mercoledì 5 giugno 2013

VIVA IL MEDIOEVO PROSSIMO VENTURO

  
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 Il capitalismo si è sempre presentato come la modernità. La sua rivoluzione, perché di rivoluzione industriale e politica si è trattato, ha sempre alzato la bandiera del progresso contro l’oscurantismo, il conservatorismo e il ritorno indietro.
Ogni rivoluzione storica ha sempre espresso un desiderio spontaneo di umanizzazione del mondo e di modernizzazione dell’organizzazione sociale dominante. Così, per un breve periodo, la modernizzazione del modo di produzione inerente al trionfo della classe borghese ha effettivamente coinciso con il movimento dell’emancipazione umana.
L’uscità dall’Ancien Régime era infatti una necessità della modernizzazione produttivistica ma anche della volontà di vivere di un’umanità che coglieva in quella modernità la possibilità del superamento delle condizioni di sfruttamento patristico dell’uomo sull’uomo.
Il 1789 francese era carico di un’esigenza planetaria che avrebbe messo quasi un secolo a manifestarsi esplicitamente tramite due tendenze opposte in costante divenire: l’internazionalismo proletario dell’ultima classe della storia, impegnata nella sua autoabolizione, e il mondialismo mercantile, teso a fare del pianeta un mercato globale gestito dal gendarme statale. Finto nemico di un Mercato di cui condivide la logica gerarchica e produttivistica, lo Stato si è maestosamente ricoperto della maschera nobile della nazione ridotta ad alibi retorico di una comunità umana fittizia e pestifera, napoleonica e predatrice.
In questa macabra presa in giro ormai plurisecolare il concetto originario di nazione gilanica, fondata su una spontanea fratellanza e solidarietà tra simili diversi tra loro per genere e personalità, si è corrotto traducendosi in nazionalismo, imperialismo e fascismi vari di cui gli inni nazionali urlati a squarciagola da sadici impotenti sono il sintomo inequivocabile di una storica perdizione. Gli inni di nazioni ridotte dappertutto a Stati canaglia, sono ancora oggi la sinfonia macabra di un uomo che gioca al lupo con l’altro uomo al passo di marce militari, dimentico di quella dolce vita, sempre riaffiorata e sempre sepolta dalla barbarie trionfante, che dà alla nazione antropologica il calore di un corpo collettivo teso alla felicità di ognuno.
Lo Stato-nazione, vincente sullo scacchiere di una storia dominata dal capitalismo, ha invece storicamente falsificato le comunità locali in cui la nazione umana naturale affonda le radici reali, maltrattandole a uso e consumo della classe dominante sempre più imperialista e multinazionale dietro i suoi sguaiati riflessi nazionalistici di facciata.

Nell’attimo fuggente dell’esplosione rivoluzionaria incarnata nel 1789 dalla presa simbolica della Bastiglia, Montagnardi, Giacobini e Sanculotti si erano trovati mescolati alla rinfusa nell’abbattimento del muro di classe aristocratico-clericale che proteggeva le varie Versailles dal resto del mondo.
La nazione gilanica riappariva nelle vesti strette della Repubblica ma ben presto, la modernità repubblicana si è ridotta alle esigenze della nuova classe dominante e il Terrore ha fortemente contribuito a ricordare agli ultimi che i primi avevano il monopolio dei valori repubblicani e del potere decisionale patristicamente patriottico.
Una logica autoritaria rinnovata e accentuata dalla retorica repubblicana ha fatto del popolo un sovrano castrato, dopo averlo illuso e sommariamente vendicato di secoli di sfruttamento e umiliazioni con il taglio della testa dell’ormai obsoleta monarchia di diritto divino.
Tra sangue e delazioni, la rivoluzione sociale ha trovato il virus ideologico che l’ha trasformata in controrivoluzione di classe e non è certo un caso che  lo stesso sia arrivato - mutatis mutandis, ma non troppo - anche in Russia nel 1917.
Rapidamente e sistematicamente, il regressivo desiderio di vendetta dei sofferenti e degli esclusi è caduto nella trappola gerarchica patristica che burocratizzando la rabbia l’ha messa al servizio della ragione di Stato, trasformando il repulisti dell’Ancien Régime in una riorganizzazione banditesca della società dominante.
I vincitori di una rivoluzione ridotta a guerra di classe, con la perpetuazione permanente della dittatura di una qualunque classe patristica (fosse pure il proletariato incarnato dai suoi burocrati autoproclamati) hanno rovesciato i simboli dominanti e esecrato la superstizione, conservando, però, gelosamente, la gerarchia patristica che da quattro millenni impedisce e soffoca la fratellanza gilanica naturale degli esseri umani.
Così, ridotta miseramente anche la ragione a una dea, pure la rivoluzione ha perso la testa sulla ghigliottina delle ideologie e, ancora una volta, la modernità si è ridotta alla modernizzazione di un sistema che nessuno poteva più mettere in discussione, e dunque, ancor meno, superare.

Il proletariato moderno è nato lì, al sorgere del nuovo tabù di classe, con la vittoria della classe borghese mercantile e l’imposizione del suo feticismo della merce ritualizzato ideologicamente tramite le sacre tavole di diritti di un uomo dall’umanità limitata almeno quanto la sua sovranità.
I mitici diritti instaurati a gloria perenne dell’umano, non hanno, infatti, mai oltrepassato i confini di un’oligarchia maschia di possidenti e potenti, escludendo esplicitamente dall’ideale democratico proclamato le donne, i giovani e i nullatenenti, fino ai paria, ai liberti, alle prostitute e agli schiavi.
Più che di diritti umani si è trattato, oltre la retorica umanistica del potere, dei diritti di una nuova gerarchia patristica guerriera e mercantile, fondata sulla famiglia patriarcale, lo Stato e la proprietà privata.
Un potere volto soprattutto a garantire la libera circolazione della merce e i suoi proprietari, padroni al contempo del potere legislativo, esecutivo e giudiziario, si è gargarizzato senza ritegno, per secoli, di una libertà reificata e umiliante per degli esseri umani strappati alle loro tendenze gilaniche e trasformati in pochissimi signori e in una moltitudine di servi, in maschi dominanti e femmine proletarizzate, in cittadini e barbari. Emerge, chiaramente, mi pare, da questo quadro sommario ma verificabile (vedi in particolare le ricerche di DeMeo, Eisler e Gimbutas), come la prima divisione di classe sia stata anche una feroce gerarchia di genere che ha dinamitato le società gilaniche e come questo processo involutivo sia continuato fino a oggi senza interruzione.

Qualche millennio dopo, la fratellanza, ipocritamente tramandata come uno dei tre valori sacri della rivoluzione borghese, non solo ha del tutto escluso sommariamente le sorelle dalla gestione della città, ma non ha neppure, in realtà, mai fatto concretamente mostra di sé nelle reiterate formulazioni dei diritti dell’uomo che hanno costellato i primi decenni della rivoluzione francese.
I documenti ufficiali emessi dai rappresentanti eletti dei cittadini diventati trionfalmente sovrani di una democrazia parlamentare (governo ideale per una società mercantile che deve addolcirsi per meglio imporsi ai suoi sudditi), erano effettivamente firmati con formule di fraternità, ma i soli valori concretamente affermati dalla rivoluzione borghese erano: libertà reificata, uguaglianza tra i potenti e diritto di proprietà. Questa è stata la trimurti gerarchizzante di una classe borghese che da sempre aveva nel mirino il trionfo dell’umanesimo commerciale, fine ultimo che resta ancor oggi la divisa di un dominio capitalistico andato ben oltre la contrapposizione tre le classi fino a farsi dominio reale di un sistema economico antropomorfizzato.
Per la borghesia e per i suoi eredi, burocrati di Stato, affaristi liberali e banksters, la ricchezza e persino il tempo sono solo denaro.
Da modo di produzione delle ricchezze ingiusto, cinico e senza scrupoli, il capitalismo si è trasformato così  in un orribile mostro nichilista pronto a distruggere perfino la ricchezza viva della natura pur di accrescere la ricchezza morta del valore economico.
Questa modernità alienante è ormai la vera e unica ragione del progressismo sempre più mostruoso che la società impone come un delirante dogma pseudoscientifico. Tutti sanno ormai che uno spettacolo planetario s’incarica, oggi, di preservare la retorica di una democrazia di paccotiglia a cui non crede più nessuno, ma in questo crollo di credibilità della truffa parlamentarista sta il nodo di una possibile ultima chance per l’emancipazione della specie.
Gli individui sono infatti ridotti a una vita quotidiana talmente miserabile e insostenibile da renderli sempre più perplessi e refrattari alla perversa logica  dominante, pur se non trovano ancora nelle loro teste confuse e nei loro cuori indeboliti un’alternativa praticabile all’oscurantismo e al ritorno indietro che si vendono come progresso. Perplessi e impotenti, non vedono altra scelta al votare, in loro nome, i domestici rappresentanti del sistema le cui caste organizzano la decadenza programmata e ineluttabile dei cittadini sovrani. Questo gioco perverso e ossessivo non si fermerà che con l’estinzione della specie umana oppure quando un nuovo illuminismo della vita quotidiana riuscirà a riaccendere le coscienze degli schiavi convincendoli a liberarsi delle loro catene spettacolari. Questo e non altro significa la democrazia reale.
La modernità storica dell’ultima classe dominante è durata fino alla sua dissoluzione in quanto classe in un sistema di sfruttamento autonomizzato che ha trasformato le classi in caste integrate nel processo di valorizzazione del capitale. Poi, con un dominio sempre più artificiale e autonomizzato, la natura umana ha cominciato a decomporsi mentre la natura tout court è sempre più avvelenata da una tossicità intrinseca a un produttivismo impazzito.
Proviamo a ricordare quel che troppi dimenticano idiotamente, cioè che per il capitalismo la merce assoluta è da sempre la forza di lavoro umana liberamente comprata sul Mercato dai proprietari dei mezzi di produzione e venduta da quanti non hanno altro da vendere per sopravvivere.
La forza-lavoro si compone ormai di due parti ugualmente importanti: forza-lavoro produttiva e forza-lavoro consumatrice. Un tale meccanismo è al totale servizio del processo di aumento costante del valore economico diventato il solo valore sociale riconoscibile nonostante il fatto che la famosa crescita economica, invocata come un mantra da tutti i servitori volontari, sia inconcepibile per un’intelligenza che prenda in conto che viviamo in un mondo finito, limitato.
Quest’aporia spettacolarmente ignorata da ricchi e poveri di un produttivismo suicida, ci mette ormai di fronte a un’organizzazione planetaria della vita sociale in cui si vive dell’immagine virtuale di un progresso ormai impossibile sulla via intrapresa e pervicacemente perseguita dalle masse di zombi incoscienti prodotti dalla società spettacolare-mercantile.
Un altro progresso è possibile, ma richiede una rivoluzione culturale che ricolleghi gli esseri umani alle loro origini gilaniche, cioè a una volontà di vivere guidata dall’intelligenza sensibile e dalla forza dell’amore.
Quante volte si dovrà continuare a ripeterlo prima che si cominci a cambiare?
Nell’attuale fase terminale di un processo di alienazione generalizzata, la modernità si è trasformata in conservazione e regressione ideologicamente favorite dal ritorno dell’oscurantismo nelle sue forme religiose più becere.
La modernità del capitale, perché di questo si tratta, ha sempre usato il medio evo come simbolo di un vecchio mondo da dimenticare. Ottimo schema pubblicitario che ha trovato nella barbarie patristica che si sussegue da millenni tutte le stigmate utili per denunciare genericamente come buio quel periodo che le scintille di coscienza della filosofia illuministica contribuivano a mostrare nella sua luce più sinistra.
Eppure, nel medio evo, i resti della comunità umana marginalizzata dal dominio patristico consolidatosi attorno al trionfo della pesti monoteiste e delle loro imposture di massa, tra pogrom e inquisizioni, pesti e carestie, genocidi e crociate, si sono espressi per un’ultima volta con forza, poesia e voglia di vivere.
L’epopea plurisecolare del movimento del Libero Spirito, soffocato dai suoi limiti teologici ma soprattutto da un’inquisizione cristiana fanatica, lo ricorda sontuosamente a chi ha ancora voglia di sapere e di capire.
Così come i comuni italiani, con la loro prepotente voglia di autonomia e autogestione della vita quotidiana di comunità legate a una dimensione locale (sia pur fortemente contaminate dalla peste della superstizione religiosa imperante), testimoniano di una sensibilità gilanica sopravvissuta come una resistenza sotterranea all’invasione patristica dilagata in Europa intorno al 4000 A.C. (Vedi ancora il gran lavoro di ricerca di DeMeo sulla Saharasia).
Aggregazione locale di diverse comunità di gusti, di affetti, di lingua e di savoir-faire, l’autonomia comunale diffusasi in molte polis/nazioni, è stato il segnale anticipato di una prima volontà democratica premoderna, emergente al contempo come un’ultima  resistenza della comunità umana al suo disfacimento redditizio incarnato dalle gerarchie di signori e vassalli, di castelli e di cattedrali.
Oltre i loro evidenti limiti storici, queste forme di comunità spontanea partecipano all’affermazione di una nazione autentica non ancora stravolta e recuperata dai deliri statalisti di uno Stato-nazione laicizzato dal capitale che, prendendo il posto degli imperi di diritto divino, diventerà in seguito la levatrice canagliesca di tutti i fascismi e di tutti gli imperialismi.
Distante secoli da pestiferi Fasci Littori o da macabre Leghe di un regionalismo demenziale, la gemeinwesen arcaica di quelle comunità reali in fragile divenire è piuttosto collegabile, idealmente, con la Comune di Parigi che sorgerà nel 1871, pur sconfitta con le armi dalla ferocia di una borghesia senza scrupoli, come una prima affermazione del proletariato moderno. Un filo esemplare, rosso del sangue dei suoi martiri e multicolore della volontà di vivere di soggetti di una nazione umana senza patrie etniche gerarchizzate, unisce lo spirito di molteplici comunità medievali e la Comune di Parigi.  La sua trama tesse in un unico progetto, oggettivamente internazionale, tutti i fenomeni comunitari, le rivolte e le jacqueries che hanno costellato della loro poesia umanistica interi secoli.
Il progetto storico delle società gioiosamente gilaniche di una primitiva comunità europea spontanea, frastagliata e forse incosciente, ma uniforme per amicizia e fraternità, è stato spezzato sul nascere, qualche millenio fa, ma la sua memoria riaffiorante rinforza l’idea ancora tutta da concretizzare di una moderna Comune d’Europa amichevole e fraterna. Riaprendo il processo storico confiscato dal capitalismo, essa potrà riuscire a spazzare via l’Europa del business insieme ai vari fascismi nazionalisti e regionalisti che sognano di riscaldare gli antagonismi beceri e reazionari di una guerra fredda planetaria sulle ali di un nazionalismo statalista che si rivendica falsamente della nazione.
La volontà di vivere nella fraternità, sopravvissuta all’insidioso inquinamento patristico che da millenni ha sconvolto la comunità umana, può trovare nella Comune d’Europa di una democrazia consiliare lo sbocco di un superamento della barbarie di tutta la civiltà del lavoro fondata sullo sfruttamento e l’alienazione. In questo, del resto, niente di più e niente di meno, consisteva l’idea dell’autogestione generalizzata della vita quotidiana riemersa nella poesia incompiuta del maggio ’68.
Fin dai miti fondatori di una civiltà del lavoro che ha progressivamente trasformato i guerrieri/mercanti di schiavi in burocrati/salariati e infine in schiavi mercantili/disoccupati, il maschio dominante ha affermato ossessivamente la sua volontà di potenza contro la fratellanza gaudente e la potenza orgastica, riducendo i fratelli a stupidi guerrieri pronti all’assassinio per la proprietà, dimentichi e traditori di una natura che li aveva fatti nascere alleati e solidali, sottraendoli addirittura, mitologicamente, alla vendetta fobica del padre-padrone grazie al dono del seno di un’anonima lupa.
Tutta la mitologia grecoromana di una civiltà di allevatori e coltivatori diventati ineluttabilmente tristi e orribili mercanti, è un affresco pubblicitario ante litteram della riuscita imperiale di una civiltà di sfruttatori e sfruttati, di signori e di schiavi, di padroni e di servi. Essa è il racconto propagandistico che nasconde, ma in fondo anche svela, agli umani, il magico segreto delle loro origini, della loro identità autentica e della loro tendenza spontanea al godimento della vita attraverso la fratellanza, l’amore sensuale e la solidarietà.
Basta con le vecchie utopie, quando risalire alle origini permette di reinventarle altre, ancora migliori e poetiche, in un progetto concreto che riguarda tutti e non esclude nessuno, che risale al passato e rinvia al futuro come solo un presente vissuto davvero sa fare.
Oltre primitivismi demenziali e progressismo idiota, vere macabre utopie del capitale morente, viva, dunque, in questo senso preciso, il medio evo prossimo venturo.


Sergio Ghirardi