La tensione che si è verificata nelle ultime settimane in Val
di Susa ha portato all’affermazione, da parte di qualcuno, che il movimento di
opposizione alla “grande opera” in realtà non ha come oggetto l’opera in quanto
tale ma la simbologia del potere dello stato centrale. Il movimento quindi
avrebbe un carattere intrinsecamente eversivo, anche se la maggioranza dei suoi
esponenti si dichiara a favore di metodi di lotta pacifici. Alcuni organi di
stampa si sono fatti portavoce di questa interpretazione. Poiché a me pare
invece che nella sua sostanza il movimento abbia un forte senso civico e
contenga elementi di razionalità, che non trovo in molte affermazioni di tono
“fideistico” dei sostenitori dell’opera, vorrei condividere con le persone con
le quali in questi ultimi vent’anni ho lavorato fianco a fianco sul tema della
pianificazione del trasporto merci e della logistica alcune considerazioni.
Gli argomenti che vengono portati pro o contro la costruzione
del tunnel di base riguardano sostanzialmente due aspetti: il rapporto costi/benefici
dell’opera e l’impatto ambientale. Molto trascurato finora è stato un aspetto
che a mio avviso è fondamentale, quello del mercato del trasporto ferroviario
delle merci, un mercato che presenta caratteristiche specifiche che non possono
essere trattate come una variabile secondaria. L’opera infatti viene definita
come uno strumento indispensabile per incrementare il trasporto merci
transalpino su ferro. Questo è il punto, tutto il resto, il pericolo di un
isolamento dall’Europa, lo sviluppo dei territori interessati, l’occupazione,
il valore intrinsecamente strategico delle grandi infrastrutture ecc. fa parte
di un corollario che definirei ideologico, perché non si può che affidare a
ipotesi contro le quali non è difficile opporre altre ipotesi di segno
contrario.
Un vizio universale
Alcuni anni or sono Standard&Poor aveva pubblicato un
elenco di grandi infrastrutture di trasporto realizzate nel mondo, paragonando
le previsioni di traffico che erano state fatte all’atto della loro messa in
cantiere con il traffico effettivo alcuni anni dopo la realizzazione. Nella
grande maggioranza dei casi le previsioni avevano superato largamente, cioè di
sei, sette, otto volte, il traffico effettivo. Com’è noto l’affidabilità delle
previsioni di traffico non solo è essenziale per calibrare la capacità
dell’infrastruttura ma soprattutto per valutare la sua sostenibilità economica,
che si basa sulle tariffe d’accesso, sull’ammontare dei pedaggi – ne sanno
qualcosa i gestori di autostrade. Se le previsioni di traffico sono state
sovradimensionate l’opera non riuscirà a ripagarsi e finirà per pesare più del
previsto sul debito pubblico. Con questo esempio intendo dire che non è solo un
vizio italiano quello di “sparare dei numeri” altisonanti nel sottoporre la
progettazione di un’infrastruttura ai decisori pubblici e al mondo finanziario (sto
pensando in questo momento a certe idee di infrastrutture portuali). E’ un
vizio universale, nel quale ci lasciano l’onore, purtroppo, diversi esponenti
del mondo scientifico ed accademico.
I valichi transalpini:
quali priorità?
L’Italia dispone di otto valichi ferroviari per
l’attraversamento delle Alpi: Ventimiglia, Modane, Domodossola, Luino, Chiasso,
Brennero, Tarvisio, Villa Opicina. Non ha molto senso valutare come si distribuisce
il traffico tra questi valichi in termini di tonnellate/chilometro. La graduale
sostituzione di merci leggere rispetto alle merci pesanti, dovuta anche alla
trasformazione degli assetti produttivi, ci consiglia di utilizzare come
parametro più affidabile il numero di treni merci che nella settimana
attraversano i valichi nei due sensi. Il valico più “trafficato” è il Brennero,
ma la maggioranza dei treni, pari a circa il 50% del totale, transita per i tre
valichi italo-svizzeri di Domodossola, Luino e Chiasso. Logica vorrebbe che un
Paese, così preoccupato di non restare isolato dall’Europa, si adoperasse per
concentrare le risorse sui lavori necessari al miglioramento dell’infrastruttura
di valico là dove il traffico non solo è più intenso ma ha continuato a
crescere in questi anni, mettendo in secondo piano nell’agenda delle priorità i
lavori ai valichi dove il traffico è assai limitato e negli ultimi anni in
continua diminuzione. Logica vorrebbe inoltre che un Paese, preoccupato di
avere buoni rapporti di vicinato coi Paesi confinanti, coordinasse i suoi
sforzi con quelli, soprattutto quando da parte loro – nel caso specifico la Svizzera – vengono fatti
degli investimenti straordinari in infrastrutture di trasporto destinate a
creare dei corridoi merci che sboccano nel nostro Paese, lo collegano ai grandi
assi europei e di cui il nostro Paese è il primo beneficiario se vuole, come si
usa dire, “togliere camion dalla strada”. La Svizzera ha ultimato nei
tempi previsti un’opera straordinaria come il tunnel del Lötschberg, che ha
notevolmente aumentato la capacità della linea, consentendo il passaggio di un
maggior numero di treni merci. I quali, arrivati in Italia, per proseguire si
trovano a dover utilizzare la linea Domodossola-Arona-Sesto Calende-Milano
oppure la Domodossola-Omegna-Borgomanero-Novara
che è una linea a senso alterno, risalente agli Anni Venti (Novara, com’è noto,
è uno dei maggiori Interporti italiani, caratterizzato in questi ultimi anni da
una crescita costante, terminal di uno degli assi ferroviari europei Nord-Sud
fondamentali). E’ vero che il tunnel del Lötschberg non può essere utilizzato
ancora al massimo della sua capacità perché ci sono dei lavori di adeguamento
della linea da completare sia a valle che a monte in territorio svizzero, ma è
altrettanto vero che in questi ultimi dieci anni mentre il nostro udito è stato
assordato dalle grida d’allarme perché la Torino-Lione non
andava avanti, nessuno ha alzato un dito – o lo ha fatto in maniera sommessa –
sui rischi dei “colli di bottiglia” che possono diventare strutturali sulla
linea che porta un numero di treni assai superiore a quelli che transitano per
Modane. Non è un caso quindi che non più tardi di qualche settimana fa la
società svizzera Hupac, che gestisce la grande maggioranza di questi treni, si
sia permessa di far osservare che anche il valico di Luino meriterebbe maggior
attenzione da parte italiana, più ancora di Chiasso, perché Luino – attraverso
il quale passano soprattutto container marittimi, mentre per Domodossola e
Chiasso passano prevalentemente treni di casse mobili, semirimorchi e
“autostrada viaggiante” (quanto conta questa differenza lo vedremo dopo) – se
opportunamente adeguato, potrebbe aiutare a risolvere certe criticità, in
parole povere il rischio di saturazione dei collegamenti con la Svizzera in certi giorni
della settimana. Se l’asse Nord-Sud che passa per la Svizzera presenta a breve
il rischio di una certa saturazione nel tratto italiano, i primi a rimetterci
sono i nostri porti di Savona, Genova e, in parte, La Spezia, cioè le nostre
principali porte di accesso via mare ai traffici intercontinentali. Mentre se
l’asse Est-Ovest, che passa da Modane, resta nelle condizioni attuali, nessun
particolare svantaggio ricade sui porti liguri. Riassumendo: l’Italia fa poco o
nulla per assicurarsi un collegamento ferroviario al passo coi tempi nell’asse
Nord-Sud che collega i porti liguri con l’Europa centro-occidentale e conta
oggi per il 50% del traffico totale, ma rischia a cuor leggero la guerra civile
per costruire un collegamento Est-Ovest, che la pone in collegamento con un
mercato che conta oggi per il 7% del totale.
Nel tunnel
E la Gran Bretagna?
Non è forse un grande mercato? Non sarebbe un grande vantaggio se potessimo
caricare le merci sul treno a Novara ed andare fino a Liverpool, via tunnel di
base del Fréjus e tunnel sotto la
Manica? Non sarebbe questo un corridoio intermodale
strategico? Evocare il tunnel sotto la Manica significa portare in campo un esempio di
risultati piuttosto mortificanti di una “grande opera”, magnificata come
realizzazione del capitale privato che si sostituisce allo stato. Dal giorno in
cui i governi di Francia e Gran Bretagna decisero di scegliere la strada del project financing secondo la formula
Build Operate and Transfer (BOT), erogando la concessione alla società
Eurotunnel vincitrice della gara, è stato un susseguirsi di vicende che hanno
visto mezzo milione di azionisti privati perdere i loro risparmi e iniziare una
serie di azioni giudiziarie, che si sono protratte per anni, nel tentativo di
recuperare una parte del capitale investito. Secondo il “Time”, piccoli azionisti
e creditori hanno dovuto rinunciare a circa 6,5 miliardi di dollari loro dovuti
dalla società Eurotunnel. La sostenibilità economica dell’opera quindi si è
dimostrata fasulla e per consentire al gestore di non finire in bancarotta gli
è stata prolungata la concessione fino al 2086, il gravame del debito, che
supera i 10 miliardi di dollari, è tale che spesso il puro pagamento degli
interessi annulla i risultati di esercizio. Ma, a parte questi aspetti
finanziari, ora che il tunnel c’è e ci passano quattro treni all’ora, il
trasporto ferroviario delle merci quanti camion ha sottratto alla strada? Moltissimi,
sembrerebbe, se è vero che il trasporto merci è la principale fonte di introiti
di Eurotunnel. Ahimé no, perché il trasporto delle merci non avviene su carri
ferroviari intermodali senza autista al seguito da origine a destino ma in
massima parte su camion, che vengono caricati in speciali contenitori e
traghettati da una sponda all’altra. In pratica, per farci capire anche da chi
non ha la più pallida idea del trasporto merci – e molto spesso, a sentire
certe affermazioni in tv o certe dichiarazioni sulla stampa di esponenti
politici o europarlamentari, questo è il caso – un carico partito da Marsiglia
e diretto a Edinburgo non viene messo su un carro ferroviario a Marsiglia e
sbarcato direttamente in un terminal di Edinburgo ma viene caricato su un
camion, il quale percorre l’autostrada fino a Calais/Coquelles, lì viene messo
in quei grandi contenitori che servono per attraversare la Manica (mentre l’autista se
ne sta in una carrozza separata con altri suoi colleghi), viene trasportato
sotto lo stretto, scaricato a Dover, e da lì riprende la sua strada fino a
Edinburgo. Risultato in termini di trasferimento modale, dalla strada alla
rotaia? Zero. Il trasporto passeggeri invece funziona alla grande, sembra.
Certo, ma essenzialmente per i leisure
travel e non si ripaga. C’è da chiedersi, ma com’è possibile, con questi
esempi sotto gli occhi, continuare a difendere a spada tratta il tunnel di base
sotto il Fréjus e per di più farlo pagare ai cittadini? Fosse almeno costruito
in project financing…
Svizzera generosa
La Svizzera
è il Paese europeo che, in relazione alla popolazione, ha più investito nel
trasporto ferroviario delle merci. Una parte dei fondi ad esso destinati
provengono dalle tariffe di transito dei veicoli pesanti, una parte però grava
sul cittadino. Il sostegno al trasporto merci su ferro non avviene soltanto con
gli investimenti in infrastrutture ma anche con sussidi erogati in una forma o
nell’altra agli operatori di trasporto, se portano le merci sul treno. Per
avere un’idea di questi sussidi basterà dire che su una tratta da Genova a
Stoccarda via Svizzera il contributo della Confederazione può coprire anche
l’80% del costo di trazione del treno. Per una serie di ragioni dovute alla
generale ristrettezza di risorse e probabilmente anche per una minore
disponibilità dei cittadini svizzeri a partecipare a queste spese, i contributi
negli anni a venire sono destinati a diminuire ma resterebbero comunque un
fattore di attrazione di traffico considerevole. Significa che la possibilità
di ottenere un sussidio attraversando la Svizzera può far apparire conveniente ad un
operatore seguire un determinato itinerario anche se ciò comporta l’allungamento
del percorso di un centinaio di chilometri. La politica dell’Unione Europea in
materia di trasporto stradale ha creato una situazione di mercato che si sta
rivelando insostenibile per molte imprese. La cosiddetta liberalizzazione, che
meglio sarebbe chiamare deregulation, sta esercitando una pressione sui prezzi,
che rende difficile alle imprese, strette dall’aumento dei prezzi del
carburante e di certi costi fissi, reggere la concorrenza. La prima vittima di
questa politica dissennata è stata il trasporto ferroviario delle merci, i cui
margini, per essere competitivo rispetto alla strada, si sono ridotti sempre di
più. E’ quindi pura ipocrisia da parte delle autorità europee affermare che si
vuole incentivare il trasporto “sostenibile”; è paradossale ed assurdo
investire con una mano risorse enormi in infrastrutture ferroviarie mentre con
l’altra si creano le premesse perché restino inutilizzate oppure vengano
utilizzate a condizione di pesanti sussidi pagati dal contribuente. Non occorre
essere dei grande esperti per capire che, in queste condizioni, una volta
ultimato il tunnel di base del Fréjus, dovremo finanziare anche i treni merci
che ci passeranno, in misura superiore a quella adottata dagli svizzeri, per
convincere gli operatori ad usare l’asse italo-francese piuttosto che l’asse
italo-svizzero.
Continueremo a pagare
La riduzione progressiva del margine di competitività del
trasporto ferroviario rispetto al trasporto stradale esercita una forte
pressione sui costi. Oltre all’equipment e alla trazione, incide notevolmente
il costo di accesso all’infrastruttura. Il pedaggio pagato dalle imprese
ferroviarie per poter usare i binari di RFI è circa un quarto di quello che si
paga in Germania a DB Netz. Eppure strillano ad ogni convegno che è eccessivo e
che un suo eventuale ritocco verso l’alto li metterebbe fuori mercato. Il
tunnel di base del Fréjus, come tutte le infrastrutture di quel tipo, si
dovrebbe ripagare con il pedaggio ferroviario, con la tariffa d’accesso. Sembra
ovvio che questa, una volta ultimata l’opera, venga aumentata rispetto
all’attuale per ragioni di sostenibilità economica. Ma un aumento eccessivo
scoraggerebbe gli operatori, che preferirebbero andare per strada. S’innesta
per forza un circolo vizioso: o l’opera non si ripaga o, se vuole ripagarsi con
le tariffe di accesso, deve aumentarle. Se le aumenta gli operatori fuggono e
il traffico diminuisce, se le mantiene i poveri contribuenti dovranno ancora
stringere la cinghia e il debito pubblico resterà pesante.
Una rete migliore, un
traffico peggiore
Viene ripetuto fino alla noia che le infrastrutture sono
necessarie se si vuole trasferire il traffico merci dalla strada alla rotaia.
Questo è indubbiamente vero quando si sa dove e in che misura intervenire sulle
infrastrutture, non è vero sempre e comunque, in ogni situazione e su ogni
tratta di linea. Dieci anni fa l’infrastruttura ferroviaria italiana non era come
quella di oggi, in questo lasso di tempo – a parte l’Alta Velocità – sono stati
fatti numerosi interventi ed oggi disponiamo di una rete più moderna. Come si
spiega allora che il traffico merci su ferro è crollato di circa il 50%? Esiste
forse un rapporto inverso tra infrastruttura e traffico, per cui quanto più
moderna è l’infrastruttura tanto meno traffico si riesce a realizzare? Evidentemente
gli interventi sull’infrastruttura non sono sufficienti, ci debbono essere
condizioni di mercato che consentono agli operatori di svolgere la loro
attività con un profitto o almeno in maniera tale da coprire i costi, ci
debbono essere degli operatori in grado di reggere economicamente e
organizzativamente un business che ha elevati costi fissi ed elevate rigidità.
Secondo la vulgata dell’Unione Europea queste condizioni di mercato favorevoli si
creano con la concorrenza, mettendo il monopolista in competizione con altri
soggetti. Anche questo è avvenuto in Italia negli ultimi anni, oggi ci sono
almeno altre tre/quattro società in grado di competere veramente con Trenitalia
sulla trazione dei treni merci. Trascuriamo per ora il fatto che queste società
sono tutte controllate da altri ex monopolisti, come DB, SNCF, SBB e OBB, ma
come si spiega che cinque società oggi portano sulla rotaia meno merci di
quelle che ne portava una sola dieci anni fa? Condizioni di mercato, certo, ma
come si spiega che questa variabile non venga mai presa in considerazione da
parte dei sostenitori del tunnel di base del Fréjus (a dire il vero nemmeno gli
oppositori sembrano rendersene conto)? In alcuni casi le strozzature sul piano
infrastrutturale, i “colli di bottiglia”, possono essere superati impiegando un
equipment adeguato. Alcune gallerie su certi direttrici importanti, per esempio
la direttrice adriatica, non hanno la sagoma sufficiente per far passare un
certo tipo di container che oggi si sta diffondendo a ritmi superiori a quelli
dei container tradizionali da 20’
e 40’. Ma
non è indispensabile rifare la galleria, basta che gli operatori utilizzino dei
carri “ultrabassi” ed il problema è risolto. Ma questi carri costano più dei
carri usati normalmente, il loro impiego farebbe lievitare i costi
dell’operatore, che rinuncia a quel traffico addossando la responsabilità
all’insufficienza dell’infrastruttura mentre ad essere inadeguato è lui,
sottodimensionato oppure semplicemente entrato sul mercato offrendo lo stesso
servizio dell’ex monopolista a qualche centesimo di meno. Per entrare sul
mercato italiano, le grandi compagnie straniere hanno creato delle società low cost, le quali non hanno offerto un
servizio migliore o aperto nuovi spazi di mercato, hanno certamente curato di
più il cliente di quanto lo possa fare una società che è monopolista, ma al
cittadino contribuente interessa il risultato: oggi con una pluralità di
operatori si portano meno merci sul treno di quante si portavano dieci anni fa,
con un’infrastruttura peggiore ed un solo operatore. Oggi la rete stradale è altrettanto
congestionata rispetto a dieci anni fa, anzi, la velocità commerciale media dei
camion è diminuita. L’ossessione di intervenire sempre e solo sulle
infrastrutture è semplicemente l’altra faccia della bolla immobiliare, non
aiuta il Paese, non aiuta il trasporto merci su ferrovia. Il difetto sta
altrove.
Logistica in
abbondanza
L’ossessione immobiliare sta distruggendo quel poco che
finora era stato fatto in Italia per portare carichi dalla strada alla rotaia.
Le condizioni di mercato sempre più difficili che abbiamo descritto in
precedenza fanno sì che i treni merci, in particolare quelli più diffusi e con
maggiore futuro, i treni intermodali, per stare sul mercato debbono avere
fattori di carico elevato, numero di carri non inferiore ai 30 e carichi di
ritorno assicurati. Questo è possibile laddove si creano dei punti di
concentrazione del traffico, dove cioè diversi operatori fanno convergere i
loro carichi in modo da creare massa critica. Questo diventa praticamente
impossibile dove i punti di carico sono frammentati, dispersi sul territorio e
magari vicini uno all’altro. Negli Anni 80 con il primo Piano Generale dei
Trasporti il nostro Paese si era dotato di infrastrutture adatte proprio a
questo scopo: gli Interporti. Non possiamo arrivare a dire che sono stati
un’”invenzione” italiana ma certamente in questo campo abbiamo la leadership
europea, Verona Quadrante Europa è il primo interporto d’Europa, gli Interporti di Padova, di Bologna, di
Novara sono terminali di assi internazionali, l’Interporto di Nola è la
maggiore infrastruttura di trasporto del Mezzogiorno (il porto di Gioia Tauro è
importante, peccato che solo una piccola parte del suo traffico interessi
l’Italia). Gli Interporti si reggono su due aree di business: l’immobiliare
logistico e il traffico intermodale (i maggiori investimenti in un Interporto
sono quelli ferroviari). Si sono creati in seguito altri Interporti, molti dei
quali languono da anni per mancanza di traffico, si sono creati terminal
intermodali a distanza ravvicinata dagli Interporti, si sono costruite e si stanno
costruendo a un ritmo sfrenato piattaforme logistiche, anche a ridosso dei
maggiori Interporti. Risultato: oggi i grandi Interporti hanno difficoltà a
giungere a break even con gli affitti dei loro magazzini se debbono reggere la
concorrenza con infrastrutture vicine che fanno prezzi stracciati, il traffico
che prima si concentrava e poteva essere trasferito su ferrovia oggi si
disperde e finisce tutto all’autotrasporto. I sindaci dei Comuni consentono
questa insensatezza per incassare oneri di urbanizzazione. Un altro pezzo del
nostro sistema dei trasporti che se ne va. Mi chiedo: con quale faccia tanti
amministratori di enti locali del Nordovest (Regione, Province, Comuni)
sostengono a occhi chiusi la “grande opera” del Fréjus, quando ogni giorno essi
fanno qualcosa per rendere quest’opera inutile? Mi chiedo: quando certi
Ministri definiscono l’opera “fondamentale” per il nostro sistema logistico,
hanno un’idea di com’è fatto questo sistema, di quali sono i suoi pilastri, o
parlano a vanvera?
La grande opera si
farà, ma…
I forti interessi privati che stanno dietro alla “grande
opera”, il tornaconto dei partiti, il fideismo di buona parte dell’opinione
pubblica che ignora certe condizioni di contesto come quelle qui accennate, gli
impegni internazionali e via dicendo finiranno per prevalere e l’opera si farà,
non mi faccio illusioni. Se il termine “opera inutile” non è appropriato,
possiamo ben dire però che essa nasce zoppa ed ogni giorno che passa zoppica sempre
di più. Ma quel che è paradossale è che ad azzopparla ci pensano molto di più
coloro che provengono dal campo dei sostenitori, capaci di fare più danni di
quelli provocati dagli oppositori. Se del trasporto ferroviario delle merci non
interessa nulla a nessuno e l’opera si fa perché si deve fare, sarei curioso
tuttavia di conoscere gli argomenti per sostenere che in seguito all’apertura
del tunnel
- verrà migliorato l’assetto economico – produttivo,
distributivo, finanziario, retributivo, fiscale – del Nordovest o del Nord o
dell’Italia
- le nostre esportazioni aumenteranno
- le imprese saranno indotte di meno a delocalizzare
- il nostro sistema manifatturiero si orienterà verso settori
a più elevato contenuto tecnologico
- il costo dei servizi logistici si abbasserà
- circoleranno meno camion sulla rete primaria e su quella
secondaria
- aumenterà il reddito pro capite
- i consumi si orienteranno verso prodotti e servizi più
sostenibili
- le start up avranno maggiori risorse ed opportunità di
sviluppo
- il costo del lavoro dipendente si abbasserà per le imprese
ed i contratti di lavoro aboliranno o ridurranno il precariato
- i giovani avranno maggiori opportunità di lavoro
nell’industria e nei servizi
- la Pubblica
Amministrazione sarà più efficiente ecc. ecc.
Vorrei che qualcuno mi aiutasse a trovare degli argomenti a
sostegno di queste ipotesi. Io non li trovo e mi chiedo allora se il movimento
No Tav, anche se alla fine non dovesse raggiungere l’obbiettivo specifico, non
sia una voce, o un grido, necessari a porre questa domanda a coloro che
decidono l’impiego delle risorse pubbliche: come pensate di avviare la fase 2
del governo Monti, quella delle politiche di sviluppo, pensate di fondarla
sulla costruzione di grandi infrastrutture? Per fare la fine della Spagna?
Thank You
for your attention
Sergio
Bologna
*****
ringrazio molto Sergio Bologna per avermi concesso di pubblicare il suo testo su barravento