tempi nell’asse Nord-Sud che collega i porti liguri con l’Europa centro-occidentale e conta oggi per il 50% del traffico totale, ma rischia a cuor leggero la guerra civile per costruire un collegamento Est-Ovest, che la pone in collegamento con un mercato che conta oggi per il 7% del totale.

Nel tunnel
E la Gran Bretagna? Non è forse un grande mercato? Non sarebbe un grande vantaggio se potessimo caricare le merci sul treno a Novara ed andare fino a Liverpool, via tunnel di base del Fréjus e tunnel sotto la Manica? Non sarebbe questo un corridoio intermodale strategico? Evocare il tunnel sotto la Manica significa portare in campo un esempio di risultati piuttosto mortificanti di una “grande opera”, magnificata come realizzazione del capitale privato che si sostituisce allo stato. Dal giorno in cui i governi di Francia e Gran Bretagna decisero di scegliere la strada del project financing secondo la formula Build Operate and Transfer (BOT), erogando la concessione alla società Eurotunnel vincitrice della gara, è stato un susseguirsi di vicende che hanno visto mezzo milione di azionisti privati perdere i loro risparmi e iniziare una serie di azioni giudiziarie, che si sono protratte per anni, nel tentativo di recuperare una parte del capitale investito. Secondo il “Time”, piccoli azionisti e creditori hanno dovuto rinunciare a circa 6,5 miliardi di dollari loro dovuti dalla società Eurotunnel. La sostenibilità economica dell’opera quindi si è dimostrata fasulla e per consentire al gestore di non finire in bancarotta gli è stata prolungata la concessione fino al 2086, il gravame del debito, che supera i 10 miliardi di dollari, è tale che spesso il puro pagamento degli interessi annulla i risultati di esercizio. Ma, a parte questi aspetti finanziari, ora che il tunnel c’è e ci passano quattro treni all’ora, il trasporto ferroviario delle merci quanti camion ha sottratto alla strada? Moltissimi, sembrerebbe, se è vero che il trasporto merci è la principale fonte di introiti di Eurotunnel. Ahimé no, perché il trasporto delle merci non avviene su carri ferroviari intermodali senza autista al seguito da origine a destino ma in massima parte su camion, che vengono caricati in speciali contenitori e traghettati da una sponda all’altra. In pratica, per farci capire anche da chi non ha la più pallida idea del trasporto merci – e molto spesso, a sentire certe affermazioni in tv o certe dichiarazioni sulla stampa di esponenti politici o europarlamentari, questo è il caso – un carico partito da Marsiglia e diretto a Edinburgo non viene messo su un carro ferroviario a Marsiglia e sbarcato direttamente in un terminal di Edinburgo ma viene caricato su un camion, il quale percorre l’autostrada fino a Calais/Coquelles, lì viene messo in quei grandi contenitori che servono per attraversare la Manica (mentre l’autista se ne sta in una carrozza separata con altri suoi colleghi), viene trasportato sotto lo stretto, scaricato a Dover, e da lì riprende la sua strada fino a Edinburgo. Risultato in termini di trasferimento modale, dalla strada alla rotaia? Zero. Il trasporto passeggeri invece funziona alla grande, sembra. Certo, ma essenzialmente per i leisure travel e non si ripaga. C’è da chiedersi, ma com’è possibile, con questi esempi sotto gli occhi, continuare a difendere a spada tratta il tunnel di base sotto il Fréjus e per di più farlo pagare ai cittadini? Fosse almeno costruito in project financing…

Svizzera generosa
La Svizzera è il Paese europeo che, in relazione alla popolazione, ha più investito nel trasporto ferroviario delle merci. Una parte dei fondi ad esso destinati provengono dalle tariffe di transito dei veicoli pesanti, una parte però grava sul cittadino. Il sostegno al trasporto merci su ferro non avviene soltanto con gli investimenti in infrastrutture ma anche con sussidi erogati in una forma o nell’altra agli operatori di trasporto, se portano le merci sul treno. Per avere un’idea di questi sussidi basterà dire che su una tratta da Genova a Stoccarda via Svizzera il contributo della Confederazione può coprire anche l’80% del costo di trazione del treno. Per una serie di ragioni dovute alla generale ristrettezza di risorse e probabilmente anche per una minore disponibilità dei cittadini svizzeri a partecipare a queste spese, i contributi negli anni a venire sono destinati a diminuire ma resterebbero comunque un fattore di attrazione di traffico considerevole. Significa che la possibilità di ottenere un sussidio attraversando la Svizzera può far apparire conveniente ad un operatore seguire un determinato itinerario anche se ciò comporta l’allungamento del percorso di un centinaio di chilometri. La politica dell’Unione Europea in materia di trasporto stradale ha creato una situazione di mercato che si sta rivelando insostenibile per molte imprese. La cosiddetta liberalizzazione, che meglio sarebbe chiamare deregulation, sta esercitando una pressione sui prezzi, che rende difficile alle imprese, strette dall’aumento dei prezzi del carburante e di certi costi fissi, reggere la concorrenza. La prima vittima di questa politica dissennata è stata il trasporto ferroviario delle merci, i cui margini, per essere competitivo rispetto alla strada, si sono ridotti sempre di più. E’ quindi pura ipocrisia da parte delle autorità europee affermare che si vuole incentivare il trasporto “sostenibile”; è paradossale ed assurdo investire con una mano risorse enormi in infrastrutture ferroviarie mentre con l’altra si creano le premesse perché restino inutilizzate oppure vengano utilizzate a condizione di pesanti sussidi pagati dal contribuente. Non occorre essere dei grande esperti per capire che, in queste condizioni, una volta ultimato il tunnel di base del Fréjus, dovremo finanziare anche i treni merci che ci passeranno, in misura superiore a quella adottata dagli svizzeri, per convincere gli operatori ad usare l’asse italo-francese piuttosto che l’asse italo-svizzero.

Continueremo a pagare
La riduzione progressiva del margine di competitività del trasporto ferroviario rispetto al trasporto stradale esercita una forte pressione sui costi. Oltre all’equipment e alla trazione, incide notevolmente il costo di accesso all’infrastruttura. Il pedaggio pagato dalle imprese ferroviarie per poter usare i binari di RFI è circa un quarto di quello che si paga in Germania a DB Netz. Eppure strillano ad ogni convegno che è eccessivo e che un suo eventuale ritocco verso l’alto li metterebbe fuori mercato. Il tunnel di base del Fréjus, come tutte le infrastrutture di quel tipo, si dovrebbe ripagare con il pedaggio ferroviario, con la tariffa d’accesso. Sembra ovvio che questa, una volta ultimata l’opera, venga aumentata rispetto all’attuale per ragioni di sostenibilità economica. Ma un aumento eccessivo scoraggerebbe gli operatori, che preferirebbero andare per strada. S’innesta per forza un circolo vizioso: o l’opera non si ripaga o, se vuole ripagarsi con le tariffe di accesso, deve aumentarle. Se le aumenta gli operatori fuggono e il traffico diminuisce, se le mantiene i poveri contribuenti dovranno ancora stringere la cinghia e il debito pubblico resterà pesante.

Una rete migliore, un traffico peggiore
Viene ripetuto fino alla noia che le infrastrutture sono necessarie se si vuole trasferire il traffico merci dalla strada alla rotaia. Questo è indubbiamente vero quando si sa dove e in che misura intervenire sulle infrastrutture, non è vero sempre e comunque, in ogni situazione e su ogni tratta di linea. Dieci anni fa l’infrastruttura ferroviaria italiana non era come quella di oggi, in questo lasso di tempo – a parte l’Alta Velocità – sono stati fatti numerosi interventi ed oggi disponiamo di una rete più moderna. Come si spiega allora che il traffico merci su ferro è crollato di circa il 50%? Esiste forse un rapporto inverso tra infrastruttura e traffico, per cui quanto più moderna è l’infrastruttura tanto meno traffico si riesce a realizzare? Evidentemente gli interventi sull’infrastruttura non sono sufficienti, ci debbono essere condizioni di mercato che consentono agli operatori di svolgere la loro attività con un profitto o almeno in maniera tale da coprire i costi, ci debbono essere degli operatori in grado di reggere economicamente e organizzativamente un business che ha elevati costi fissi ed elevate rigidità. Secondo la vulgata dell’Unione Europea queste condizioni di mercato favorevoli si creano con la concorrenza, mettendo il monopolista in competizione con altri soggetti. Anche questo è avvenuto in Italia negli ultimi anni, oggi ci sono almeno altre tre/quattro società in grado di competere veramente con Trenitalia sulla trazione dei treni merci. Trascuriamo per ora il fatto che queste società sono tutte controllate da altri ex monopolisti, come DB, SNCF, SBB e OBB, ma come si spiega che cinque società oggi portano sulla rotaia meno merci di quelle che ne portava una sola dieci anni fa? Condizioni di mercato, certo, ma come si spiega che questa variabile non venga mai presa in considerazione da parte dei sostenitori del tunnel di base del Fréjus (a dire il vero nemmeno gli oppositori sembrano rendersene conto)? In alcuni casi le strozzature sul piano infrastrutturale, i “colli di bottiglia”, possono essere superati impiegando un equipment adeguato. Alcune gallerie su certi direttrici importanti, per esempio la direttrice adriatica, non hanno la sagoma sufficiente per far passare un certo tipo di container che oggi si sta diffondendo a ritmi superiori a quelli dei container tradizionali da 20’ e 40’. Ma non è indispensabile rifare la galleria, basta che gli operatori utilizzino dei carri “ultrabassi” ed il problema è risolto. Ma questi carri costano più dei carri usati normalmente, il loro impiego farebbe lievitare i costi dell’operatore, che rinuncia a quel traffico addossando la responsabilità all’insufficienza dell’infrastruttura mentre ad essere inadeguato è lui, sottodimensionato oppure semplicemente entrato sul mercato offrendo lo stesso servizio dell’ex monopolista a qualche centesimo di meno. Per entrare sul mercato italiano, le grandi compagnie straniere hanno creato delle società low cost, le quali non hanno offerto un servizio migliore o aperto nuovi spazi di mercato, hanno certamente curato di più il cliente di quanto lo possa fare una società che è monopolista, ma al cittadino contribuente interessa il risultato: oggi con una pluralità di operatori si portano meno merci sul treno di quante si portavano dieci anni fa, con un’infrastruttura peggiore ed un solo operatore. Oggi la rete stradale è altrettanto congestionata rispetto a dieci anni fa, anzi, la velocità commerciale media dei camion è diminuita. L’ossessione di intervenire sempre e solo sulle infrastrutture è semplicemente l’altra faccia della bolla immobiliare, non aiuta il Paese, non aiuta il trasporto merci su ferrovia. Il difetto sta altrove.

Logistica in abbondanza
L’ossessione immobiliare sta distruggendo quel poco che finora era stato fatto in Italia per portare carichi dalla strada alla rotaia. Le condizioni di mercato sempre più difficili che abbiamo descritto in precedenza fanno sì che i treni merci, in particolare quelli più diffusi e con maggiore futuro, i treni intermodali, per stare sul mercato debbono avere fattori di carico elevato, numero di carri non inferiore ai 30 e carichi di ritorno assicurati. Questo è possibile laddove si creano dei punti di concentrazione del traffico, dove cioè diversi operatori fanno convergere i loro carichi in modo da creare massa critica. Questo diventa praticamente impossibile dove i punti di carico sono frammentati, dispersi sul territorio e magari vicini uno all’altro. Negli Anni 80 con il primo Piano Generale dei Trasporti il nostro Paese si era dotato di infrastrutture adatte proprio a questo scopo: gli Interporti. Non possiamo arrivare a dire che sono stati un’”invenzione” italiana ma certamente in questo campo abbiamo la leadership europea, Verona Quadrante Europa è il primo interporto d’Europa,  gli Interporti di Padova, di Bologna, di Novara sono terminali di assi internazionali, l’Interporto di Nola è la maggiore infrastruttura di trasporto del Mezzogiorno (il porto di Gioia Tauro è importante, peccato che solo una piccola parte del suo traffico interessi l’Italia). Gli Interporti si reggono su due aree di business: l’immobiliare logistico e il traffico intermodale (i maggiori investimenti in un Interporto sono quelli ferroviari). Si sono creati in seguito altri Interporti, molti dei quali languono da anni per mancanza di traffico, si sono creati terminal intermodali a distanza ravvicinata dagli Interporti, si sono costruite e si stanno costruendo a un ritmo sfrenato piattaforme logistiche, anche a ridosso dei maggiori Interporti. Risultato: oggi i grandi Interporti hanno difficoltà a giungere a break even con gli affitti dei loro magazzini se debbono reggere la concorrenza con infrastrutture vicine che fanno prezzi stracciati, il traffico che prima si concentrava e poteva essere trasferito su ferrovia oggi si disperde e finisce tutto all’autotrasporto. I sindaci dei Comuni consentono questa insensatezza per incassare oneri di urbanizzazione. Un altro pezzo del nostro sistema dei trasporti che se ne va. Mi chiedo: con quale faccia tanti amministratori di enti locali del Nordovest (Regione, Province, Comuni) sostengono a occhi chiusi la “grande opera” del Fréjus, quando ogni giorno essi fanno qualcosa per rendere quest’opera inutile? Mi chiedo: quando certi Ministri definiscono l’opera “fondamentale” per il nostro sistema logistico, hanno un’idea di com’è fatto questo sistema, di quali sono i suoi pilastri, o parlano a vanvera?

La grande opera si farà, ma…
I forti interessi privati che stanno dietro alla “grande opera”, il tornaconto dei partiti, il fideismo di buona parte dell’opinione pubblica che ignora certe condizioni di contesto come quelle qui accennate, gli impegni internazionali e via dicendo finiranno per prevalere e l’opera si farà, non mi faccio illusioni. Se il termine “opera inutile” non è appropriato, possiamo ben dire però che essa nasce zoppa ed ogni giorno che passa zoppica sempre di più. Ma quel che è paradossale è che ad azzopparla ci pensano molto di più coloro che provengono dal campo dei sostenitori, capaci di fare più danni di quelli provocati dagli oppositori. Se del trasporto ferroviario delle merci non interessa nulla a nessuno e l’opera si fa perché si deve fare, sarei curioso tuttavia di conoscere gli argomenti per sostenere che in seguito all’apertura del tunnel

- verrà migliorato l’assetto economico – produttivo, distributivo, finanziario, retributivo, fiscale – del Nordovest o del Nord o dell’Italia
- le nostre esportazioni aumenteranno
- le imprese saranno indotte di meno a delocalizzare
- il nostro sistema manifatturiero si orienterà verso settori a più elevato contenuto tecnologico
- il costo dei servizi logistici si abbasserà
- circoleranno meno camion sulla rete primaria e su quella secondaria
- aumenterà il reddito pro capite
- i consumi si orienteranno verso prodotti e servizi più sostenibili
- le start up avranno maggiori risorse ed opportunità di sviluppo
- il costo del lavoro dipendente si abbasserà per le imprese ed i contratti di lavoro aboliranno o ridurranno il precariato
- i giovani avranno maggiori opportunità di lavoro nell’industria e nei servizi
- la Pubblica Amministrazione sarà più efficiente ecc. ecc.
Vorrei che qualcuno mi aiutasse a trovare degli argomenti a sostegno di queste ipotesi. Io non li trovo e mi chiedo allora se il movimento No Tav, anche se alla fine non dovesse raggiungere l’obbiettivo specifico, non sia una voce, o un grido, necessari a porre questa domanda a coloro che decidono l’impiego delle risorse pubbliche: come pensate di avviare la fase 2 del governo Monti, quella delle politiche di sviluppo, pensate di fondarla sulla costruzione di grandi infrastrutture? Per fare la fine della Spagna?
Thank You for your attention
Sergio Bologna

*****

ringrazio molto Sergio Bologna per avermi concesso di pubblicare il suo testo su barravento

martedì 18 giugno 2013

I DIRITTI DEL CONSUMATORE DI SPETTACOLO



Il processo del M5S alla Gambaro lede il diritto alla libertà d’opinione


Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, Art. 21: Ogni individuo ha il diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere.
Beppe Grillo e i suoi più fedeli seguaci ha deciso di ledere questo diritto insindacabile?
Persino la nostra psiche ha bisogno della diversità: la rigidità dell’io, del Super-io, sono dannose per il singolo individuo e portano a nevrosi. Affinché ci sia sanità mentale la nostra psiche ha bisogno di sintesi tra antinomie, di più visioni, di elasticità. Un individuo rigido mentalmente oltre a soffrire personalmente struttura la sua vita in regole inficianti e difficili da sostenere anche per gli altri. Le regole sono cosa buona e giusta fino a quando non diventano pensiero unico, rigidità e paranoia.
Tutto questo trasportato in un gruppo diventa pernicioso. Se il mito fondante di un gruppo si basa su paranoia, rigidità, mito messianico e terrore del pensiero libero e delle differenze, come si può pensare che i fini di questo gruppo possano contribuire alla democrazia? Se persino la democrazia individuale è assicurata da una mente elastica che sa vagliare vari punti di vista, figuriamo in un gruppo, per di più politico, quanto sia importante saper tollerare, accogliere e riflettere sulle diversità di vedute. Che Grillo interrompa subito questo scempio.
Chi ha una critica da esporre, chi ha il coraggio di esprimere un’opinione diversa, va accettato, ascoltato , rispettando il diritto al libero pensiero. Questo processo alla senatrice Gambaro è uno spettacolo indecoroso e può sancire una deriva da cui sarà difficile tornare indietro.


Commento di Sergio Ghirardi, finalmente apparso sul Fatto dopo esser passato tra le grinfie del moderatore, tipico esempio di rispetto della libertà d’espressione:

Comincio a preoccuparmi. Non per Grillo che per me, urli o sussurri, dica cose sensate o deliri, conta uno e non è il rappresentante ufficiale di niente. Non per la Gambaro che sul filo del rasoio tra eletta narcisista ben retribuita e cittadina anticasta al servizio del bene comune farà le sue scelte.
La questione sociale va posta per intero non con lo spezzettamento utile ai moralismi borghesi e all'embrassons nous tra carogne sempre pronte a intese più larghe.
Certo io difendo la totale, assoluta libertà d'espressione per tutti e comunque, persino per i mostri. Figuriamoci per chi dissente in un gruppo politico. Dissentire, però, non può essere neutro e senza conseguenze. Lo psicodramma coltivato sulle espulsioni è l'albero marcio che nasconde la foresta inquinata. Puzza di un conformismo piccolo borghese che si gargarizza di diritti dell'uomo per ignorare che in loro nome si ledono meglio.
Un gruppo che ha idee, comportamenti e regole esplicite e chi  - magari a ragione - non è più d'accordo, devono separarsi. Il divorzio è il cuore di ogni matrimonio che non pretenda di essere sacro. La politica sacra è bigottismo opportunista. Chi vuole mandare a V day Grillo lo faccia liberamente, ma non pretenda di continuare a dormire nello stesso letto. A chi appartiene il letto? Ecco il nodo gordiano da affrontare ben oltre il M5s: la proprietà privata, che insieme alla famiglia e allo Stato determinano la società capitalista da cui sarebbe ora, Grillo o non Grillo, di uscire.

sabato 15 giugno 2013

Decrescita piacevole







Minima RIFLESSIONE sul BLOG del FATTO a proposito di decrescita.

Anche qui emerge, dominante, l'insopportabile idiozia di chi difende una patria soltanto ideologica, contro il nemico, lo straniero che viene a imporre la decrescita folle al progressismo, patria della bontà crescente, razionale e meravigliosa.
Basta. 
La realtà evidente è che ormai nessuno è contento e l'unico piacere sembra essere la speranza che l'altro stia peggio, capisca meno, sia lo stronzo che disperatamente si cerca come capro espiatorio.
Questa è la fase terminale della malattia produttivista: insieme al valore economico cresce una disperazione orrenda la cui sola diga rimasta è chiamarla progresso.
Io non credo che la decrescita possa essere felice, solo gli esseri umani ogni tanto lo sono, quando crescono e decrescono armoniosamente al ritmo dell’orgasmo del vivente. 
Decrescere può essere piacevole se fa star meglio chi lo decide e lo esplora non per ideologia ma per volontà di vivere e intelligenza sensibile. 
Per rompere con una crescita economica delirante, parossistica e alienata.
Nell’immediato, più intimamente, nonostante la mia solidarietà, non credo che potrò ancora a lungo sottopormi al supplizio di dialoghi virtuali con servotori volontari sordi e impotenti.

Sergio Ghirardi

Semel in anno licet insanire






Da eterno studente del dogma economico, lo sguardo del dottor Feltri (esimio volgarizzatore della teologia economicista) sulla questione sociale è da droghiere della politica. E il peggio è che, credo, sia addirittura in buona fede (ma soprattutto fede).
Nei suoi interventi chiama ripetutamente il M5s “partito”, cancellando semplicemente il dato oggettivo che il M5s si presenta come nemico acerrimo della partitocrazia (un po’ come se avesse definito la democrazia cristiana degli anni ’50, un raggruppamento di agnostici).
In effetti, Feltri è l’alberello ubbidiente di una foresta che ha bisogno per la sua sopravvvivenza che il M5s diventi alla svelta un banale partito di più. Non basta per rassicurar lorsignori che in parte, com'era del resto prevedibile, anche molti eletti/elettori del M5s si adoperino già per renderlo tale. Sia gli idioti incapaci di immaginare un’autonomia di pensiero e d’azione sia gli opportunisti che colgono l’occasione irripetibile per riempirsi le tasche di denaro e lo specchio di notorietà, lavorano già affinché tutto rientri nell’ordine delle cose.
Intanto, novello Salomone, Feltri si siede sulla poltrona imbottita di euri dell’obiettività, mentre dovrebbe leggersi (ma soprattutto capirne il senso evidente, il che è più difficile per un qualunque specialista salariato) Pierre Bourdieu e Chomsky a proposito della manipolazione mediatica. Guarda caso, preferisce indossare l’ipocrita maschera spettacolare del benpensante che vede nei media un mezzo neutro d’informazione al quale sottomettersi quasi per dovere di cittadinanza.
Va da sé (ma rischia di non andare da nessuna parte) che oltre quest’orribile spettacolo di blocco programmato delle intenzioni di un gruppo spontaneo - il M5s - sospinto da tutte le parti affinché si riduca a mandria elettorale, comincerà (o no) la storia di una democrazia reale.
Questo e non altro è in gioco. Che farsene di un governo parlamentare a 5 stelle anziché 3, 6 o nessuna, querce, ulivi o baobab, se c’è sempre qualche burocrate professionista a decidere per me e contro di me, secondo i voleri del capitalismo dominante? Un TAV qui, un inceneritore là, mentre i topi ballano e il gatto incassa le mazzette.
Tuttavia, la necessità di una rivoluzione culturale presuppone l'esistenza di una cultura soggettiva sia individuale che collettiva.
Ora l'Italia storica, frankenstein nato in fretta e furia tra monarchia e clero, poi fascismo e clero e infine clero e basta, ha inventato gli italiani a partire dall'adesione a dei dogmi successivi e similari.
Il clericalismo strutturale di destra e di sinistra ha fatto dell'Italia un paese incapace di rivoluzione, bigotto e sempre pronto a salire sul carro del vincitore per quanto miserabile e relativo (vedi recenti elezioni comunali). C'è qualcosa di patetico...in Danimarca. Tutt’intorno, il mediterraneo si solleva contro gli oscurantismi e i soprusi con diversa fortuna ma unico coraggio, mentre gli italiani restano a Letta a dormire da Prodi sulla loro via crucis millenaria.

Non so come finirà questa primavera pentastellata accerchiata da iene mafiose e rosicchiata come un formaggio dai topi dello spettacolo, ma non è poi così importante sapere se Grillo continuerà o no, se il M5s diventerà un ennesimo partito burocratico di cui comincia a portare diverse stigmate, o se saprà continuare a battersi per la transizione verso una democrazia diretta.
Importante è che un nuovo soggetto, finalmente laico e cosciente del proprio tempo, esca dai confini dell’umiliazione atavica per diffondere le basi per una rivoluzione culturale continentale capace di abolire tutti gli anciens régimes spettacolari. L’Italia, che non ha mai esportato rivoluzioni ma solo dominio, come sempre seguirà.
Un altro continente che faccia dell’Europa una Comune, Italia inclusa, è possibile se si esce dal manicheismo mostruoso che propone l’oscena alternativa fittizia tra l’Europa delle multinazionali e la regressione nazionalista di tutti i fascismi vecchi e nuovi, di tutte le leghe razziste e xenofobe.
Non c’è dubbio che il processo in atto di decomposizione della società dello spettacolo porterà, più prima che poi, al superamento delle condizioni presenti, tuttavia, a seconda della forza della coscienza degli individui sociali coinvolti in un tale sconvolgimento ineluttabile, questo superamento sarà una tragedia o una festa.
Il tempo non è quello di vincere le elezioni (ma lo è mai stato?), quanto di appoggiarsi sulla rivolta della natura di fronte all’effimero dominio dell’homo oeconomicus, schiavo ottuso della redditività.
Urge che si renda consistente anche in Italia la coscienza della minoranza internazionale che oserà opporre la sua volontà di vivere alla distruzione  in stato avanzato del tessuto sociale umano e del godimento spontaneo dell’essere al mondo. Urge, prima che sia troppo tardi, sapendo che il sistema globale non potrà reggere neanche a un 20% di secessionisti convinti, evitare che sia definitivamente sconvolto anche l’equilibrio intimo e fragile dell’ecosistema nel quale il vivente, di cui siamo parte, si esprime.


Sergio Ghirardi