Ho
tradotto con interesse e condivisione questo articolo di Jérôme Baschet, grande amico e compagno
degli zapatisti del Chiapas, che va con apprezzabile precisione nel senso di
quel che anch’io ho già scritto.
Sergio Ghirardi
Il
ventunesimo secolo comincia ora
Gli storici considerano
volentieri che il XX° secolo comincia nel 1914. Si spiegherà senza dubbio che
il XXI° secolo è cominciato nel 2020, con l’entrata in scena del SARS-CoV-2.
Il ventaglio dei copioni a venire resta, certo, molto aperto; l’incatenamento
degli avvenimenti innescati dalla propagazione del coronavirus offre, però,
come in un movimento accelerato, un gusto anticipato delle catastrofi che non
mancheranno d’intensificarsi in un mondo in preda alle convulsioni, segnato dagli effetti di un riscaldamento climatico che si avvia verso un aumento medio
della temperatura di 3 o 4 gradi. Quel che si profila sotto i nostri occhi è un
intreccio sempre più stretto di fattori multipli di crisi che un elemento
aleatorio, contemporaneamente imprevisto e largamente annunciato, è bastato ad
attivare.
Crollo e disorganizzazione del
vivente, deregolamento climatico, decomposizione sociale accelerata, discredito
dei governanti e dei sistemi politici, espansione smisurata del credito e
fragilità finanziarie, incapacità di mantenere un livello di crescita
sufficiente, per non menzionare che alcuni elementi: queste dinamiche si
rinforzano le une con le altre, creando un’estrema vulnerabilità dovuta al
fatto che il sistema mondo si trova ormai in una situazione di crisi
strutturale permanente. Ogni stabilità apparente non è ormai, dunque, che la
maschera di un’instabilità crescente.
Il Covid-19 è una “malattia
dell’Antropocene” come l’ha indicato Philippe Sansonetti, microbiologista e
professore al Collège de France.
L’attuale pandemia è un fatto totale in cui la realtà biologica del virus è
indissociabile dalle condizioni sociali e sistemiche della sua esistenza e
della sua diffusione. Invocare l’Antropocene – nuovo periodo geologico in cui
la specie umana è diventata una forza capace di modificare la biosfera a
livello globale – invita, mi sembra, a prendere in considerazione una temporalità a
tre stadi: prima gli anni recenti in cui, sotto la pressione delle
evidenze sensibili, stiamo prendendo coscienza, troppo lentamente, certo, della
nuova epoca in corso; poi i decenni seguenti il 1945 che furono quelli dello
sviluppo della società dei consumi e della grande accelerazione di tutti i
segnali dell’attività produttiva (e distruttiva) dell’umanità; infine il
tornante tra il XVIII° e il XIX° secolo che, innescando il ciclo delle energie
fossili e dell’industrializzazione, ha fatto decollare la curva delle emissioni
di gas a effetto serra, segnando così l’inizio dell’Antropocene.
Il virus che
ci affligge è l’inviato del vivente, venuto a presentarci la fattura della
tormenta che noi abbiamo provocato. Antropocene
oblige: la responsabilità umana è coinvolta in quel che ci succede. Tuttavia,
responsabilità di che cosa, esattamente? Le tre temporalità indicate permettono
di essere più precisi. Rispetto all’orizzonte più immediato, la nostra
attenzione è accaparrata dall'incredibile affare dell’evaporazione degli stock
di maschere dal 2009 e dall'indolenza che impedisce di ricostituirli con
urgenza all’arrivo dell’epidemia. Ciò non è ancora altro che un aspetto dell’insopportabile
impreparazione europea la cui incapacità di anticipazione testimonia di
un’altra malattia del tempo: il presentismo, per cui tutto quello che va oltre
l’immediato svanisce.
Il modo di gestione neoliberale
dell’ospedale, freddamente contabile, ha fatto il resto. Mancanza di mezzi,
riduzione del numero di letti, personale insufficiente già sfiancato in tempi
normali: il personale curante ha lungamente urlato la sua disperazione,
inascoltato. Oggi il carattere irresponsabile delle politiche adottate da lunga
data è visibile agli occhi di tutti. Come l’ha dichiarato Philippe Juvin, capo
del servizio del pronto soccorso dell’Ospedale Pompidou, a Parigi, “degli
irresponsabili e degli incapaci” ci hanno condotto a ritrovarci “nudi di fronte
all’epidemia”. E se Emmanuel Macron ha voluto erigersi a comandante in capo, non
dovrebbe omettere il fatto che questa retorica bellicista usata da tanti governanti,
potrebbe anche, un giorno, rivolgersi (metaforicamente?) in accusa di alto
tradimento.
Risalire alla seconda metà del
ventesimo secolo permette di cogliere diverse cause principali che spiegano
la moltiplicazione delle zoonosi, le malattie provocate da agenti infettivi
operanti un salto di specie dall’animale all’umano. Così l’espansione
dell’allevamento industriale, con tutta la sua ignominia concentrazionaria, ha
anche le deplorevoli conseguenze sanitarie che sappiamo (l’influenza suina e
quella aviaria H5N1, per esempio). Quanto all’urbanizzazione smisurata e alla
metropolizzazione, esse riducono gli habitat degli animali e li spingono sempre
di più al contatto con gli umani (HIV, Ebola, in particolare). Questi due
fattori non hanno forse giocato nel caso del SARS-CoV-2, anche se resta ancora
da conoscere meglio tutta la catena di trasmissione. Per contro, è chiaro che
la vendita di animali selvatici sul mercato di Wuhan non avrebbe avuto tali
conseguenze se questa città non fosse diventata una delle capitali mondali
dell’industria automobilistica. La globalizzazione dei flussi economici è
assolutamente all’opera; ed è la terza causa da evocare, tanto più che
l’espansione insensata del traffico aereo è stata il vettore di una diffusione
planetaria folgorante del virus.
Non si può, però, limitarsi a questo
e bisogna risalire due secoli indietro, per dare all’Antropocene il suo vero
nome: Capitalocene. Perché è il fatto non della specie umana in generale, ma di
un sistema storico specifico. Il quale, – il capitalismo – ha come
caratteristica principale che l’essenziale della produzione risponde, prima di
tutto, all’esigenza della valorizzazione del denaro investito (il capitale).
Anche se le configurazioni sono variabili, il mondo si organizza ormai in
funzione delle necessità imperative dell’economia. Ne risulta una rottura di
civiltà con tutta l’esperienza umana anteriore, dal momento che l’interesse
privato e l’individualismo concorrenziale diventano i valori supremi, mentre
l’ossessione della pura quantità e la tirannia dell’emergenza non possono che
condurre al vuoto nell’essere. Ne risulta anche e soprattutto una compulsione
produttivistica mortifera che è all’origine stessa del supersfruttamento delle
risorse naturali, della disorganizzazione accelerata del vivente e della deregulation climatica.
All’uscita dal confinamento e
dall'emergenza sanitaria, niente sarà più come prima; è stato detto. Ma che cosa
cambiare? L’esame di coscienza si limiterà a una temporalità di breve portata,
come si può temere, o prenderà in considerazione il ciclo completo del Capitalocene?
Eccoci in pieno nel XXI° secolo. La vera guerra che si combatterà non ha il
coronavirus come nemico, ma vedrà opporsi due opzioni opposte: da un lato il
proseguimento di un mondo in cui il fanatismo della merce regna da padrone e
dove il produttivismo compulsivo non può che portare all’approfondimento della
devastazione in corso; dall'altro l’invenzione che già si muove a tentoni in
mille luoghi, di nuove maniere di esistere che romperebbero con l’imperativo
categorico dell’economia, per privilegiare una vita buona per tutte e per
tutti. Preferendo l’intensità gioiosa del qualitativo alle false promesse di
un’impossibile crescita illimitata, questa dinamica coniugherebbe l’attenzione
accorta agli ambienti abitati e alle interazioni del vivente, alla costruzione
di ciò che è comune, all’aiuto reciproco e alla solidarietà, o ancora alla
capacità collettiva di autorganizzazione e autogoverno.
Il coronavirus è venuto a tirare il
segnale d’allarme e a fermare il treno impazzito di una civiltà sparata verso
la massiva distruzione della vita. Lo lasceremo ripartire? Sarebbe la certezza
di nuovi cataclismi inediti di fronte ai quali quel che stiamo vivendo attualmente
rischierà di sembrare, a posteriori, una bazzecola.
Jérôme Baschet, Parigi marzo 2020
Testo integrale di una tribuna
pubblicata il 2 aprile 2020 su Le Monde e tradotta in italiano dalla versione
messa in circolo dal sito La voie du Jaguar.
Le vingt et unième siècle commence maintenant
Les historiens considèrent
volontiers que le XXe siècle débute en 1914. Sans doute
expliquera-t-on demain que le XXIe siècle a commencé en 2020, avec
l’entrée en scène du SARS-CoV-2. L’éventail des scénarios à venir demeure,
certes, très ouvert ; mais l’enchaînement des événements déclenchés par la
propagation du coronavirus offre, comme en accéléré, un avant-goût des
catastrophes qui ne manqueront pas de s’intensifier dans un monde convulsionné,
marqué par les effets d’un réchauffement climatique en route vers 3 ou 4 degrés
de hausse moyenne. Ce qui se profile sous nos yeux, c’est un entrelacement de
plus en plus étroit des multiples facteurs de crise qu’un élément aléatoire, à
la fois imprévu et largement annoncé, suffit à activer.
Effondrement et désorganisation
du vivant, dérèglement climatique, décomposition sociale accélérée, discrédit
des gouvernants et des systèmes politiques, expansion démesurée du crédit et
fragilités financières, incapacité à maintenir un niveau de croissance
suffisant, pour ne mentionner que cela : ces dynamiques se renforcent les
unes les autres, créant une extrême vulnérabilité qui tient au fait que le
système-monde se trouve désormais dans une situation de crise structurelle
permanente. Dès lors, toute stabilité apparente n’est que le masque d’une
instabilité croissante.
Le Covid-19 est une
« maladie de l’Anthropocène », ainsi que l’a indiqué Philippe Sansonetti,
microbiologiste et professeur au Collège de France. L’actuelle pandémie est un
fait total, où la réalité biologique du virus est indissociable des conditions
sociétales et systémiques de son existence et de sa diffusion. Invoquer
l’Anthropocène — nouvelle période géologique où l’espèce humaine est devenue
une force capable de modifier la biosphère à l’échelle globale — invite, me
semble-t-il, à prendre en compte une temporalité à triple détente :
d’abord, les années récentes où, sous la pression des évidences sensibles, nous
prenons conscience, trop lentement certes, de cette époque nouvelle ;
ensuite, les décennies de l’après-1945 qui furent celles de l’essor de la
société de consommation et de la grande accélération de tous les marqueurs de
l’activité productive (et destructive) de l’humanité ; enfin, le tournant
des XVIIIe et XIXe siècles qui, en enclenchant le cycle
des énergies fossiles et de l’industrialisation, fit décoller la courbe des
émissions de gaz à effet de serre, signant ainsi le début de l’Anthropocène.
Le virus qui nous afflige est
l’envoyé du vivant, venu nous présenter la facture de la tourmente que nous
avons nous-mêmes provoquée. Anthropocène oblige : dans ce qui nous arrive,
la responsabilité humaine est engagée. Mais responsabilité de qui
exactement ? Les trois temporalités mentionnées permettent d’être plus
précis. À l’horizon le plus immédiat, notre attention est accaparée par la
sidérante affaire de l’évaporation des stocks de masques depuis 2009 et par
l’indolence qui manque à les reconstituer en urgence à l’approche de
l’épidémie. Encore n’est-ce là qu’un aspect de l’accablante impréparation
européenne et cette incapacité à anticiper témoigne d’une autre maladie du
temps : le présentisme, par quoi tout ce qui déborde l’immédiat
s’évanouit. Le mode de gestion néolibéral de l’hôpital, froidement comptable, a
fait le reste. Manque de moyens, réduction du nombre de lits, personnels en
sous-effectif et déjà épuisés en temps normal : les soignants ont longuement
crié leur désespoir, sans être entendus. Aujourd’hui, le caractère
irresponsable des politiques menées de longue date est avéré aux yeux de tous.
Comme l’a déclaré Philippe Juvin, chef du service des urgences de l’Hôpital
Pompidou, à Paris, « des insouciants et des incapables » nous ont
conduits à nous retrouver « tout nus devant l’épidémie ». Et si
Emmanuel Macron a voulu s’ériger en chef de guerre, il ne devrait pas négliger
le fait que cette rhétorique usée par tant de gouvernants pourrait aussi, un
jour, se retourner (métaphoriquement ?) en accusation pour haute trahison.
Remonter à la seconde moitié du
XXe siècle permet de repérer plusieurs des causalités majeures
expliquant la multiplication des zoonoses, ces maladies provoquées par des
agents infectieux opérant un saut d’espèce de l’animal à l’humain. Ainsi,
l’expansion de l’élevage industriel, avec toute son ignominie
concentrationnaire, a aussi les déplorables conséquences sanitaires que l’on
sait (grippe porcine, grippe aviaire H5N1, par exemple). Quant à l’urbanisation
démesurée et à la métropolisation, elles réduisent les habitats des animaux et
les poussent davantage au contact des humains (VIH, Ebola, notamment). Ces deux
facteurs n’ont peut-être pas joué dans le cas du SARS-CoV-2, encore qu’il reste
à mieux connaître toute la chaîne de transmission. En revanche, il est clair
que la vente d’animaux sauvages sur le marché de Wuhan n’aurait pas eu de
telles conséquences si cette ville n’était devenue l’une des capitales
mondiales de l’industrie automobile. La globalisation des flux économiques est
bel et bien à l’œuvre ; et c’est la troisième causalité à invoquer,
d’autant que l’expansion insensée du trafic aérien a été le vecteur d’une
diffusion planétaire fulgurante du virus.
Mais on ne peut s’en tenir là et
il faut aussi se reporter deux siècles en arrière, pour donner à l’Anthropocène
son véritable nom : Capitalocène. Car il est le fait, non de l’espèce
humaine en général, mais d’un système historique spécifique. Celui-ci, le
capitalisme, a pour caractéristique majeure que l’essentiel de la production
répond, avant toute autre chose, à l’exigence de valorisation de l’argent
investi (le capital). Même si les configurations en sont variables, le monde
s’organise dès lors en fonction des nécessités impérieuses de l’économie. Il en
résulte une rupture civilisationnelle avec toute l’expérience humaine
antérieure, dès lors que l’intérêt privé et l’individualisme concurrentiel
deviennent les valeurs suprêmes, tandis que l’obsession de la pure quantité et
la tyrannie de l’urgence ne peuvent que conduire au vide dans l’être. Il en
résulte aussi et surtout une compulsion productiviste mortifère qui est
l’origine même de la surexploitation des ressources naturelles, de la
désorganisation accélérée du vivant et du dérèglement climatique.
Au sortir du confinement et de
l’urgence sanitaire, rien ne sera plus comme avant ; cela a été dit. Mais
que changer ? L’examen de conscience s’en tiendra-t-il à une temporalité
de courte vue, comme c’est à craindre, ou prendra-t-on en compte le cycle
complet du Capitalocène ? Nous voici de plain-pied dans le XXIe
siècle. La véritable guerre qui va se jouer n’a pas le coronavirus pour ennemi,
mais verra s’affronter deux options opposées : d’un côté, la poursuite
d’un monde où le fanatisme de la marchandise règne en maître et où le
productivisme compulsif ne peut que mener à l’approfondissement de la
dévastation en cours ; de l’autre, l’invention, qui déjà tâtonne en mille
lieux, de nouvelles manières d’exister qui rompraient avec l’impératif
catégorique de l’économie, afin de privilégier une vie bonne pour toutes et
tous. Préférant l’intensité joyeuse du qualitatif aux fausses promesses d’une
impossible illimitation, celle-ci conjoindrait le souci attentif des milieux
habités et des interactions du vivant, la construction du commun, l’entraide et
la solidarité, ou encore la capacité collective d’auto-organisation et
d’autogouvernement.
Le coronavirus est venu tirer le
signal d’alarme et mettre à l’arrêt le train fou d’une civilisation fonçant
vers la destruction massive de la vie. Le laisserons-nous repartir ? Ce
serait l’assurance de nouveaux cataclysmes inédits aux côtés desquels ce que
nous vivons actuellement risque de paraître a posteriori bien pâle.
Jérôme Baschet, Paris, 27
mars 2020.
Texte non écourté d’une tribune
publiée le 2 avril 2020 par le journal Le Monde .