All’ordine del giorno, stanno arrivando non
i processi inquisitori in cerca di capri espiatori, ma l’abbandono di un
sistema e di tutti i suoi sostenitori, predatori ottusi e nichilisti. La denuncia
dei potenti che gestiscono l’Antropocene (Capitalocene, ha precisato
giustamente Baschet), civiltà dimostratasi un’inciviltà produttivista tecno
industriale in via di distruggere la vita, viene da lontano (Anders tra gli
altri).
Oggi si tratta di riprendere il potere non
per esercitarlo, ma per abolirlo e sostituirlo con la potenza condivisa degli
ineguali resi uguali dall’aiuto reciproco che segna l’umanità degli esseri
umani. Le donne e gli uomini ne sono spontaneamente capaci, lo hanno ancora una
volta dimostrato in questi giorni nell’impegno e nel dono di sé di molti, in
particolare il personale medico e sanitario, in questo triste frangente virale in
cui moltissimi altri individui anonimi, pur aborrendo il condizionamento, si
sono autoimposti razionalmente una quarantena difficile, quando non tragica,
per tutti.
Sta emergendo ancora una volta, che l’umanità
senza i capi si comporta umanamente: da un lato i comunardi della vita
quotidiana, dall’altro i Versagliesi del dominio e delle gerarchie sociali.
Soltanto, gli uomini di potere, gli ideologi e una minoranza di schiavi
incapaci di cambiare, hanno continuato a mostrare il loro volto odioso di
suprematisti, delirando, manipolando o mentendo con l’egotismo consueto dei
dominanti e l’abituale cinismo sadomasochista dei capi e dei loro servitori
volontari.
È in questo contesto inedito che la
lucidità di Anders risuona preveggente nell’intervista che segue e che vi ho
tradotto. Gli elementi distruttivi che la realtà secerne non fanno che confermare,
purtroppo, le preoccupazioni della sua filosofia della discrepanza. Si può,
però, provare ad andare oltre la sua riflessione intrisa di pessimismo facendone
tesoro non per ottimismo, ma per scommessa sulla vita.
Sta a noi e alla nostra filosofia pratica,
emancipata da ogni ideologia, andare oltre la speranza e la disperazione per
uscire prima dal confinamento con l’annientamento del virus, poi, senza più
titubare né attendere, ripartire dalla comunità di base e dai gruppi di
affinità che stanno emergendo ovunque, ai margini di un sistema sociale
fallito.
Lo sappiamo e non abbiamo scelta: dobbiamo
venir fuori dal processo sociale mortifero che ha permesso al virus
d’imperversare in una forma catastrofica in mezzo alla miriade di catastrofi
che si annunciano per domani e per dopodomani.
Tutti sanno ormai, anche quelli che
vogliono nasconderlo, che la continuità con il passato e il ritorno alla normalità
non sono più possibili perché il passato è stato la barbarie e la normalità è il
problema che li comprende tutti.
Un altro mondo è possibile da tempo. Oggi
è diventato necessario per la sopravvivenza stessa della specie.
Sergio Ghirardi, 9
aprile 2020
Intervista a Günther Anders di Fritz J.
Raddatz (1985)
Il
testo di questa intervista di Günther Anders con Fritz J. Raddatz è stata dapprima pubblicata in tedesco
su Die Zeit (n° 13, 22 marzo 1985). La sua traduzione francese di
Catherine Weinzorn è stata pubblicata sulla rivista Austriaca (n° 35, dicembre 1992, Presses universitaires de Rouen et
du Havre).
F.J. Raddatz : Colgo nell’insieme del suo
lavoro una contraddizione molto complessa ; questa contraddizione mi si
presenta in tre elementi davvero difficilmente conciliabili. Da un lato Lei
dice: “Qualunque cosa si faccia, è sempre, più o meno, vano”. D’altro lato, l’insieme
dei suoi lavori non fa che presentare il contrario, di lottare cioè contro
questo “invano”, cambiare pur sempre qualcosa, creare una coscienza, combattere
almeno l’analfabetismo mentale e morale. Arrivo, però, al terzo punto in cui
Lei dice, da qualche parte, che l’essere umano è “contingente”, è la sua
espressione. Come può pretendere di collegare questi tre elementi
contradditori?
G. Anders : No, non direi che c’è
contraddizione ; sono tutt’al più delle contraddizioni apparenti. Se mi
capita molto sovente di affermare, esagerando, che niente serve a niente, è, di
fatto, per ragioni tattiche, cioè per oppormi a quegli uomini politici e a quei
giornalisti da happy end che
non temono di abbondare nell’ottimismo. La parola “speranza”, attraverso Ernst
Bloch, ha sfortunatamente assunto un carattere di solennità – per tutti,
persino per i politici più reazionari. Naturalmente di quello spesso volume che
è Il principio speranza, hanno letto solo il titolo. Del resto, la
speranza non è affatto un principio ma un’emozione giustificata. Se sono – per
usare quest’espressione triviale – molto “pessimista”, è per lottare contro
quest’ottimismo irradiante che s’incontra persino tra quanti sono al corrente
della situazione nucleare. In fondo quel che io predico – ma so che così ne
domando molto alla media della gente, forse davvero troppo – è in pratica di
fare degli sforzi come se non sapessero quanto le nostre chance sono minime.
Come dire mettere in pratica una schizofrenia morale. Nel nostro ruolo
attivo in materia di morale dobbiamo far finta di essere più stupidi di quanto
siamo.
F.J.R. : Intende forse per
« attivo » – come nella
conversazione con Heidegger da Lei citata – qualcuno che ha “disertato verso la
pratica”?
G.A. : Mai nella mia vita ho
concepito il “fare” come un atto di diserzione. È vero che ho già “disertato
verso la pratica” poco prima della presa del potere di Hitler. Che vuol dire,
però, appunto, “disertare”? Trovo al contrario che i disertori sono quelli che
non pretendono disertare, quelli che quando esistono i campi di concentramento,
continuano da universitari a perfezionare i loro “Contributi allo studio di
questo o quel soggetto, tenuto conto di questo o quell’aspetto particolare”.
Costoro disertano effettivamente verso il dominio dell’irresponsabilità.
F.J.R. : Intende dunque dire che il
suo lavoro è pratica? Non pone dunque
una separazione tra una marcia di protesta e il suo lavoro teorico di
scrittura?
G.A. : Non più che tra la ricetta
delle scaloppine e la loro degustazione. – Lei crede forse che io sia andato a
Hiroshima come “teorico”? O meglio: “nella mia qualità di teorico”? Mi lasci
ridere! E la corrispondenza che ho scambiato con Claude Eatherly o con Klaus
Eichmann sarebbe in veste di teorico? E il mio discorso per l’appello di
Krefeld, l’avrei redatto per la buona
ragione che m’interesso alla problematica della pace?
F.J.R. : Mi faccia tornare alla
questione del « contingente ». Poca gente comprenderà esattamente
quel che vuole dire. Io stesso penso che ciò possa prestare facilmente a
confusione nei riguardi di quello che ha appena detto: la sua vita, il suo
lavoro compreso come l’unione del pensiero e dell’azione in una grande messa in
pratica. Se nello stesso tempo Lei fa dell’uomo una monade senza finestre...
G.A. : No, non una monade senza
finestre. Il concetto di “contingente” è apparso per la prima volta nel 1929,
nella conferenza che ho tenuto nella società Kant su “la stranezza dell’uomo
nel mondo” in cui parlavo della “contingenza dell’uomo”. Ciò significa che fa
parte delle creature dovute al caso;
che si può pensare un mondo in cui l’uomo non esisterebbe. L’esistenza
dell’uomo è altrettanto casuale che quella degli spinaci o della passera di
mare. Ho formulato ciò con nettezza e impertinenza per ingaggiare una polemica
sulla tesi vanitosa e immodesta che vuole che noi siamo stati creati a immagine
di Dio Sottolineare la contingenza è, infatti, dichiararsi contro la necessità
dell’esistenza dell’uomo in Terra.
F.J.R. : Mi perdoni signor Anders e
mi lasci essere testardo. Eccomi ora così stupido come quel professore di
Paderborn che Lei cita nelle Ketzereien (Eresie). Lei si riferisce a
quella lettera e scrive che l’uomo non è “più degno di riflessione filosofica”
che una medusa o un’ortica, per esempio. Più degno di riflessione filosofica,
deve innanzitutto ridefinire l’espressione.
G.A. : Trovo che sia una terribile pretesa
credere che proprio noi, semplici uomini, avremmo un’altra valenza metafisica
dei milioni di altri creata, cioè le
altre creature e le altre cose create che esistono nel mondo.
F.J.R. : Quando Lei dice,
nessun’altra valenza in più, nessun’altra valenza che ...
G.A. : ... nessun’altra valenza
metafisica.
F.J.R. : Come vuole, allora, che la
sua buona parola tocchi quella creatura casuale che è l’uomo se non gli accorda
altra valenza se non quella accordata al filo d’erba, all’ortica?
G.A. : Ma non dico affatto che gli
spinaci o l’ortica siano senza valore.
F.J.R. : Voglio arrivare al concetto
di colpevolezza. L’uomo ha la facoltà – al contrario di tutti gli altri creata – di sentirsi colpevole. Nel
corso di questo secolo, si è sentito terribilmente colpevole; quel che
finalmente non è altro che l’eterno soggetto dei suoi libri.
G.A. : Insomma, la colpevolezza non
è precisamente una distinzione. Dovremmo
forse vantarci della nostra capacità di avere sensi di colpa?
F.J.R. : La valenza è un valore.
G.A. : Sì, un valore. È, però, far
prova di un’enorme vanità credere di essere precisamente l’esistente per eccellenza, superiore a tutte le
altre specie esistenti, è un’immensa...
F.J.R. : Tracotanza
(Hubris)?
G.A. : il termine tracotanza mi
pare troppo solenne. No è uno sbraitare
metafisico. E sentirsi colpevoli non è possibile se non all’interno di una
certa organizzazione della vita di un gruppo. Ecco “quel che distingue l’uomo”:
i lupi non possono sentirsi colpevoli. Non hanno nemmeno bisogno di morale.
Sentirsi colpevoli è possibile solo in un gruppo che ha bisogno di morale
perché non ha ricevuto dalla natura le regole di comportamento necessarie.
F.J.R. : La possibilità di sentirsi
colpevoli vuol dire anche la possibilità di decidersi: per il bene o per il
male. La possibilità di decisione non appartiene dunque all’essenza dell’uomo?
G.A. : Non la possibilità di
decisione ma la necessità di doversi
decidere, la necessità di dovere
disporre di una morale di cui gli animali non hanno verosimilmente bisogno. Non
ne sappiamo nulla. Non possiamo chiedere alle api se hanno anche loro certe
regole e se sono messe a morte quando infrangono le regole. C’è anche una forma
bella e buona di messa a morte tra le formiche e le api. Non farei della
possibilità di sentirsi colpevoli il segno della superiorità...
F.J.R. : Non era, però, questo
l’oggetto della mia questione, si trattava “dell’essere fatti altrimenti”. È a
questo che voglio arrivare. Che l’uomo è fatto altrimenti, che si distingue in
questo dall’ortica, dalla medusa...
G.A. : probabilmente. Non ne
sappiamo nulla. Posso ammettere di dire che ci distinguiamo per il nostro
istinto che è più debole di quello degli altri esseri viventi e che tentiamo in
ritardo di stabilire una regola per mezzo d’ingiunzioni e divieti. È probabile
che non sia il caso per i cani o le volpi. Ciò non significa, però, che ci
collochiamo sopra di loro. Significa, invece purtroppo, che noi abbiamo bisogno di una morale. La capacità di
distinguere il bene dal male non è una qualità superiore ma un bisogno
assoluto. La pianta di spinaci non vale meno di noi perché non ha questa
facoltà. Sarebbe molto stupido, lui che non può essere né buono né malvagio se
facesse una distinzione senza significato per lui poiché non ne ha
assolutamente bisogno. Noi, invece, abbiamo bisogno di morale.
F.J.R. : Di morale – è Lei il
maestro?
G.A. : Sì, sono io.
F.J.R. : Quali sono stati i maestri
di questo maestro? E piuttosto sconcertante, perché più la si legge, più
appaiono dei nomi – che del resto Lei finisce generalmente per rigettare –, ma
non si arriva a distinguere esattamente se Lei ha davvero dei maestri o se le
sue letture l’hanno semplicemente portato casualmente attraverso la storia del
mondo.
G.A. : Le mie letture, paragonate a
quelle di certi eruditi, sono state insufficienti. L’ho riconosciuto a diverse
riprese, leggere è per me molto più difficile che scrivere, e coltivare dei
giardini che sono stati seminati da altri infinitamente più faticoso che
sarchiare, seminare o vendemmiare nel mio giardino. Quali sono stati i miei
maestri? Dal solo punto di vista biografico, la risposta è facile: sono stati
innanzitutto mio padre ed Ernst Cassirer, poi ci sono stati Edmund Husserl e
Martin Heidegger; con Max Schleier, non era già più un rapporto
maestro-allievo, abbiamo discusso molto, ma non era da eguale a eguale perché
ero ancora troppo giovane per questo. Come, del resto, per tutto il corso dei
miei studi, poiché ero solo un ragazzo. Avevo solo ventuno anni nel 1923,
quando ho passato la mia tesi di dottorato con Husserl. Un lavoro diretto
contro di lui, sia detto en passant.
F.J.R. : Lei ha fatto ripetutamente
degli appunti a Bloch che erano delle critiche, vuoi degli attacchi nei suoi
confronti: Non solo contro il suo Principio
Speranza, ma più in generale a proposito della sua opera.
G.A. : Non a proposito dell’opera,
ma contro la sua mania della speranza. Ciò è dovuto alla questione nucleare: ha
rifiutato di prenderne atto. Ho cercato più volte – bisogna dire che eravamo
intimi – di fargli capire che la sparizione totale del mondo era un’eventualità
incontestabile, che la vera rivoluzione era quella di un’umanità capace di
autodistruggersi e che, rispetto a questo enorme cambiamento di situazione, non
solo per l’uomo, ma anche per ogni vita, le distinzioni che noialtri marxisti
abbiamo stabilito tra i sistemi di dominio, e persino tra le classi sociali,
diventavano secondarie. Per finire, avevo detto che, tenuto conto di questo
cambiamento, dovevamo rivedere i fondamenti della nostra filosofia così come
quelli della nostra riflessione filosofica marxista. E a questo proposito Bloch
ha sempre avuto lo stesso gesto di rifiuto. Trovava lacrimevole e inetta la mia
corrispondenza con Eatherly. E la sua attitudine disperatamente rivolta alla
speranza, in fondo vigliacca, mi ha, a poco a poco, profondamente contrariato.
Per questo i miei commenti critici nei suoi confronti. Non dimentichi, però,
che gli ho dedicato un libro. Eravamo molto amici.
F.J.R. : E con Adorno o Horkheimer?
La Scuola di Francoforte è un concetto che, curiosamente – per quanto io possa
giudicarne, in ogni caso –, Lei non tocca mai.
G.A. : Perché non ha avuto su di me
alcun ruolo di formazione. Noti che Adorno era molto più giovane di me. Avevo
cominciato molto prima di lui, ma i suoi scritti hanno avuto per me solo un
ruolo minimo. Bisogna dire che dopo aver lasciato Friburgo, mi sono dapprima
trovato a Berlino, poi sono andato a Parigi, dove ho prevalentemente
frequentato degli artisti.
F.J.R. : A Parigi, Lei ha incontrato,
tra gli altri, Walter Benjamin.
G.A. : Benjamin non era per me un
elemento del cerchio Adorno. Era mio cugino in seconda e lo conoscevo da quando sono al mondo. Non posso dire che a Parigi abbiamo fatto della filosofia
insieme. Eravamo, infatti, in primo luogo degli antifascisti, in secondo luogo
degli antifascisti e in terzo luogo degli antifascisti ma è possibile, inoltre, che abbiamo parlato di
filosofia. Lei si fa un’immagine un po’ falsa dell’emigrazione se pensa che
avessimo il tempo di sederci per speculare. Adorno e Horkheimer, forse, avevano
il tempo per questo, perché la loro esistenza era assicurata. Adorno e
Horkheimer, è sicuro, non hanno mai sofferto la miseria dell’emigrazione. Non
posso ricordarmi di avere “filosofato” con degli scrittori tedeschi durante
l’emigrazione.
F.J.R. : Possiamo spingerci a dire
che anche più tardi l’emigrazione, anche quella americana, è stata per Lei
un’assenza di dialogo, essenzialmente?
G.A. : Assenza di dialogo
filosofico? Sì, accetto questa espressione. Durante l’emigrazione in America,
ho abitato un periodo in casa di Herbert Marcuse a Santa Monica, ma neanche con
lui, a dire il vero, abbiamo “filosofato” insieme. Non avevo il mio posto da
nessuna parte. Non ero più heideggeriano da parecchi anni, non facevo parte del
cerchio di Adorno e Horkheimer, non sono mai stato membro dell’Istituto di
Francoforte e non ero iscritto al Partito. A dire il vero, non mi si prendeva
sul serio: Brecht non mi prendeva sul serio perché la mia filosofia non era
abbastanza marxista; e gli universitari neppure perché non mi accontentavo di
filosofare da erudito sulla filosofia altrui – non mi capivano quando dicevo
che un astronomo non si occupa in primo
luogo delle teorie astronomiche degli altri astronomi, ma delle stelle
[...].
F.J.R. : E Brecht? Lei ha perfino pubblicato delle conversazioni con lui
che non sono, suppongo, puramente fittizie – il che significa, dunque, che l’ha
ogni tanto frequentato?
G.A. : Fittizie? Ogni tanto? Molto
spesso! La cosa aveva già cominciato a Berlino. A Berlino gli rendevo
regolarmente visita ed era una situazione delle più delicate. Perché in fin dei
conti, credo che non mi sopportasse. Non solo perché lo capivo meglio di quanto
desiderasse, ma anche perché aveva l’abitudine di circondarsi di gente dalla
quale poteva ottenere delle cose che gli erano utili. L’utilità era il criterio delle sue relazioni. Il che significava
subordinazione, ed era una cosa per la quale ero disperatamente poco dotato.
[...]
F.J.R. : Si può dire che molti dei
suoi lavori – penso alle favole Der Blick vom Turm (La vista dall’alto della torre) –
sono molto vicini al modello di scrittura brechtiana?
G.A. : Che io sia stato influenzato
da Brecht, per esempio per Le storie del
signor Keuner, ma anche per la sua “mistura di saggezza e insolenza”, come
ha detto un giorno, non c’è alcun dubbio. Certamente è stato anche importante
per la mia riflessione filosofica, nonostante fosse del tutto incolto in
filosofia. In realtà non conosceva che il marxismo. Lo stesso Hegel solo per
sentito dire. Poco dopo che siamo entrati in contatto – come definire la cosa:
conoscenza è davvero troppo debole, amicizia davvero troppo forte –, aveva
fatto una specie di commento sull’idealismo
di Hegel. Si serviva di queste espressioni stereotipate senza complessi.
Aggiunse che Hegel “non entrava assolutamente in linea di conto” e che leggendo
a lato Marx si vedeva bene “che forza formidabile” fosse.
Andato a trovarlo la volta seguente
gli dissi: “Ho portato un testo di Hegel e un testo di Marx per leggerveli;
seguirò l’ordine cronologico, cominciando, cioè, da Hegel”. Gli ho invece letto
Marx ed ha cominciato a ironizzare. Gli ho poi letto Hegel dichiarando che il
testo era di Marx. Gli è piaciuto enormemente. Vede, già a quell’epoca, quando
aveva soltanto venticinque anni, Brecht era abituato a essere celebre, portato
alle stelle. Anche gli uomini lo trattavano come avrebbero fatto le donne. Il
mio comportamento in questo caso era un’insolenza alla quale non era mai stato
ancora confrontato (anche se era assai brechtiana). Quando gli ho confessato la
soverchieria, mi ha messo alla porta. In seguito ci siamo riconciliati.
Suppongo che ha preso coscienza dell’intenzione didattica che stava dietro
questo gioco di prestigio. Era straordinariamente aperto agli scherzi, ne
faceva egli stesso enormemente, e finalmente, questa astuzia per “prenderlo in
trappola” deve essergli piaciuta segretamente. [...]
F.J.R. : In che cosa consiste, dunque, la sua
filosofia? C’è la sua affermazione di “filosofia della discrepanza (Diskrepanzphilosophie).
G.A. : È la risposta che avevo dato
a qualcuno che mi domandava un giorno come io intitolassi la mia filosofia. Gli
avevo risposto: al centro della mia antropologia filosofica si trova
verosimilmente il fatto determinante della mancata sincronizzazione delle capacità
umane e anche della loro discrepanza. Il
fatto che noi possiamo produrre più che rappresentare. Da ciò verrà
eventualmente la catastrofe. Se si vuole dunque assolutamente trovare un nome
alla mia riflessione filosofica, bisogna farlo in rapporto a questa discrepanza
tra produzione e rappresentazione, chiamiamola dunque “filosofia della
discrepanza”. La cosa sembrava tanto più appropriata che esiste una famosa
“filosofia dell’identità”, quella di Schelling. Dunque “filosofia della
discrepanza” fa un bel pendant.
F.J.R. : Naturalmente, nessuno saprà
con queste poche frasi che cosa sia in realtà la “filosofia della discrepanza”.
G.A. : Non lo si sa meglio con la
« filosofia dell’identità ». È l’uomo che è identico a Dio o è invece
il corpo che è identico all’anima? E neppure “l’idealismo trascendentale” si sa
che cos’è.
F.J.R. : Tuttavia Lei deve spiegarlo
e spiegarlo ai nostri lettori.
G.A. : Un titolo è un pannello
indicatore, non un elemento descrittivo. Il pannello indicatore non è tenuto a
rappresentare tutto l’albergo del quale indica la direzione. Poco importa. Quel
che si ripete in tutto quello che ho scritto, è che la discrepanza che definisce l’uomo
attuale – e non soltanto attuale, diciamo piuttosto: che è il destino dell’uomo, questa discrepanza non è più identica a
quelle che passavano finora per determinanti. Della discrepanza tra corpo e
spirito, tra desiderio e dovere, oggi noi possiamo riderne. Quel che conta,
oggi, è piuttosto la discrepanza tra quel che siamo capaci di fare e quel che siamo capaci di rappresentare. È unicamente perché siamo
incapaci di rappresentare i nostri prodotti e i loro effetti che niente
c’impedisce di fabbricare delle bombe atomiche. Tuttavia quel che io penso è
che siamo diventati degli “utopisti a rovescio”: mentre gli utopisti erano
capaci di rappresentare molto di più di quel che potevano produrre, noi
possiamo sfortunatamente rappresentarci infinitamente meno di quanto possiamo
produrre. È solo perché questa discrepanza sarà causa della nostra sparizione –
in fondo, la ragione non è cosi insignificante – che ho dato questo nome alla
mia filosofia.
A ciò si aggiunge una seconda
discrepanza, molto vicina, è vero alla prima: la discrepanza tra quel che
chiamavamo un tempo “la nostra attività”, “il nostro fare” e quel che
“facciamo” realmente oggi. In realtà, non “facciamo” effettivamente più niente
nel senso “dell’agire” o “del produrre”. Ci accontentiamo, al contrario, (per
quanto ne siamo gli attori) di semplici atti
di avviamento, innescanti dei risultati che non solo non possiamo
prefigurare ma che addirittura non
possiamo più identificare. La discrepanza tra avviamento e effetto è un
fenomeno assolutamente nuovo, assolutamente catastrofico. Non lo si può nemmeno
più descrivere con parole come “alienazione” o “distanziamento”, perché questi
termini suppongono che si conferisca in
seguito della distanza a qualcosa che in principio ci era familiare. Tuttavia, non
è per nulla questo che è in causa. L’operaio o l’uomo politico di oggi non
fanno, di colpo, di qualcosa che era familiare in precedenza, qualcosa di
strano; al contrario, si trovano improvvisamente in uno stato di estraneità di
fronte al risultato della loro attività, poiché non pensano assolutamente al
risultato che otterranno.
Quando Lei lavora su una macchina come
ho fatto io, quel che ne esce non le è soltanto perfettamente indifferente, Lei
non l’ha mai avuto sotto gli occhi come eidos,
per dirlo in greco, e non avrebbe del resto alcun senso avere l’eidos sotto gli
occhi. Si lavora dunque senza telos
(obiettivo) e senza eidos (idea). La
discrepanza tra il produttore e il prodotto è totale. È questa discrepanza che rappresenta la vera rivoluzione della nostra
epoca. La vera, perché è
perfettamente indipendente dal modello economico e si fa, si è fatta tanto
all’Ovest che all’Est.
F.J.R. : Eccettuati i due “risultati”
spettacolari della storia, che Lei mette continuamente in primo piano, voglio
dire Auschwitz e Hiroshima. Là si vede perfettamente il risultato del fare. Nonostante
l’allontanamento in rapporto al prodotto che Lei ha definito, questi prodotti
sono, tuttavia, fabbricati bene: bisogna pure che uno mescoli i gas, l’altro
costruisca la bomba. Ci vuole bene uno scienziato per concepirla, un tecnico
per montarla e infine un pilota per sganciarla. Lei pensa di poter mai
interrompere questo concatenamento di causa a effetto?
G.A. :Probabilmente no. Credo, però,
nonostante tutto, che non abbiamo altro dovere se non attirare almeno
l’attenzione della gente sul fatto che anche se conducono le loro attività
senza telos, ne scaturisce finalmente
un telos che non avevano voluto, cioè
la sparizione dell’universo.
F.J.R. : È questa, tra le altre, la
ragione per cui, nella prefazione di Mensch ohne Welt (L’uomo senza mondo) Lei si è pronunciato,
in modo davvero sconcertante, contro il pluralismo?
G.A. : Così Lei passa arditamente a
un altro campo di questioni. Per rispondere alla sua domanda: sono sempre
rimasto stupito di essere il solo scombussolato dal pluralismo. È davvero una
condizione sconcertante dover partecipare a
tutto, rispettare tutto, in maniera uguale, ma senza crederci. È una situazione assurda. Non è mai capitato,
fatta eccezione per la cultura alessandrina. A mio avviso è il risultato della
commercializzazione del mondo – un ampliamento del concetto di tolleranza che i
fondatori dell’ideale di tolleranza non potevano certo prevedere.
F.J.R. : Ma Günther Anders, mi
perdoni, ecco qualcosa che diventa molto delicato. Conosco la sua tesi che dice
che il diritto all’uguaglianza fondamentale della nostra epoca è quello della
produzione di merci: Opporrei a ciò un gran “ma”: Lei come me e ben altri
ancora. Viviamo anche di questo concetto di tolleranza, diciamo allargato. Noi
siamo insopportabili per molti altri quanto altri lo sono per noi. Chi deciderà
come si dovrebbe delimitare il pluralismo, circoscrivere la tolleranza? È
piuttosto delicato.
G.A. : In effetti, abbordare questo
problema è straordinariamente delicato. Non ho proposto di abbandonare il
pluralismo per impadronirci bruscamente di una religione o un dogma determinato
– il che significherebbe ritornare a un’intolleranza determinata.
F.J.R. : Leggo una frase estratta da
Mensch ohne Welt : “ Manifestamente, però , il pluralismo, per natura
non solo non soffre di non vivere più in un mondo determinato, ma ancora non
sente neppure più quanto la verità gli sia diventata indifferente”. È un po’
forte.
G.A. : Ciò vale già per Nathan. E
più che mai per oggi. Lei non conosce il concetto di tolleranza estrema
sviluppato dalla “terza scuola di psicanalisi” la cui esistenza è dovuta – un’esistenza
un po’ ridicola – a Viktor Frankl ? Vi si afferma che è perfettamente
indifferente quale ideale qualcuno
può avere. Finché ne ha uno, qualunque esso sia, la sua vita ha un senso (ammesso
che questa parola abbia qui un qualunque senso). E questo qualcuno dovrà allora
restare in buona salute, vuoi guarire. La verità non è dunque decisiva. Solo la
sincerità. No, neanche questo. Semplicemente l’effetto terapeutico di una presa
di posizione. Questa tesi che vuole che la forza di una credenza renda vero il
suo oggetto, è insopportabile.
F.J.R. : Glielo accordo. Perché ciò
significherebbe, in effetti, che tutti i nazisti che hanno creduto sinceramente
al nazional-socialismo hanno creduto a qualcosa di vero. Tuttavia, dove
tracciare la frontiera? Lei dice in un altro punto che ci si può porre la
questione: La tolleranza è antidemocratica o non è anche una mancanza di
cultura? Orbene, ancora questa seconda ipotesi non ci impedirebbe di vivere.
Trovo, invece, che l’intolleranza è una mancanza di democrazia. E ci si arriva
rapidamente. Se Lei rifiuta il pluralismo as
such, dove si situa il suo concetto di tolleranza che Lei pure reclama per
sé quando chiede che si tolleri il suo”io”. Chi determinerà ciò?
G.A. : Per rispondere a questa
questione, ci vorrebbe tutto un trattato sul rapporto tra “Morale e Verità”.
Non posso produrglielo in un batter d’occhio. Tuttavia, nella mia introduzione
a Mensch ohne Welt, ho preso chiaramente le distanze nei confronti di
quanti, per scetticismo verso il pluralismo, decidono, come va ora di moda, di
rifugiarsi in un dogma integralista qualunque, poco importa quale, di aderirvi
o di ritornarvi attendendo dagli altri la stessa conversione. Il rifiuto che io
preconizzo, di un politeismo senza alcun impegno, si riduce dunque
necessariamente all’approvazione da rinnegato di un qualunque “monoteismo”? Si
può dunque mettere in causa la legittimità di una situazione solo se si è
capaci di definire senza ambiguità la situazione che dovrebbe prevalere al suo
posto? Non sarebbe forse questa la morte di ogni critica?
Mi sembra che la mia presentazione
di Kultur als Inbegriff des Unverbindlichen (La civiltà come incarnazione del non-impegno) conservi la sua
importanza, anche se non ho nessun impegno da formulare solennemente. In ogni
caso, non ho fatto come molti dei miei contemporanei che aderiscono di colpo a
qualche integralismo, che sia islamico o ebreo, o che, per appartenere almeno a
qualcosa, si fanno discepoli di Baghwan. Non è questo che propongo. Tutti
questi sono solo espedienti. Il fatto, però, che io non abbia soluzione non mi
toglie la possibilità né il dovere di criticare l’assurdità di una cultura che
è diventata commerciale e che si è voluta tale.
F.J.R. : Lei afferma oggi con forza:
non sono integralista, non lo sono diventato e non lo sono , all’evidenza, mai
stato. Si è comunque colpiti di vedere come Lei si sia indefessamente occupato
– scelgo per ora una formula molto breve – di Dio, Lei può anche impiegare il
termine di religiosità. Lei inquadra il problema in quasi tutti i suoi libri.
G.A. : Questo posso spiegarglielo.
In una maniera che rimane per me impenetrabile e sospetta, esercito sugli
esseri religiosi una certa attrazione. Manifestamente, quando parlo di
Auschwitz o di Hiroshima, la mia lingua si carica di un fervore che senza
averne l’unzione, ha certamente qualcosa di una predica ed è male intesa. Un
ecclesiastico protestante conosciuto, oggi deceduto, mi ha lanciato un giorno:
“Naturalmente – non mi dica il contrario – Lei è un homo religiosus!”. Ciò che naturalmente non sono; al massimo un uomo onesto. Se riprendo senza sosta dei “temi religiosi”,
è per combattere senza sosta i processi d’intenzione religiosi. Le tinozze
d’acqua fredda a lato della mia scrivania non testimoniano certo del mio
“ardore religioso”.
F.J.R. : Questa non è un risposta
alla mia domanda; Lei mi dà una risposta tattica. Io volevo una risposta sul
fondo. Volevo sentirla dire in quale misura queste cose la spingono a
riflettere ancora un po’, invece di rigettarle o spazzarle via con una manata,
come si può fare per dar loro risposta. C’è anche, il che è bizzarro da parte
sua, anche se l’ha sempre contestato, l’espressione di “anticristo di
professione” o qualcosa di simile.
G.A. : Ateo professionista. Il
Cristo non è mai menzionato se non con il nome di Gesù.
F.J.R. : Dio, invece, è menzionato, e
anche assai spesso. È su questo punto che la interrogo. Lei ha cercato un
giorno di definirsi con l’aiuto di numerose questioni e negazioni: in fondo
sono uno scrittore tedesco, ma no, non sono uno scrittore tedesco perché ho
vissuto qui e là. Sono uno scrittore ebreo? Sì, è vero sono ebreo ma non sono
uno scrittore ebreo, e così via.
G.A. : Non è colpa mia se sono
diventato indefinibile. E perché la storia mi ha buttato fuori da tutte le
frontiere che sono appunto indefinibile, che vivo appunto senza fini, senza frontiere definite.
F.J.R. : Dietro le sue denunce
sull’infamia e sul carattere criminale della storia non ci sarebbe forse una
specie di richiesta? Lei dice spesso: come potete parlare di un Dio, avere
l’idea di sognarlo o anche credere in lui? In un Dio che permette Auschwitz e
Hiroshima. Dietro questa questione, dietro questa denuncia, s’intende bene
anche la richiesta che bisognerebbe che esistesse. No?
G.A. : No. “ri-chiesta” è un bel
gioco di parole, ma non le concederò che io sia in cerca di qualcosa. La mia
denuncia è che gli uomini siano talmente ciechi da credere ancora, dopo
Auschwitz e Hiroshima. Non mi aspetto niente dal mondo. Non mi posso aspettare
che ci si conduca in modo morale. Tuttavia non accetto che il mondo sia com’è e
cerco di contribuire a evitare il peggio.
F.J.R. : Lei ha detto un giorno:
“odio l’odio”, e in un altro libro ha consacrato tutto un passaggio a dire
quanto è deplorevole che Le abbiano insegnato l’odio. C’è in fondo dietro di
ciò un grande amore o un bisogno d’amore, oppure ancora un lamento sulla
potenzialità distrutta di saper amare gli uomini, il mondo, il corso delle
cose.
G.A. : Su questo Lei ha forse
ragione. E non ho amato solo questo o quell’essere umano. E non solo degli
esseri umani. Perché non c’è un albero che non vorrei chiamare per nome; né un
animale cui io non assegni subito un nome affettuoso. Del resto, ogni volta,
non si ama solo l’oggetto del proprio amore, si ama anche amare.
F.J.R. : Spero non sia una domanda
stupida: la sua affinità con Beckett deriva da questo? Dal fatto che mostra l’impossibilità
del nichilismo?
G.A. : Se mi ricordo ancora bene,
in Aspettando Godot, è quel che ha
fatto, effettivamente. I suoi eroi, infatti, continuano ad aspettare l’arrivo
di Godot a dispetto del fatto che quest’ultimo, poiché non esiste, non si
preoccupa affatto di realizzare il loro sogno. Aspettando, essi sono dunque
incapaci di vivere nel nichilismo, incapaci di non sperare. Beckett, però, non s’identifica con questi personaggi,
i suoi personaggi; non considera una virtù e nemmeno una prova dell’esistenza
di Godot, la loro incapacità a non
attendere, dunque a non sperare.
Siccome io vedo, come lui, un’insufficienza in questa incapacità – Lei conosce
bene la mia posizione in rapporto alla mania della speranza di Bloch, per me la
speranza è semplicemente sinonimo di vigliaccheria – l’affinità tra Beckett e
me è effettivamente incontestabile.
F.J.R. : Ciò non è in contraddizione
con la sua affermazione che l’impegno è inerente ed essenziale nell’opera
d’arte? Beckett non è veramente uno scrittore impegnato.
G.A. : Non sceglierei una formula
così categorica. Direi che non c’è niente
di più ridicolo dell’ideale di non essere impegnati, e che questo ideale
ridicolo non prevale che nel settore dell’arte. Nessun pastore capirebbe che si
dica di lui che non è impegnato o che non prende il suo impegno sul serio.
Nessun fornaio capirebbe se gli si facesse questo rimprovero: “Lei non è un
fornaio impegnato perché fa dei panini per
nutrire gli uomini e per ingrassarsi
nutrendoci”. Effettivamente, non c’è, dunque, che l’arte per rendere ridicolo l’impegno.
F.J.R. : Per Lei, dunque, l’arte ha
una funzione in quel che succede nella società?
G.A. : Can’t help having it.[Non posso
impedire che ce l’abbia]
F.J.R. : Nello stesso tempo, Lei non
smette di parafrasare la formula di Adorno per cui, dopo Auschwitz non si può
più scrivere poemi, nel senso: non si “dovrebbe” più scrivere poemi. Ma,
allora, se l’arte è un valore sociale, non ha evidentemente il diritto di interrompersi
dopo Auschwitz. Io trovo questa formula di Adorno assolutamente erronea.
G.A. : Io no. Credo che la pretesa
serietà dell’arte, di fronte alla serietà di quel che è successo e quel che
minaccia di succedere, è soltanto frivolezza. Ci sono avvenimenti di una tale
importanza che l’arte non può arrivarci. Niente di più sconveniente della
composizione di Schönberg Un
sopravvissuto di Varsavia; ciò che vale anche per Sul ponte d’Hiroshima che Nono ha tratto dal mio libro Der Mann auf der Brücke (L’uomo
sul ponte). Nei due casi, si fa dell’orrore di quel che è successo e di quello
che potrebbe ancora aspettarci, un soggetto di godimento. Non è serio. Adorno
non dice non si deve, ma non si può.
F.J.R. : Anche Lei scrive dei poemi.
G.A. : Non ho mai fatto poemi su
Hiroshima.
F.J.R. : Adorno non ha mica detto: basta
poemi su Auschwitz. Ha detto basta poemi dopo
Auschwitz.
G.A. : Non credo di averne fatto
nemmeno uno dopo. La mia Musa, anche se non è stato istantaneo, è morta
d’orrore. Da quando sono tornato in Europa, quasi nessun poema ha visto la luce.
F.J.R. : Non può mica cavarsela così,
Günther Anders! Anche le sue favole sono dei poemi. Non si appigli al solo
termine di “poema”. Ha appena citato Lei stesso i lavori di Schönberg o di Nono
come un'altra forma di arte possibile. Con il termine “poema” Adorno non pensa
al poema, ma all’arte.
G.A. : Non ho, mi pare, scritto
alcuna favola a proposito di Hiroshima.
F.J.R. : Non diciamo a proposito di. Noi diciamo dopo Auschwitz. Mette una data. Ha detto
dopo che è successo qualcosa di tanto orribile, l’arte diventa una barzelletta.
Questo dice la frase e la trovo stupida perché, naturalmente la Todesfuge di Celan è un poema
importante.
G.A. : No, non lo credo affatto. Credo
piuttosto che si è voluto persuadercene. Il suo poema è servito da alibi ai
tedeschi, era un modo di “sormontare”
e di “ammettere” Auschwitz sottoforma
di una poesia d’avanguardia. Questa Todesfuge
riprodotta in migliaia di esemplari non è mai stata capita da chicchessia.
Nemmeno da Celan stesso. Questo poema non ha mai avuto il minimo “effetto”, non
ha mai fatto scattare davvero angoscia e terrore. Non lo si può recitare. E se
lo si recita lo stesso, diventa un
oggetto decorativo propriamente scandaloso. Su questo, Adorno aveva dunque
ragione. Quel che voleva dire era: il serio dell’arte che si pretende “seria”,
se paragonato con il serio della situazione nella quale siamo, cioè non solo
una situazione successiva alla catastrofe, ma anche quella di catastrofi finali
verosimilmente in arrivo, questa
serietà, dunque, è una serietà frivola,
una serietà da non prendere sul serio.
F.J.R. : Dunque Lei vuole un mondo
senza arte?
G.A. : È una conclusione sbagliata.
Sto parlando di morale, non di arte. Dico che la nozione di serio, applicata all’arte,
comparativamente alla serietà della nostra situazione, non è una nozione da
prendere sul serio. Non ho detto niente sul fatto che l’arte sia finita o
dovrebbe essere finita; nel tempo che ci è eventualmente ancora impartito, la
questione arte o no, ma anche quella filosofia o no, non è senza dubbio
pertinente. Vede, non faccio che giocare con il pensiero della fine. Siccome la
nostra sorte è tra le mani di gente terribilmente poco seria, prendo il
pericolo terribilmente sul serio.
F.J.R. : Lei è davvero perfettamente
convinto che un pazzo qualunque innescherà la bomba?
G.A. : Sì, ma non un pazzo. Un ottuso: Qualcuno troppo ottuso per rappresentarsi quel che potrebbe
fare, incapace, cioè, di rappresentarsi la potenza di distruzione illimitata
che detiene. Oggi, chi si deve
considerare “ottuso” è chi ha non un pensiero, ma un potere d’immaginazione
limitato.
Quando un uomo come Reagan – per scherzare, a quel che
dice – annuncia: “Cinque minuti fa ho lanciato l’ordine di attacco nucleare”, è
appunto talmente poco serio e talmente limitato che diventa un dovere per noi
prenderlo terribilmente sul serio.
A ciò si aggiunge – e torniamo così all’inizio della
nostra conversazione – che quel che Lei chiama “follia”, o “innesco della bomba”
non sarà impedito da alcun meccanismo d’inibizione; e questo per la buona
ragione che non si tratterà più del tutto
di un “fare” reale, di un’azione,
ma di un semplice “innesco”, senza la minima idea dell’effetto finale prodotto.
L’ultimo “provocatore” sarà probabilmente un computer assistito tramite un
computer. Per innescare una follia, non
c’è bisogno di pazzi nel senso clinico del termine. Più una cosa può arrivare
in maniera indiretta, più può arrivare facilmente, più è probabile che
arriverà. Per quanto paradossale possa sembrare: la mediatizzazione facilita
l’evento. Anche l’annientamento di Hiroshima, quaranta anni fa, era già più
facile ed è potuto avvenire con “meno ingombri” dell’assassinio di un solo
individuo.
F.J.R. : Quel che Lei dice dà freddo
alla schiena e non da certo voglia di andare a distrarsi in seguito. Nello
stesso tempo, mi chiedo – anzi, Le chiedo: contro chi Lei vuole ancora metterci
in guardia se è convinto che la catastrofe avrà luogo? Non è neppure più il
caso per Lei di metterci in guardia.
G.A. : Falso. Ho parlato a diverse riprese – anche
all’inizio di questa intervista, credo – della necessità attuale della
schizofrenia. Intendo dire, con questo, che quando agiamo non dobbiamo
assolutamente lasciarci influenzare dalla disperazione delle nostre convinzioni.
Le mie Tesi sul secolo dell’atomo,
dettate agli studenti di Berlino nel 1959, dopo, il mio ritorno da Hiroshima,
terminavano già così: “E se sono
disperato, che cosa volete che ci faccia?” Non è un “principio speranza”.
Al più un “principio bravata”.
*****
si vous me tamponnez, nous ferons une omelette |
Les œufs sont cassés,
l’omelette va se faire.
L’actuel
confinement nécessaire invite parfois, à la réflexion philosophique car on ne
peut pas uniquement et toujours cousiner. Il est sage bien manger autant que
penser mieux puisqu’une jouissance authentique n’est pas possible dans la
séparation du corps et de l’esprit.
A l’ordre du
jour ce ne sont pas les procès inquisitoires en cherche de boucs émissaires,
mais l’abandon d’un système et de tous ses souteneurs, prédateurs bornés et
nihilistes. La dénonciation des puissants qui gèrent l’Anthropocène
(Capitalocene a justement précisé Baschet, une civilisation qui a prouvé d’être
une anti civilisation productiviste techno industrielle en voie de détruire la
vie) vient de loin (Anders parmi d’autres).
Aujourd’hui il
est question de reprendre le pouvoir non pas pour l’exercer, mais pour l’abolir
et y substituer la puissance partagée des inégaux rendus égaux par l’aide
réciproque qui marque l’humanité des êtres humains. Les femmes et les hommes en
sont spontanément capables, ils l’ont encore une fois montré ces derniers jours
par l’engagement et le don de soi de beaucoup de monde, en particulier le
personnel soignant, pendant cette triste occurrence virale où un nombre énorme
d’autres individus anonymes, tout en abhorrant le conditionnement, se sont
imposé rationnellement une quarantaine difficile, sinon tragique, pour tous.
Il est en
train d’émerger, une fois de plus, que l’humanité sans chefs agit de façon
humaine : d’un côté les communards de la vie quotidienne, de l’autre les
Versaillais de la domination et des hiérarchies sociales. Uniquement les hommes
de pouvoir, les idéologues et une minorité d’esclaves incapables de changer,
ont continué à montrer leur visage odieux de suprématistes, en délirant,
manipulant ou en mentant avec l’égotisme coutumier des dominants et l’habituel
cynisme sadomaso des chefs et de leurs serviteurs volontaires.
C’est en ce
contexte inédit que la lucidité de Anders résonne prévoyante dans l’entretien
qui suit et que j’ai traduit en italien. Les éléments destructeurs que la
réalité dégage ne font que confirmer, hélas, les préoccupations de sa
philosophie du décalage. On peut, toutefois, essayer d’aller au-delà de sa
réflexion teintée de pessimisme, en en profitant sans optimisme, par un pari
sur la vie.
C’est à nous
et à notre philosophie pratique, émancipée de toute idéologie, d’aller au-delà
de l’espérance et du désespoir pour sortir avant tout du confinement en ayant
vaincu le virus, puis, sans atermoiements ni renvois, redémarrer de la
communauté de base et des groupes d’affinité en train d’émerger partout, en
marge d’un système social en faillite.
Nous le savons
et nous n'avons pas le choix : nous devons sortir du processus social
mortifère qui a permis au virus de sévir dans une forme catastrophique au
milieu des catastrophes qui s’annoncent pour demain et âpres demain.
Tous savent
désormais, même ceux qui veulent le cacher, que la continuité avec le passé et
le retour à la normalité ne sont plus possibles parce que le passé a été la
barbarie et la normalité est le problème qui comprend tous les autres.
Un autre monde
est possible depuis longtemps. Aujourd’hui il est devenu nécessaire pour la
survie même de l’espèce humaine.
Sergio Ghirardi, 9
aprile 2020
Le texte de cet entretien de
Günther Anders avec Fritz J. Raddatz est d’abord paru en allemand dans Die
Zeit (n° 13, 22 mars 1985). La présente traduction française de Catherine
Weinzorn, a été publiée dans la revue Austriaca (n° 35, décembre 1992,
Presses universitaires de Rouen et du Havre).
F.J. Raddatz : Je vois
dans l’ensemble de votre travail une contradiction très complexe ; cette
contradiction se présente à moi en trois éléments, à vrai dire difficilement
conciliables. D’une part vous dites : « Quoi que nous fassions, c’est
toujours plus ou moins en vain. » D’autre part l’ensemble de vos travaux
ne fait que présenter le contraire, qui est de lutter contre ce « en
vain », changer tout de même quelque chose, créer une conscience, au moins
combattre l’analphabétisme mental, moral aussi. Mais, j’en viens au troisième
point, vous dites quelque part que l’être humain est, c’est votre expression,
« contingent ». Comment prétendez-vous relier ces trois éléments très
contradictoires ?
G. Anders : Non, je
ne dirais pas qu’il y a là des contradictions ; ce sont tout au plus des
contradictions apparentes. S’il m’arrive très souvent d’affirmer, de façon
exagérée, que rien ne sert à rien, c’est en fait pour des raisons tactiques, à
savoir pour m’opposer à ces hommes politiques et à ces journalistes du happy
end, qui ne craignent pas de faire dans l’optimisme. Le mot
« espérance », à travers Ernst Bloch, a malheureusement pris un
caractère de solennité — pour tout le monde, même pour le plus réactionnaire
des hommes politiques. Naturellement, de cet épais volume du Principe
Espérance, ils n’ont lu que le titre. Au demeurant, l’espérance n’est
absolument pas un principe, mais une émotion justifiée. Si je suis — pour
utiliser cette expression triviale — très « pessimiste », c’est pour
lutter contre cet optimisme rayonnant, que l’on rencontre même chez ceux qui
sont au courant de la situation nucléaire. Au fond, ce que je prêche — mais je
sais que par là j’en demande beaucoup à la moyenne des gens, peut-être beaucoup
trop — c’est, dans la pratique, de faire des efforts comme s’ils ne savaient
pas combien nos chances sont minimes. C’est-à-dire de mettre en pratique une
schizophrénie morale. Dans notre rôle d’actifs en matière de morale, nous avons
à nous faire plus bêtes que nous ne sommes.
F.J.R. :
Est-ce-que vous entendez maintenant par « actif » — comme dans cette
conversation avec Heidegger que vous citiez — quelqu’un qui a « déserté
vers la pratique » ?
G.A. : Jamais
dans ma vie je n’ai conçu le « faire » comme un acte de désertion.
C’est vrai que j’ai déjà « déserté vers la pratique » peu avant la
prise de pouvoir par Hitler. Mais que veut dire au juste
« déserter » ? Je trouve au contraire : les déserteurs
sont ceux qui ne prétendent pas déserter, ceux qui, quand les camps de
concentration existent, continuent, en universitaires, à peaufiner leurs
« Contributions à l’étude de tel ou tel sujet, compte tenu de tel ou tel
aspect particulier ». Ceux-là désertent effectivement, vers le
domaine de l’irresponsabilité.
F.J.R. : Vous
voulez donc dire que votre travail est de la pratique ? Vous ne
faites pas de séparation entre une marche de protestation et votre travail
théorique d’écriture ?
G.A. : Pas
plus qu’entre la recette de l’escalope et sa dégustation. — Croyez-vous peut-être
que je sois allé à Hiroshima comme « théoricien » ? Ou
mieux : « en ma qualité de théoricien » ? Laissez-moi
rire ! Et la correspondance que j’ai échangée avec Claude Eatherly ou avec
Klaus Eichmann, ce serait comme théoricien ? Et mon allocution pour
l’appel de Krefeld, je l’aurais rédigée pour la bonne raison que je
« m’intéresse à la problématique de la paix » ?
F.J.R. :
Laissez-moi revenir à la question de « contingent ». Peu de gens
comprendront exactement ce que vous voulez dire. Et je trouve moi-même que cela
peut facilement prêter à confusion, au regard de ce que vous venez de
dire : votre vie, votre travail compris comme l’union de la pensée et de
l’action dans une grande mise en pratique. Si dans le même temps vous faites de
l’homme une monade sans fenêtre…
G.A. : Non,
pas une monade sans fenêtre. Le concept de « contingent » est apparu
chez moi pour la première fois en 1929, dans la conférence que j’avais faite à
la société Kant sur « L’étrangeté de l’homme au monde » ; j’y
parlais de la « contingence de l’homme ». Cela signifie qu’il fait
partie des créatures dues au hasard ; que l’on peut penser un monde
dans lequel l’homme n’existerait pas. L’existence de l’homme est tout autant le
fait du hasard que celle de l’épinard ou du flet. J’ai formulé cela avec cette
netteté et cette impertinence, pour engager une polémique sur la thèse
vaniteuse et immodeste qui veut que nous ayons été créés à l’image de Dieu.
Souligner la contingence est en fait se déclarer contre la nécessité de
l’existence de l’homme sur Terre.
F.J.R. :
Pardonnez-moi, Monsieur Anders, et laissez-moi m’entêter. Me voilà à présent
aussi bête que ce professeur de Paderborn que vous citiez dans les Ketzereien
(Hérésies). Vous vous référez à cette lettre et vous écrivez que l’homme n’est
pas « plus digne de réflexion philosophique » qu’une méduse ou une
ortie, par exemple. Plus digne de réflexion philosophique, il vous faut d’abord
redéfinir l’expression.
G.A. : Je
trouve que c’est une terrible prétention de croire que nous précisément, qui
sommes tout simplement des hommes, nous avons une autre valence métaphysique
que les millions d’autres creata, c’est-à-dire les autres créatures et
les autres choses créées, qui existent de par le monde.
F.J.R. : Quand
vous dites, pas plus de valence, pas d’autre valence que…
G.A. : … pas
d’autre valence métaphysique.
F.J.R. : …
comment voulez-vous, alors, que votre bonne parole atteigne cette créature de
hasard qu’est l’homme, si vous ne lui accordez pas d’autre valence que vous en
accordez au brin d’herbe ou à l’ortie ?
G.A. : Mais je
ne dis pas du tout que l’épinard ou l’ortie soient sans valeur.
F.J.R. : Je veux
en venir au concept de culpabilité. L’homme a la faculté — au contraire de tous
vos autres creata — de se rendre coupable. Au cours de ce siècle, il
s’est rendu horriblement coupable ; ce qui n’est finalement rien d’autre
que l’éternel sujet de vos livres.
G.A. : Mais
enfin, la culpabilité n’est pas précisément une distinction. Devrions-nous
nous vanter de notre faculté de culpabilité ?
F.J.R. : La
valence est une valeur.
G.A. : Oui,
une valeur. Mais c’est faire preuve d’une énorme vanité de croire que l’on est
précisément l’existant par excellence, supérieur à toutes les autres
espèces d’existant, c’est une immense…
F.J.R. :
Outrecuidance (Hybris) ?
G.A. : Le mot
outrecuidance me semble trop solennel. Non, c’est de la gueulardise
métaphysique. Et se rendre coupable, ce n’est possible qu’à l’intérieur d’une
certaine organisation de la vie d’un groupe. Voilà « ce qui distingue
l’homme » : les loups ne peuvent pas se rendre coupables. Ils n’ont
pas besoin de morale, non plus. Se rendre coupable n’est possible que dans un
groupe qui a besoin de morale, parce qu’il n’a pas reçu de la nature les règles
de comportement nécessaires.
F.J.R. : La
possibilité de se rendre coupable, cela veut dire aussi la possibilité de se
décider : pour le bien ou pour le mal. La possibilité de décision
n’appartient-elle donc pas à l’essence de l’homme ?
G.A. : Non pas
la possibilité de décision, mais la nécessité de devoir se décider, la
nécessité de devoir disposer d’une morale, dont les animaux n’ont
vraisemblablement pas besoin. Nous n’en savons rien. Nous ne pouvons pas
demander aux abeilles si elles ont également certaines règles et si on les met
à mort quand elles contreviennent aux règles. Il y a aussi bel et bien une
forme de mise à mort chez les fourmis et les abeilles. Je ne ferais pas de la
possibilité de se rendre coupable le signe de la supériorité…
F.J.R. : … ce
n’était pas non plus l’objet de ma question, il s’agissait de
« l’être-fait-autrement ». C’est à cela que je veux en venir. Que
l’homme est fait différemment, qu’il se distingue en cela de l’ortie, de la
méduse…
G.A. :
Probablement. Nous n’en savons rien. J’admettrais de dire que nous nous
distinguons par le fait que notre instinct est plus faible que chez les autres
êtres vivants, et que nous tentons après coup d’établir une règle au moyen
d’injonctions et d’interdits. Il est probable que ce n’est pas le cas chez les
chiens ou les renards. Mais cela ne signifie pas que nous soyons placés
au-dessus d’eux. Cela signifie par contre que nous avons malheureusement besoin
d’une morale. La capacité à faire la part du bien et du mal n’est pas une
distinction, mais un besoin absolu. L’épinard n’est pas moindre que nous parce
qu’il n’a pas cette faculté. Il serait bien stupide, lui qui ne peut être ni
bon ni mauvais, de faire une distinction qui n’aurait aucune signification pour
lui, puisqu’il n’en a absolument pas besoin. Nous, en revanche, nous avons
besoin de morale.
F.J.R. : De
morale — est-ce vous le maître ?
G.A. : Oui,
c’est moi.
F.J.R. : Quels
ont été les maîtres de ce maître ? C’est assez déconcertant, car plus on
vous lit, plus on voit apparaître de noms — que d’ailleurs vous finissez
généralement par rejeter —, mais on n’arrive pas à distinguer exactement
si vous avez réellement des maîtres ou si vos lectures vous ont simplement
entraîné au hasard, à travers l’histoire du monde.
G.A. : Mes
lectures, comparées à celles de certains érudits, ont été insuffisantes. J’en
ai convenu à maintes reprises, lire m’est bien plus difficile qu’écrire, et
entretenir des jardins qui ont été ensemencés par d’autres infiniment plus
pénible que de sarcler, de semer ou de moissonner dans mon propre jardin. Quels
ont été mes maîtres ? Du seul point de vue biographique, la réponse est
facile : ce furent d’abord mon père et Ernst Cassirer, puis il y eut
Edmund Husserl et Martin Heidegger ; avec Max Schleier, ce n’était déjà
plus un rapport maître-élève, nous avons beaucoup discuté, encore que ce ne fût
pas d’égal à égal, car j’étais beaucoup trop jeune pour cela. Comme d’ailleurs
tout au long de mes études, où je n’étais qu’un gamin. Je n’avais que vingt et
un ans, en 1923, lorsque j’ai passé ma thèse de doctorat avec Husserl. Un
travail dirigé contre lui, soit dit en passant.
F.J.R. : Vous
avez fait à plusieurs reprises des remarques sur Bloch, qui étaient des
critiques, voire des attaques contre lui. Pas seulement contre son Principe
Espérance, mais de façon plus générale à propos de son œuvre.
G.A. : Pas à
propos de l’œuvre, mais contre sa manie de l’espérance. Cela tient à la
situation nucléaire : il a refusé d’en prendre acte. J’ai essayé maintes
fois — il faut dire que nous étions intimes — de lui faire comprendre que la
disparition totale du monde était une éventualité incontestable, que la vraie
révolution, c’était une humanité capable de se détruire elle-même et qu’au
regard de cet énorme changement de situation, non seulement pour l’homme, mais aussi
pour toute vie, les distinctions que nous autres marxistes avions établies
entre les systèmes de domination, et même entre les classes sociales,
devenaient secondaires. Pour finir, j’avais dit que, compte tenu de ce
changement, il nous fallait réviser les fondements de notre philosophie, et
même de notre réflexion philosophique marxiste. Et là, il a toujours eu le même
geste de refus. Ma correspondance avec Eatherly, il la trouvait larmoyante et
inepte. Et cette attitude désespérément tournée vers l’espoir, lâche au fond,
m’a peu à peu profondément contrarié. De là les remarques critiques à son
encontre. Mais n’oubliez pas que je lui ai dédié un livre. Nous étions très
amis.
F.J.R. : Et avec
Adorno ou Horkheimer ? L’École de Francfort est un concept qui,
curieusement — pour autant que je puisse en juger en tout cas —,
n’apparaît jamais chez vous.
G.A. : C’est
qu’elle n’a eu chez moi aucun rôle de formation. Pensez qu’Adorno était
beaucoup plus jeune que moi. J’avais commencé bien avant lui, mais ses écrits
n’ont joué pour moi qu’un rôle minime. Il faut dire aussi que, après avoir
quitté Fribourg, je me suis d’abord trouvé à Berlin. Ensuite, je suis allé à
Paris, où j’ai d’avantage fréquenté des artistes.
F.J.R. : À
Paris, vous avez rencontré entre autres Walter Benjamin.
G.A. :
Benjamin n’est pas pour moi un élément du cercle Adorno. Benjamin était mon
arrière-cousin. Je le connaissais depuis que j’étais au monde. Je ne peux pas
dire qu’à Paris nous ayons fait de la philosophie ensemble. Car nous étions en
premier lieu des antifascistes, en deuxième lieu des antifascistes, en
troisième lieu des antifascistes et il se peut, en outre, que nous ayons
parlé philosophie. Vous vous faites une image un peu fausse de l’émigration, si
vous pensez que nous avions le temps de nous asseoir pour spéculer. Adorno et
Horkheimer, peut-être, avaient du temps pour cela, parce que leur existence
était assurée. Adorno et Horkheimer, c’est sûr, n’ont jamais éprouvé la misère
de l’émigration. Je ne peux pas me rappeler avoir « philosophé » avec
des écrivains allemands au temps de l’émigration.
F.J.R. : Peut-on
aller jusqu’à dire que, même plus tard, l’émigration, même l’émigration
américaine, fut pour vous une situation d’absence de dialogue,
essentiellement ?
G.A. : Absence
de dialogue philosophique ? Oui, j’accepterais cette expression. Pendant
l’émigration en Amérique, j’ai habité un temps dans la maison de Herbert
Marcuse à Santa Monica ; mais même Marcuse et moi, nous n’avons, à
proprement parler, pas « philosophé » ensemble. Je n’avais ma place
nulle part. Je n’étais plus heideggérien, et ce depuis bien des années, je ne
faisais pas partie du cercle d’Adorno et Horkheimer, je n’ai jamais été membre
de l’Institut de Francfort et je n’étais pas inscrit au Parti. À vrai dire, on
ne me prenait pas au sérieux : Brecht ne me prenait pas au sérieux, parce
que ma philosophie n’était pas assez marxiste ; et les universitaires non
plus, parce que je ne me contentais pas de philosopher en érudit sur la
philosophie des autres — ils ne me comprenaient pas quand je déclarais qu’un
astronome ne s’occupe pas en premier lieu des théories astronomiques d’autres
astronomes, mais des étoiles […].
F.J.R. : Et
Brecht ? Vous avez quand même publié ces conversations avec lui, qui, je
suppose, ne sont pas purement fictives — cela veut donc dire que vous l’avez
bien vu de temps à autre ?
G.A. :
Fictives ? De temps à autre ? Très souvent ! Cela avait commencé
à Berlin déjà. À Berlin, je lui rendais régulièrement visite et c’était une
situation des plus délicates. Car en fin de compte, je crois bien qu’il ne
pouvait pas me sentir. Pas seulement parce que je le comprenais mieux qu’il
n’aurait souhaité, mais aussi parce qu’il avait l’habitude de s’entourer de
gens dont il pouvait « obtenir quelque chose », qui lui étaient
utiles. L’utilité était le critère du choix de ses relations. Ce qui
signifiait : subordination. Et c’était une chose pour laquelle j’étais
désespérément peu doué. […]
F.J.R. : Peut-on
dire que beaucoup de vos travaux — je pense aux fables Der Blick vom Turm
(La vue du haut de la tour) — sont très proches du modèle d’écriture
brechtien ?
G.A. : Que
j’ai été influencé par Brecht, par exemple par les Histoires de Monsieur
Keuner, et aussi par son « mélange de sagesse et d’insolence »,
comme il a dit un jour, cela ne fait aucun doute. Il a sûrement été important
aussi pour ma réflexion philosophique, quoiqu’il ait été tout à fait inculte en
philosophie. À vrai dire, il ne connaissait que le marxisme. Hegel même,
seulement par ouï-dire. Peu après que nous ayons lié — comment dire cela :
connaissance est bien trop faible, amitié bien trop fort —, il avait fait
une espèce de remarque sur l’« idéalisme » de Hegel. Il se servait de
ces expressions stéréotypées sans complexes. Il ajouta que Hegel « n’entrait
absolument pas en ligne de compte » et qu’en lisant Marx à côté on voyait
bien « quelle force formidable » c’était.
Lorsque je vins chez lui la fois
suivante, je lui dis : « J’ai apporté un texte de Hegel et un texte
de Marx, que je vais vous lire ; je suivrai l’ordre chronologique,
c’est-à-dire que je commencerai par Hegel. » Mais je lus Marx. Il commença
à ironiser. Puis je lus Hegel en déclarant que le texte était de Marx. Cela lui
plut énormément. Vous savez, déjà à cette époque, alors qu’il avait tout juste
vingt-cinq ans, Brecht était habitué à être célébré, porté aux nues. Même les
hommes le traitaient comme l’auraient fait les femmes. Ce que j’avais fait là
était une insolence à laquelle il n’avait encore jamais été confronté (et qui
pourtant était assez brechtienne). Lorsque je lui avouai la supercherie, il me
mit à la porte. Par la suite nous nous sommes réconciliés. Je suppose qu’il a
pris conscience de l’intention didactique qui était derrière ce tour de
passe-passe. Il était extraordinairement ouvert aux plaisanteries, en faisait
lui-même énormément, et cette astuce pour « l’avoir au tournant » a
dû lui plaire en secret, finalement. […]
F.J.R. : Votre
philosophie, qu’est-ce-que c’est ? Il y a votre mot de « philosophie
du décalage » (Diskrepanzphilosophie).
G.A. : C’est
la réponse que j’avais faite à quelqu’un qui me demandais un jour comment
j’intitulais ma philosophie. Je lui avais répondu : au centre de mon
anthropologie philosophique se trouve vraisemblablement le fait déterminant de
la non-synchronisation des capacités humaines, et même de leur décalage.
Le fait que nous pouvons d’avantage produire que représenter. C’est de
là que viendra éventuellement la catastrophe. Si l’on veut donc absolument
trouver un nom à ma réflexion philosophique, il faut le faire par rapport à ce
décalage entre production et représentation, appelons-la donc
« philosophie du décalage ». Cela semblait d’autant plus approprié
qu’il existe une fameuse « philosophie de l’identité », celle de Schelling.
Alors, « philosophie du décalage », cela fait un joli pendant.
F.J.R. :
Naturellement, personne ne saura avec ces quelques phrases ce qu’est au juste
la « philosophie du décalage ».
G.A. : On ne
le sait pas d’avantage avec la « philosophie de l’identité ». Est-ce
l’homme qui est identique à Dieu ou bien est-ce le corps qui est identique à
l’âme ? Et « l’idéalisme transcendantal » non plus, on ne sait
pas ce que c’est.
F.J.R. : Mais
vous devez me l’expliquer, et l’expliquer à nos lecteurs.
G.A. : Un
titre est un panneau indicateur, pas un descriptif. Le panneau indicateur n’est
pas tenu de représenter toute l’auberge dont il montre la direction. Peu
importe. Ce qui se répète dans tout ce que j’ai écrit, c’est que le décalage
qui définit l’homme actuel — et pas seulement actuel, disons
plutôt : qui est la destinée de l’homme, ce décalage n’est plus
identique à ceux qui passaient jusqu’ici pour déterminants. Le décalage entre
chair et esprit, entre désir et devoir, aujourd’hui, nous pouvons nous en
moquer. Ce qui compte aujourd’hui, c’est plutôt le décalage entre ce que nous
sommes capables de faire et ce que nous sommes capables de représenter.
C’est uniquement parce que nous sommes incapables de représenter nos produits
et leurs effets, que rien ne nous retient de fabriquer des bombes atomiques.
Mais ce que je pense, c’est que nous sommes devenus des « utopistes
inversés » : alors qu’eux étaient capables de représenter bien plus
qu’ils ne pouvaient produire, nous pouvons malheureusement nous représenter infiniment
moins que nous pouvons produire. C’est seulement parce que ce décalage sera
cause de notre disparition — au fond, la raison n’est pas si mince — que j’ai
donné ce nom à ma philosophie.
À cela s’ajoute un deuxième
décalage, apparenté de très près, il est vrai, au premier : le décalage
entre ce que nous appelions autrefois « notre activité »,
« notre faire », et ce que nous « faisons » aujourd’hui
réellement. En réalité, nous ne « faisons » effectivement plus rien,
au sens de « agir » ou « produire ». Nous nous contentons
au contraire (pour autant que nous en soyons les acteurs) de simples actes
de déclenchement, entraînant des résultats que non seulement nous ne
pouvons pas nous figurer, mais que même nous ne pouvons plus identifier.
Le décalage entre déclenchement et effet est un phénomène absolument nouveau,
absolument catastrophique. On ne peut même plus le décrire par des mots tels
que « aliénation » ou « distanciation », car ces termes
supposent que l’on confère après coup de la distance à quelque chose
qui, auparavant, nous était familier. Mais ce n’est pas du tout cela qui est en
cause. L’ouvrier ou l’homme politique d’aujourd’hui ne fait pas tout à coup, de
quelque chose qui était familier auparavant, quelque chose d’étrange, il se
trouve au contraire d’emblée dans un état d’étrangeté face au résultat de son
activité, puisqu’il ne pense absolument pas au résultat qu’il va obtenir.
Quand vous travaillez sur une
machine comme j’ai travaillé sur une machine, ce qui en sort ne vous est pas
seulement parfaitement égal, vous ne l’avez jamais sous les yeux comme eidos,
pour le dire en grec, et cela n’aurait d’ailleurs aucun sens d’avoir l’eidos
sous les yeux. On travaille donc sans telos [sans but] et sans eidos
[sans idée]. Le décalage entre le producteur et le produit est total. C’est
ce décalage qui représente la véritable révolution de notre époque. La
véritable, car elle est parfaitement indépendante du modèle économique
et se fait, s’est faite, à l’Ouest comme à l’Est.
F.J.R. : Sauf
dans les deux « résultats » spectaculaires de l’histoire, qui ont
chez vous continuellement la vedette, je veux dire Auschwitz et Hiroshima. Là,
on voit parfaitement le résultat du faire. Et en dépit de l’éloignement par
rapport au produit, que vous avez défini, ces produits sont pourtant bien
fabriqués : il faut bien que l’un mélange le gaz, que l’autre construise
la bombe. Il y a bien un scientifique pour la concevoir, un technicien pour la monter,
et pour finir, un pilote pour la larguer. Pensez-vous pouvoir jamais
interrompre cet enchaînement de cause à effet ?
G.A. :
Probablement pas. Mais je crois malgré tout que nous n’avons pas d’autre devoir
que d’attirer au moins l’attention des gens sur le fait qu’ils mènent leurs
activités sans telos, mais qu’il en ressort finalement un telos
qu’ils n’avaient pas voulu, c’est-à-dire la disparition de l’univers.
F.J.R. : Est-ce,
entre autres, la raison pour laquelle, dans la préface de Mensch ohne Welt
(L’homme sans monde), vous vous prononcez, de façon réellement déconcertante,
contre le pluralisme ?
G.A. : Vous
passez là hardiment à un autre champ d’interrogations. Pour répondre à votre
question : j’ai toujours été déconcerté d’être le seul qui fût déconcerté
par le pluralisme. C’est réellement un état déroutant que de devoir participer à
tout, tout respecter de façon égale, mais sans y croire.
C’est une situation absurde. Cela n’a jamais existé, hormis dans la culture
alexandrine. À mon avis, c’est le résultat de la commercialisation du monde —
un élargissement du concept de tolérance que les fondateurs de l’idéal de
tolérance ne pouvaient certainement pas prévoir.
F.J.R. : Mais
Günther Anders, pardonnez-moi, voilà quelque chose qui devient très délicat. Je
connais votre thèse, qui dit que le droit à l’égalité fondamentale de notre
époque est celui de la production de marchandises. J’y opposerai un grand
« mais » : vous comme moi, et bien d’autres encore. Nous vivons
aussi de ce concept de tolérance, disons, élargi. Nous sommes à beaucoup
d’autres aussi insupportables que beaucoup d’autres nous sont insupportables.
Qui va décider comment il faudrait délimiter le pluralisme, circonscrire la
tolérance ? C’est plutôt délicat.
G.A. : En
effet, aborder ce problème est extraordinairement délicat. Je n’ai pas proposé
que nous abandonnions le pluralisme pour nous saisir brusquement d’une religion
ou d’un dogme déterminé — ce qui serait revenir à une intolérance déterminée.
F.J.R. : Je lis
une phrase extraite de Mensch ohne Welt : « Mais
manifestement, le pluralisme, par nature, non seulement ne souffre pas de ne
plus vivre dans un monde déterminé, mais encore ne sent même plus combien la
vérité lui est devenue indifférente. » C’est un peu fort.
G.A. : Cela
vaut déjà pour Nathan. Et plus que jamais pour aujourd’hui. Vous ne connaissez
pas le concept de tolérance extrême développé par la « troisième école de
psychanalyse » dont on doit l’existence — une existence quelque peu
ridicule — à Viktor Frankl ? On y affirme qu’il est parfaitement
indifférent quel idéal quelqu’un peut avoir. Tant qu’il en a un, quel
qu’il soit, sa vie a un sens (pour autant que ce mot ait ici un sens
quelconque). Et ce quelqu’un devrait alors rester en bonne santé, voire guérir.
La vérité n’est donc pas décisive. Seulement la sincérité. Non, même pas cela,
encore. Mais simplement l’effet thérapeutique d’une prise de position.
Cette thèse, qui veut que la force d’une croyance rende vrai son objet, est
insupportable.
F.J.R. : Je vous
l’accorde. Car cela voudrait dire en effet que tous les nazis qui ont cru
sincèrement au national-socialisme ont cru à quelque chose de vrai. Mais où
tracer la frontière ? Vous dites à un autre endroit que l’on peut poser la
question : est-ce que la tolérance est antidémocratique, ou n’est-elle pas
même un manque de culture ? Bon, encore cette seconde hypothèse ne nous
empêcherait-elle pas de vivre. Je trouve par contre que c’est l’intolérance qui
est un manque de démocratie. Et on y vient vite. Si vous refusez le pluralisme as
such, où se situe votre concept de la tolérance, que vous réclamez pourtant
pour vous-même, lorsque vous demandez que l’on tolère votre « moi ».
Qui va déterminer cela ?
G.A. : Pour
répondre à cette question, il faudrait tout un traité sur le rapport entre
« Morale et Vérité ». Je ne peux pas vous le produire en un
tournemain. Mais dans mon introduction à Mensch ohne Welt, j’ai pris
clairement mes distances à l’égard de ceux qui, par scepticisme vis-à-vis du
pluralisme, décident, comme c’est maintenant la mode, de se cantonner à un
dogme intégriste quelconque, peu importe lequel, d’y adhérer ou d’y revenir, et
qui attendent des autres la même conversion. Le refus que je préconise, d’un
polythéisme sans aucun engagement, se réduit-il donc nécessairement à approuver
en renégat un quelconque « monothéisme » ? Ne peut-on mettre en
cause la légitimité d’une situation que si l’on est capable de définir sans
ambiguïté la situation qui devrait prévaloir à sa place ? Est-ce que ce ne
serait pas la mort de toute critique ?
Il me semble que ma présentation
de Kultur als Inbegriff des Unverbindlichen (La civilisation comme
incarnation du non-engagement) garde son importance, même si je n’ai aucun
engagement à formuler solennellement. En tout cas, je n’ai pas fait comme
nombre de mes contemporains, qui adhèrent tout à coup à quelque intégrisme,
qu’il soit islamique ou juif, ou qui, pour appartenir au moins à quelque chose,
se font disciples de Baghwan. Ce n’est pas là ce que je propose. Tout cela, ce
ne sont que des expédients. Mais le fait que je n’ai pas de solution ne m’ôte
ni la possibilité ni le devoir de critiquer l’absurdité d’une culture qui est
devenue commerciale, et que l’on a voulue telle.
F.J.R. : Vous
affirmez aujourd’hui avec force : je ne suis pas intégriste, je ne le suis
pas devenu et ne l’ai, à l’évidence, jamais été. On est pourtant frappé de voir
comme vous vous êtes inlassablement occupé — je choisis pour l’instant une
formule très brève — de Dieu, vous pouvez employer aussi le terme de
religiosité. Vous cernez le problème dans presque tous vos livres.
G.A. : Ça, je
peux vous l’expliquer. D’une manière qui me demeure impénétrable et suspecte,
j’exerce sur les êtres religieux une certaine attraction. Manifestement,
lorsque je parle d’Auschwitz ou d’Hiroshima, ma langue se charge d’une ferveur
qui, sans en avoir l’onction, a certainement quelque chose d’un prêche, et qui
est mal comprise. Un ecclésiastique protestant connu, décédé depuis, m’a lancé
un jour : « Naturellement — ne me dites pas le contraire — vous êtes
un homo religiosus ! » Ce que naturellement je ne suis pas ;
je suis au mieux un honnête homme. Si je reprends sans relâche des
« thèmes religieux », c’est pour combattre sans relâche les procès
d’intention religieux. Les baquets d’eau froide qui sont à côté de ma table de
travail ne témoignent certainement pas de mon « ardeur religieuse ».
F.J.R. : Mais ce
n’est pas la réponse à ma question ; vous me faites une réponse tactique.
Je voulais une réponse sur le fond. Je voulais vous entendre dire dans quelle
mesure ces choses vous engagent à y réfléchir un peu plus avant, plutôt que de
les rejeter ou de les balayer d’un revers de la main, comme on peut le faire
pour y répondre. Il y a aussi, ce qui est bizarre de votre part, encore que
vous l’ayez toujours contesté, cette expression d’« antéchrist de
profession » ou quelque chose du genre.
G.A. : Athée
professionnel. Le Christ n’est jamais mentionné, ou sinon, seulement sous le
nom de Jésus.
F.J.R. : Mais
Dieu est mentionné, et même assez souvent. C’est sur ce point que je vous
interroge. Vous avez un jour essayé de vous définir vous-même à l’aide de
nombreuses questions et négations : au fond, je suis un écrivain allemand,
mais non, je ne suis pas un écrivain allemand, car j’ai vécu ici et là. Suis-je
un écrivain juif ? Oui, c’est vrai, je suis juif, mais je ne suis pas un
écrivain juif, et ainsi de suite.
G.A. : Ce
n’est pas de ma faute si je suis devenu indéfinissable. C’est parce que
l’histoire m’a rejeté hors de toutes frontières que je suis justement
indéfinissable, que je vis justement sans fines, sans frontières
définies.
F.J.R. : N’y
aurait-il pas derrière vos plaintes sur l’infamie et le caractère criminel de
l’histoire une sorte de requête ? Vous dites très souvent : comment
pouvez-vous donc parler d’un Dieu, avoir l’idée d’en rêver, ou même de croire
en lui ? En un Dieu qui permet Auschwitz et Hiroshima. Derrière cette
question, derrière cette plainte, on entend bien aussi la requête il faudrait
pourtant qu’il existe. Non ?
G.A. : Non.
« Re-quête » est un joli jeu de mots, mais je ne vous accorderais pas
que je suis en quête de quelque chose. Ma plainte, c’est que les hommes
soient assez aveugles pour croire encore, après Auschwitz et Hiroshima. Je n’ai
rien à attendre du monde. Je ne peux pas attendre qu’on se conduise de façon
morale. Mais je n’accepte pas que le monde soit comme il est, et j’essaie de
contribuer à éviter le plus effroyable.
F.J.R. : Vous
avez dit un jour : « Je hais la haine », et dans un autre livre,
vous avez consacré tout un passage à dire combien il est déplorable que l’on
vous ait appris la haine. Il y a au fond derrière cela un grand amour, ou un
besoin d’amour, ou bien encore une lamentation sur cette potentialité détruite
à savoir aimer les hommes, le monde, le cours des choses.
G.A. : Là,
vous avez peut-être raison. Et je n’ai pas aimé seulement tel ou tel être
humain. Et pas seulement des êtres humains. Car il n’est pas un arbre que je
n’aimerais appeler par son prénom ; et pas un animal, auquel je ne donne
aussitôt un nom câlin. D’ailleurs, à chaque fois, on n’aime pas seulement
« l’objet » de son amour, on aime aussi aimer.
F.J.R. :
J’espère que ce n’est pas une question saugrenue : votre affinité avec
Beckett vient-elle de là ? De ce qu’il montre l’impossibilité du
nihilisme ?
G.A. : Si je
me souviens encore bien de En attendant Godot, c’est ce qu’il fait,
effectivement. Car ses « héros » continuent à attendre la venue de
Godot en dépit du fait que lui, faute d’exister, ne songe pas le moins du monde
à réaliser leur rêve. Eux, qui attendent, sont donc incapables de vivre dans le
nihilisme, incapables de ne pas espérer. Mais Beckett ne s’identifie pas
avec ces personnages, ses personnages ; il ne tient pas pour vertu,
et pas davantage pour preuve de l’existence de Godot, leur incapacité à ne
pas attendre, donc à ne pas espérer. Comme je vois, tout comme lui,
un manque dans cette incapacité — vous connaissez bien ma position par
rapport à la manie d’espérance de Bloch, pour moi espérance est tout simplement
synonyme de lâcheté — l’affinité entre Beckett et moi est effectivement
incontestable.
F.J.R. :
Est-ce-que cela n’est pas en contradiction avec votre affirmation que
l’engagement est inhérent et essentiel à l’œuvre d’art ? Beckett n’est
vraiment pas un écrivain engagé.
G.A. : Je ne
choisirais pas une formule aussi catégorique. Je dirais qu’il n’y a rien de
plus ridicule que l’idéal du non-engagement, et que cet idéal ridicule ne
prévaut que dans le domaine de l’art. Aucun pasteur ne comprendrait qu’on dise
de lui qu’il n’a pas d’engagement ou qu’il ne prend pas son engagement au
sérieux. Aucun boulanger ne vous comprendrait si vous lui faisiez ce
reproche : « Vous êtes un boulanger engagé, puisque vous faites vos
petits pains pour nourrir les hommes et pour vous engraisser en
nous rassasiant. » Il n’y a effectivement que l’art pour avoir rendu ainsi
l’engagement ridicule.
F.J.R. : Pour
vous, l’art a donc une fonction dans ce qui se passe au sein de la
société ?
G.A. : Can’t help having it. [Je ne peux pas empêcher qu’elle
en ait une.]
F.J.R. : Dans le
même temps, vous ne cessez de paraphraser la formule d’Adorno selon laquelle,
après Auschwitz, on ne peut plus écrire de poèmes, dans le sens : on ne
« devrait » plus écrire de poèmes. Mais alors, si l’art est une
valeur sociale, il n’a évidemment pas le droit de s’arrêter après Auschwitz. Je
trouve cette formule d’Adorno totalement erronée.
G.A. : Moi
pas. Je crois que le prétendu sérieux de l’art, au regard du sérieux de ce qui
s’est passé, et de ce qui menace, n’est que frivolité. Il est des événements
d’une telle importance que l’art ne peut y atteindre. Rien de plus inconvenant
que la composition de Schönberg Un survivant de Varsovie ; et cela
vaut malheureusement aussi pour le Sul ponte di Hiroshima que Nono a
tiré de mon livre Der Mann auf der Brücke (L’homme sur le pont). Dans
les deux cas, on fait de l’horreur de ce qui est arrivé, et de ce qui peut
encore nous atteindre, un sujet de jouissance. Ce n’est pas sérieux. Adorno ne
dit pas on ne doit pas, mais on ne peut pas.
F.J.R. :
Vous-même, vous faites des poèmes.
G.A. : Je n’ai
jamais fait de poème sur Hiroshima.
F.J.R. : Adorno
n’a pas dit non plus : plus de poème sur Auschwitz. Il a dit : plus
de poème après Auschwitz.
G.A. : Je ne
crois pas en avoir fait un seul après. Ma muse, même si ce ne fut pas
instantané, est morte d’effroi. Depuis que je suis revenu en Europe, quasiment
aucun poème n’a vu le jour.
F.J.R. : Mais
vous ne pouvez pas vous en tirer comme ça, Günther Anders ! Vos fables
aussi sont des poèmes. Ne vous accrochez pas au seul mot de
« poème ». Vous venez vous-même de citer les travaux de Schönberg ou
de Nono, comme autre forme d’art possible. Avec le mot « poème »,
Adorno ne pense pas au poème, mais à l’art.
G.A. : Je
n’ai, je crois bien, écrit aucune fable à propos d’Hiroshima.
F.J.R. : Nous ne
disons pas à propos de. Nous disons après Auschwitz. Il met une
date. Il a dit : après qu’il est arrivé quelque chose d’aussi effroyable,
l’art devient du batifolage. C’est ce que dit la phrase. Et je la trouve
stupide ; car naturellement, la Todesfuge de Celan est un poème
important.
G.A. : Non, je
ne le crois pas du tout. Je crois plutôt qu’on a voulu nous en persuader. Son
poème a servi d’alibi aux Allemands, c’était un moyen de « surmonter »
et d’« admettre » Auschwitz sous la forme d’une poésie
d’avant-garde. Cette Todesfuge reproduite à des milliers
d’exemplaires n’a jamais été comprise de quiconque. Même pas de Celan lui-même.
Jamais ce poème n’a eu un « effet », jamais il n’a réellement
déclenché angoisse et terreur. On ne peut pas le réciter. Et si on le récite quand
même, il devient un objet décoratif proprement scandaleux. En cela, Adorno
avait donc raison. Ce qu’il voulait dire, c’était : le sérieux de l’art
prétendument « sérieux » est, en comparaison du sérieux de la
situation dans laquelle nous sommes, c’est-à-dire une situation non seulement
d’après catastrophe, mais aussi une situation de catastrophes finales à
venir selon toute vraisemblance, ce sérieux, donc, est un sérieux frivole,
un sérieux à ne pas prendre au sérieux.
F.J.R. : Donc,
vous voulez un monde sans art ?
G.A. : C’est
une mauvaise conclusion. Je parle en ce moment de morale et non d’art. Je dis
que la notion de sérieux, appliquée à l’art, comparativement au sérieux de
notre situation, n’est pas une notion à prendre au sérieux. Je n’ai rien dit
sur le fait que l’art est fini ou devrait être fini ; dans le temps qui
nous est éventuellement encore imparti, la question art ou non, et même :
philosophie ou non, n’est sans doute pas pertinente. Vous voyez : je ne
fais pas que jouer avec la pensée de la fin. Comme notre sort repose entre les
mains de gens terriblement peu sérieux, je prends le danger terriblement au
sérieux.
F.J.R. :
Vraiment, vous êtes parfaitement convaincu qu’un fou quelconque déclenchera la
bombe ?
G.A. : Oui.
Mais pas un fou. Un borné. Quelqu’un qui est trop borné pour se
représenter ce qu’il pourrait faire, c’est-à-dire se représenter la puissance
de destruction illimitée qu’il détient. Aujourd’hui, celui qui doit passer
pour « borné » n’est pas celui dont la pensée, mais dont le pouvoir
d’imagination est limité.
Lorsqu’un homme comme Reagan — pour plaisanter, à
ce qu’il dit — annonce : « Il y a cinq minutes, j’ai lancé l’ordre
d’attaque nucléaire », il est justement tellement peu sérieux et tellement
limité que nous nous devons de le prendre terriblement au sérieux.
À cela s’ajoute — et nous en revenons ainsi au
début de notre conversation — que ce que vous appelez « folie », ou
« déclenchement de la bombe » ne sera entravé par aucun mécanisme
d’inhibition ; et cela pour la bonne raison qu’il ne s’agira plus du
tout d’un « faire » réel, d’une action, mais d’un simple
« déclenchement », qui n’aura aucune idée de l’effet final produit.
Le dernier « provocateur » sera probablement un ordinateur assisté
par ordinateur. Pour déclencher une folie, il n’est pas besoin de fous au
sens médical du terme. Plus une chose peut arriver de manière indirecte plus
elle peut arriver facilement, plus il est probable qu’elle arrivera. Pour aussi
paradoxal que cela puisse paraître : la médiatisation facilite
l’événement. Même l’anéantissement d’Hiroshima, il y a quarante ans, était
déjà plus facile et a pu avoir lieu avec « moins d’encombres » que
l’assassinat d’un seul individu.
F.J.R. : Ce que
vous dites là fait naturellement froid dans le dos et ne donne pas envie
d’aller se distraire ensuite. En même temps, je me demande — non, je vous
demande : contre quoi voulez-vous encore mettre en garde si vous êtes
persuadé que la catastrophe aura lieu ? Ce n’est même plus la peine pour
vous de nous mettre en garde.
G.A. : Faux.
J’ai parlé à plusieurs reprises — même au début de cet interview je crois — de
la nécessité actuelle de la schizophrénie. Je veux dire par là que lorsque nous
agissons, nous ne devons absolument pas nous laisser influencer par le
désespoir de nos convictions. Mes Thèses sur le siècle de l’atome,
dictées aux étudiants de Berlin en 1959 après mon retour d’Hiroshima, se
terminaient déjà ainsi : « Et si je suis désespéré, que
voulez-vous que j’y fasse ? » Ce n’est pas un « principe
espérance ».
Tout au plus un « principe bravade ».
13 février 2012
*Mis en circulation au début d’Avril 2020 sur La Voie du Jaguar – informations
et correspondance pour l’autonomie individuelle et collective.