Il capitalismo si è sempre presentato come
la modernità. La sua rivoluzione, perché di rivoluzione industriale e politica
si è trattato, ha sempre alzato la bandiera del progresso contro
l’oscurantismo, il conservatorismo e il ritorno indietro.
Ogni
rivoluzione storica ha sempre espresso un desiderio spontaneo di umanizzazione
del mondo e di modernizzazione dell’organizzazione sociale dominante. Così, per
un breve periodo, la modernizzazione del modo di produzione inerente al trionfo
della classe borghese ha effettivamente coinciso con il movimento
dell’emancipazione umana.
L’uscità
dall’Ancien Régime era infatti una necessità della modernizzazione
produttivistica ma anche della volontà di vivere di un’umanità che coglieva in
quella modernità la possibilità del superamento delle condizioni di
sfruttamento patristico dell’uomo sull’uomo.
Il 1789
francese era carico di un’esigenza planetaria che avrebbe messo quasi un secolo
a manifestarsi esplicitamente tramite due tendenze opposte in costante
divenire: l’internazionalismo proletario dell’ultima classe della
storia, impegnata nella sua autoabolizione, e il mondialismo mercantile, teso a fare del pianeta un mercato globale
gestito dal gendarme statale. Finto nemico di un Mercato di cui condivide la
logica gerarchica e produttivistica, lo Stato si è maestosamente ricoperto
della maschera nobile della nazione ridotta ad alibi retorico di una comunità
umana fittizia e pestifera, napoleonica e predatrice.
In
questa macabra presa in giro ormai plurisecolare il concetto originario di
nazione gilanica, fondata su una spontanea fratellanza e solidarietà tra simili
diversi tra loro per genere e personalità, si è corrotto traducendosi in
nazionalismo, imperialismo e fascismi vari di cui gli inni nazionali urlati a
squarciagola da sadici impotenti sono il sintomo inequivocabile di una storica
perdizione. Gli inni di nazioni ridotte dappertutto a Stati canaglia, sono ancora
oggi la sinfonia macabra di un uomo che gioca al lupo con l’altro uomo al passo
di marce militari, dimentico di quella dolce vita, sempre riaffiorata e sempre
sepolta dalla barbarie trionfante, che dà alla nazione antropologica il calore
di un corpo collettivo teso alla felicità di ognuno.
Lo
Stato-nazione, vincente sullo scacchiere di una storia dominata dal
capitalismo, ha invece storicamente falsificato le comunità locali in cui la
nazione umana naturale affonda le radici reali, maltrattandole a uso e consumo
della classe dominante sempre più imperialista e multinazionale dietro i suoi
sguaiati riflessi nazionalistici di facciata.
Nell’attimo
fuggente dell’esplosione rivoluzionaria incarnata nel 1789 dalla presa
simbolica della Bastiglia, Montagnardi, Giacobini e Sanculotti si erano trovati
mescolati alla rinfusa nell’abbattimento del muro di classe aristocratico-clericale
che proteggeva le varie Versailles dal resto del mondo.
La
nazione gilanica riappariva nelle vesti strette della Repubblica ma ben presto,
la modernità repubblicana si è ridotta alle esigenze della nuova classe
dominante e il Terrore ha fortemente contribuito a ricordare agli ultimi che i
primi avevano il monopolio dei valori repubblicani e del potere decisionale
patristicamente patriottico.
Una
logica autoritaria rinnovata e accentuata dalla retorica repubblicana ha fatto
del popolo un sovrano castrato, dopo averlo illuso e sommariamente vendicato di
secoli di sfruttamento e umiliazioni con il taglio della testa dell’ormai
obsoleta monarchia di diritto divino.
Tra
sangue e delazioni, la rivoluzione sociale ha trovato il virus ideologico che
l’ha trasformata in controrivoluzione di classe e non è certo un caso che lo stesso sia arrivato - mutatis mutandis, ma non troppo - anche in Russia nel 1917.
Rapidamente
e sistematicamente, il regressivo desiderio di vendetta dei sofferenti e degli
esclusi è caduto nella trappola gerarchica patristica che burocratizzando la
rabbia l’ha messa al servizio della ragione di Stato, trasformando il repulisti
dell’Ancien Régime in una riorganizzazione banditesca della società dominante.
I
vincitori di una rivoluzione ridotta a guerra di classe, con la perpetuazione
permanente della dittatura di una qualunque classe patristica (fosse pure il
proletariato incarnato dai suoi burocrati autoproclamati) hanno rovesciato i simboli
dominanti e esecrato la superstizione, conservando, però, gelosamente, la
gerarchia patristica che da quattro millenni impedisce e soffoca la fratellanza
gilanica naturale degli esseri umani.
Così, ridotta
miseramente anche la ragione a una dea, pure la rivoluzione ha perso la testa
sulla ghigliottina delle ideologie e, ancora una volta, la modernità si è
ridotta alla modernizzazione di un sistema che nessuno poteva più mettere in discussione,
e dunque, ancor meno, superare.
Il
proletariato moderno è nato lì, al sorgere del nuovo tabù di classe, con la
vittoria della classe borghese mercantile e l’imposizione del suo feticismo
della merce ritualizzato ideologicamente tramite le sacre tavole di diritti di
un uomo dall’umanità limitata almeno quanto la sua sovranità.
I mitici
diritti instaurati a gloria perenne dell’umano, non hanno, infatti, mai
oltrepassato i confini di un’oligarchia maschia di possidenti e potenti, escludendo
esplicitamente dall’ideale democratico proclamato le donne, i giovani e i nullatenenti,
fino ai paria, ai liberti, alle prostitute e agli schiavi.
Più che
di diritti umani si è trattato, oltre la retorica umanistica del potere, dei
diritti di una nuova gerarchia patristica guerriera e mercantile, fondata sulla
famiglia patriarcale, lo Stato e la proprietà privata.
Un
potere volto soprattutto a garantire la libera circolazione della merce e i
suoi proprietari, padroni al contempo del potere legislativo, esecutivo e
giudiziario, si è gargarizzato senza ritegno, per secoli, di una libertà
reificata e umiliante per degli esseri umani strappati alle loro tendenze gilaniche
e trasformati in pochissimi signori e in una moltitudine di servi, in maschi
dominanti e femmine proletarizzate, in cittadini e barbari. Emerge, chiaramente,
mi pare, da questo quadro sommario ma verificabile (vedi in particolare le
ricerche di DeMeo, Eisler e Gimbutas), come la prima divisione di classe sia
stata anche una feroce gerarchia di genere che ha dinamitato le società
gilaniche e come questo processo involutivo sia continuato fino a oggi senza
interruzione.
Qualche
millennio dopo, la fratellanza, ipocritamente tramandata come uno dei tre
valori sacri della rivoluzione borghese, non solo ha del tutto escluso
sommariamente le sorelle dalla gestione della città, ma non ha neppure, in
realtà, mai fatto concretamente mostra di sé nelle reiterate formulazioni dei
diritti dell’uomo che hanno costellato i primi decenni della rivoluzione
francese.
I
documenti ufficiali emessi dai rappresentanti eletti dei cittadini diventati trionfalmente
sovrani di una democrazia parlamentare (governo ideale per una società
mercantile che deve addolcirsi per meglio imporsi ai suoi sudditi), erano
effettivamente firmati con formule di fraternità, ma i soli valori concretamente
affermati dalla rivoluzione borghese erano: libertà reificata, uguaglianza tra
i potenti e diritto di proprietà. Questa è stata la trimurti gerarchizzante di
una classe borghese che da sempre aveva nel mirino il trionfo dell’umanesimo
commerciale, fine ultimo che resta ancor oggi la divisa di un dominio
capitalistico andato ben oltre la contrapposizione tre le classi fino a farsi
dominio reale di un sistema economico antropomorfizzato.
Per la
borghesia e per i suoi eredi, burocrati di Stato, affaristi liberali e
banksters, la ricchezza e persino il tempo sono solo denaro.
Da modo
di produzione delle ricchezze ingiusto, cinico e senza scrupoli, il capitalismo
si è trasformato così in un orribile
mostro nichilista pronto a distruggere perfino la ricchezza viva della natura
pur di accrescere la ricchezza morta del valore economico.
Questa
modernità alienante è ormai la vera e unica ragione del progressismo sempre più
mostruoso che la società impone come un delirante dogma pseudoscientifico. Tutti
sanno ormai che uno spettacolo planetario s’incarica, oggi, di preservare la
retorica di una democrazia di paccotiglia a cui non crede più nessuno, ma in
questo crollo di credibilità della truffa parlamentarista sta il nodo di una
possibile ultima chance per l’emancipazione della specie.
Gli
individui sono infatti ridotti a una vita quotidiana talmente miserabile e insostenibile
da renderli sempre più perplessi e refrattari alla perversa logica dominante, pur se non trovano ancora nelle
loro teste confuse e nei loro cuori indeboliti un’alternativa praticabile all’oscurantismo
e al ritorno indietro che si vendono come progresso. Perplessi e impotenti, non
vedono altra scelta al votare, in loro nome, i domestici rappresentanti del
sistema le cui caste organizzano la decadenza programmata e ineluttabile dei
cittadini sovrani. Questo gioco perverso e ossessivo non si fermerà che con l’estinzione
della specie umana oppure quando un nuovo illuminismo della vita quotidiana riuscirà
a riaccendere le coscienze degli schiavi convincendoli a liberarsi delle loro
catene spettacolari. Questo e non altro significa la democrazia reale.
La
modernità storica dell’ultima classe dominante è durata fino alla sua
dissoluzione in quanto classe in un sistema di sfruttamento autonomizzato che
ha trasformato le classi in caste integrate nel processo di valorizzazione del
capitale. Poi, con un dominio sempre più artificiale e autonomizzato, la natura
umana ha cominciato a decomporsi mentre la natura tout court è sempre più avvelenata
da una tossicità intrinseca a un produttivismo impazzito.
Proviamo
a ricordare quel che troppi dimenticano idiotamente, cioè che per il
capitalismo la merce assoluta è da sempre la forza di lavoro umana liberamente
comprata sul Mercato dai proprietari dei mezzi di produzione e venduta da
quanti non hanno altro da vendere per sopravvivere.
La
forza-lavoro si compone ormai di due parti ugualmente importanti: forza-lavoro
produttiva e forza-lavoro consumatrice. Un tale meccanismo è al totale servizio
del processo di aumento costante del valore economico diventato il solo valore
sociale riconoscibile nonostante il fatto che la famosa crescita economica,
invocata come un mantra da tutti i servitori volontari, sia inconcepibile per
un’intelligenza che prenda in conto che viviamo in un mondo finito, limitato.
Quest’aporia
spettacolarmente ignorata da ricchi e poveri di un produttivismo suicida, ci
mette ormai di fronte a un’organizzazione planetaria della vita sociale in cui
si vive dell’immagine virtuale di un progresso ormai impossibile sulla via
intrapresa e pervicacemente perseguita dalle masse di zombi incoscienti
prodotti dalla società spettacolare-mercantile.
Un altro
progresso è possibile, ma richiede una rivoluzione culturale che ricolleghi gli
esseri umani alle loro origini gilaniche, cioè a una volontà di vivere guidata
dall’intelligenza sensibile e dalla forza dell’amore.
Quante
volte si dovrà continuare a ripeterlo prima che si cominci a cambiare?
Nell’attuale
fase terminale di un processo di alienazione generalizzata, la modernità si è
trasformata in conservazione e regressione ideologicamente favorite dal ritorno
dell’oscurantismo nelle sue forme religiose più becere.
La
modernità del capitale, perché di questo si tratta, ha sempre usato il medio
evo come simbolo di un vecchio mondo da dimenticare. Ottimo schema
pubblicitario che ha trovato nella barbarie patristica che si sussegue da
millenni tutte le stigmate utili per denunciare genericamente come buio quel periodo
che le scintille di coscienza della filosofia illuministica contribuivano a
mostrare nella sua luce più sinistra.
Eppure,
nel medio evo, i resti della comunità umana marginalizzata dal dominio
patristico consolidatosi attorno al trionfo della pesti monoteiste e delle loro
imposture di massa, tra pogrom e inquisizioni, pesti e carestie, genocidi e
crociate, si sono espressi per un’ultima volta con forza, poesia e voglia di
vivere.
L’epopea
plurisecolare del movimento del Libero Spirito, soffocato dai suoi limiti
teologici ma soprattutto da un’inquisizione cristiana fanatica, lo ricorda
sontuosamente a chi ha ancora voglia di sapere e di capire.
Così
come i comuni italiani, con la loro prepotente voglia di autonomia e
autogestione della vita quotidiana di comunità legate a una dimensione locale
(sia pur fortemente contaminate dalla peste della superstizione religiosa
imperante), testimoniano di una sensibilità gilanica sopravvissuta come una
resistenza sotterranea all’invasione patristica dilagata in Europa intorno al 4000 A.C. (Vedi ancora il
gran lavoro di ricerca di DeMeo sulla Saharasia).
Aggregazione
locale di diverse comunità di gusti, di affetti, di lingua e di savoir-faire,
l’autonomia comunale diffusasi in molte polis/nazioni, è stato il segnale anticipato
di una prima volontà democratica premoderna, emergente al contempo come
un’ultima resistenza della comunità
umana al suo disfacimento redditizio incarnato dalle gerarchie di signori e
vassalli, di castelli e di cattedrali.
Oltre i
loro evidenti limiti storici, queste forme di comunità spontanea partecipano all’affermazione
di una nazione autentica non ancora stravolta e recuperata dai deliri statalisti
di uno Stato-nazione laicizzato dal capitale che, prendendo il posto degli
imperi di diritto divino, diventerà in seguito la levatrice canagliesca di
tutti i fascismi e di tutti gli imperialismi.
Distante
secoli da pestiferi Fasci Littori o da macabre Leghe di un regionalismo
demenziale, la gemeinwesen arcaica di
quelle comunità reali in fragile divenire è piuttosto collegabile, idealmente, con
la Comune di
Parigi che sorgerà nel 1871, pur sconfitta con le armi dalla ferocia di una
borghesia senza scrupoli, come una prima affermazione del proletariato moderno.
Un filo esemplare, rosso del sangue dei suoi martiri e multicolore della
volontà di vivere di soggetti di una nazione umana senza patrie etniche
gerarchizzate, unisce lo spirito di molteplici comunità medievali e la Comune di Parigi. La sua trama tesse in un unico progetto,
oggettivamente internazionale, tutti i fenomeni comunitari, le rivolte e le
jacqueries che hanno costellato della loro poesia umanistica interi secoli.
Il
progetto storico delle società gioiosamente gilaniche di una primitiva comunità
europea spontanea, frastagliata e forse incosciente, ma uniforme per amicizia e
fraternità, è stato spezzato sul nascere, qualche millenio fa, ma la sua
memoria riaffiorante rinforza l’idea ancora tutta da concretizzare di una moderna
Comune d’Europa amichevole e fraterna. Riaprendo il processo storico confiscato
dal capitalismo, essa potrà riuscire a spazzare via l’Europa del business insieme
ai vari fascismi nazionalisti e regionalisti che sognano di riscaldare gli
antagonismi beceri e reazionari di una guerra fredda planetaria sulle ali di un
nazionalismo statalista che si rivendica falsamente della nazione.
La volontà
di vivere nella fraternità, sopravvissuta all’insidioso inquinamento patristico
che da millenni ha sconvolto la comunità umana, può trovare nella Comune
d’Europa di una democrazia consiliare lo sbocco di un superamento della
barbarie di tutta la civiltà del lavoro fondata sullo sfruttamento e
l’alienazione. In questo, del resto, niente di più e niente di meno, consisteva
l’idea dell’autogestione generalizzata della vita quotidiana riemersa nella
poesia incompiuta del maggio ’68.
Fin dai
miti fondatori di una civiltà del lavoro che ha progressivamente trasformato i
guerrieri/mercanti di schiavi in burocrati/salariati e infine in schiavi
mercantili/disoccupati, il maschio dominante ha affermato ossessivamente la sua
volontà di potenza contro la fratellanza gaudente e la potenza orgastica,
riducendo i fratelli a stupidi guerrieri pronti all’assassinio per la proprietà,
dimentichi e traditori di una natura che li aveva fatti nascere alleati e
solidali, sottraendoli addirittura, mitologicamente, alla vendetta fobica del
padre-padrone grazie al dono del seno di un’anonima lupa.
Tutta la
mitologia grecoromana di una civiltà di allevatori e coltivatori diventati ineluttabilmente
tristi e orribili mercanti, è un affresco pubblicitario ante litteram della riuscita imperiale di una civiltà di
sfruttatori e sfruttati, di signori e di schiavi, di padroni e di servi. Essa è
il racconto propagandistico che nasconde, ma in fondo anche svela, agli umani, il
magico segreto delle loro origini, della loro identità autentica e della loro
tendenza spontanea al godimento della vita attraverso la fratellanza, l’amore
sensuale e la solidarietà.
Basta
con le vecchie utopie, quando risalire alle origini permette di reinventarle
altre, ancora migliori e poetiche, in un progetto concreto che riguarda tutti e
non esclude nessuno, che risale al passato e rinvia al futuro come solo un
presente vissuto davvero sa fare.
Oltre
primitivismi demenziali e progressismo idiota, vere macabre utopie del capitale
morente, viva, dunque, in questo senso preciso, il medio evo prossimo venturo.
Sergio
Ghirardi