Ho tradotto
e propongo ai confinati odierni questo testo (unito ad altri scambi sul tema tra
alcuni emigrati politici celebri) pensato e scritto da un “confinato” negli
Stati uniti mentre infuriava la seconda guerra mondiale, perché mi pare che l’insieme
sfiori delle questioni attuali nella situazione, anch’essa sconvolgente, che
stiamo vivendo quando imperversa la mondializzazione più riuscita: la pandemia
del coronavirus. Ciascuno coglierà, o no, i punti comuni, aldilà delle
differenze.
Anders, in
particolare, mi pare anticipare già qui (e poi in Obsolescenza dell’umano, opera marcata dalla tragedia di Hiroshima)
una riflessione radicale che si è più tardi diffusa e precisata.
Se, infatti,
nel 1967, Debord poteva notare lucidamente che “nel mondo realmente rovesciato il vero è un momento del falso” (La Società dello spettacolo), Anders
scriveva già nel 1956 che “quando il
fantasma diventa realtà, il reale diventa fantomatico [...] la menzogna si
realizza come verità, in breve: il reale diventa rappresentazione delle sue
rappresentazioni ...” (Obsolescenza
dell’umano).
Non c’è
dubbio che la riflessione di Anders e la radicalità situazionista che ha
attraversato il maggio 68 e dintorni come una poesia incompiuta, abbiano dei
punti in comune oltre le diversità e costituiscano un prezioso utensile critico
anche nel nostro presente.
Tuttavia, la
coscienza di classe che attraversa le riflessioni qui esposte (ma anche quelle
euforiche del clima del Maggio per antonomasia) è stata ormai fagocitata dal
movimento reificante della merce e dal suo feticismo consumista. Ne stiamo già
pagando le conseguenze. Penso, però, che la coscienza, anziché infelice, possa
e debba farsi coscienza di specie per
salvare l’umano dalla merce che lo domina ormai come il peggiore dei virus.
Sergio Ghirardi
Tesi
sulla teoria dei bisogni
Di Günther Anders
Seguite da una
discussione tra Theodor W. Adorno, Günther
Anders, Bertolt Brecht, Hanns Eisler, Max Horkheimer, Herbert Marcuse, Hans
Reichenbach, Berthold Viertel.
[Nota del
traduttore in francese da cui ho tratto la traduzione in italiano]:
Questa discussione ha avuto luogo il 25 agosto 1942,
probabilmente al domicilio di Theodor Adorno, negli Stati Uniti, e riuniva un
cerchio di assidui frequentatori di Horkheimer e Adorno. Numerose discussioni
di questo genere sono conservate e pubblicate nell’ambito del dodicesimo volume
dei Gesammelte Schriften (Opere complete) de Max Horkheimer,
Fischer Verlag, 1985, e questa figura alle pagg. 579/586. Si tratta, tuttavia,
di uno dei rari casi in cui si vede apparire Günther Anders, in questo caso
autore delle Tesi oggetto della discussione. Come Anders ricorda altrove
(vedere l’intervista che ho tradotto di recente per Barravento, NdT italiano), che
benché familiare di Herbert Marcuse, presso il quale abitava provvisoriamente,
e di Bertolt Brecht, di cui è stato il segretario particolare[1], egli
non apparteneva al cerchio ristretto di queste discussioni e non vi godeva di
una considerazione particolare. Sono precisati tra parentesi i termini tedeschi
la cui traduzione in francese sembrava particolarmente suscettibile di condurre
a controversia. JPB
California, early 40s |
Günther Anders
Tesi sui bisogni, la cultura, il
bisogno di cultura, i valori culturali, i valori.
(Thesen über
« Bedürfnisse », « Kultur », « Kulturbedürfnis »,
« Kulturwerte », « Werte »)
Obiettivo: chiarire la
questione emersa nel corso delle
discussioni: “Tutti i bisogni
portanti su valori culturali o morali elevati sono da considerare come artificiali”?
1. Il carattere artificiale
è proprio della natura umana. In altri termini, la domanda manifestata
dall’uomo supera ab ovo l’offerta contenuta nel mondo. Da questo fatto,
l’uomo è costretto a produrre egli stesso un mondo capace di soddisfare i suoi
bisogni. La produzione di questo mondo e di questa società, cioè questo divenire
culturale (Kultivierung),
non si riassume in un dominio riservato, la “cultura”, ma ha per oggetto il
mondo e la società umana tutti interi.
2. Il carattere artificiale dell’uomo è ancora
accentuato dal fatto che quest’ultimo diventa il prodotto dei propri prodotti. Poiché,
specialmente in un sistema economico che non si allinea sui bisogni degli
uomini ma su quelli del mercato, l’uomo non è in grado di tenere testa alle esigenze
dei propri prodotti, prende corpo una differenza, una “discrepanza” (Gefälle) tra l’uomo e il prodotto.
Inoltre, per soddisfare i suoi stessi bisogni, l’economia deve produrre dei
bisogni nell’uomo: siffatti “bisogni nati nel vassallaggio” sono certamente
artificiali, ma non meritano in alcun caso di essere considerati come
altrettanti bisogni culturali anche se l’economia si sforza di farli passare
per tali.
3. Il divenire culturale del mondo e della società si
trasforma in dominio specifico chiamato “cultura” tramite i processi seguenti:
1) la direzione del divenire culturale del mondo resta sempre in mano alla
classe dominante ed è monopolio dei gruppi sociali più elevati. Il dominio
monopolistico dei gruppi sociali elevati diventa un dominio “elevato” (per
esempio il potere del clero in Israele). 2) Laddove le forme di dominio, di
organizzazione e di cultura (A e B) entrano in collisione sotto l’egida di un
terzo dominio (C), quest’ultimo interdirà loro di affrontarsi per davvero:
ormai A e B devono rispettarsi reciprocamente, senza potere, però, convertire
l’altro: l’uno diventa un “valore culturale” per l’altro. Per Filone, che era
un ebreo ortodosso, le rappresentazioni animali egizie erano “di valore” a
dispetto della sua ripugnanza per tutte le rappresentazioni tramite immagine,
perché tanto la religione egiziana che quella ebrea coesistevano in seno al
mondo ellenistico alessandrino. Così, un
“valore culturale non è che un potere neutralizzato. Questo concetto di
cultura è il concetto moderno. La nostra cultura comincia, infatti, con la fine
delle guerre di religione: la Somma
teologica di Tommaso d’Aquino è diventata un valore culturale anche per i
Protestanti.
4. Una volta sottratto alla lotta quotidiana, una
volta neutralizzato, ogni fenomeno assomiglia a “un’opera d’arte”. Ci si mette
a godere di quello che non si ha più il diritto di combattere.
5. L’atteggiamento che si adotta di fronte al mondo
“neutralizzato” della cultura si chiama “essere colti” (die Bildung).
6. La neutralizzazione del dominio culturale, prodotta
dalla pacificazione delle religioni e dallo spirito di tolleranza, è poi
completata dal carattere mercantile proprio del capitalismo. Tuttavia, di
fronte al mondo della cultura servito su un vassoio dalla merce, non è più
possibile essere “colti”. Il “bisogno di cultura” è esso stesso prodotto e non
si differenzia affatto da una qualunque altra sete di merci prodotta dal
capitalismo – Il termine di “valore” che fa parte dell’espressione “valore
culturale”, non ha più niente a che vedere con il fatto di accordare del valore
(Wertschätzung), che era stato all’origine dei valori culturali, ma non
designa più che un semplice valore di mercato.
7. Il “valore” nel senso della filosofia dei valori,
non è anch’esso che una categoria illusoriamente sublimata (verblümte).
Questo “valore” è generalmente uno scopo
sublimato (l’obiettivo del dominante, formulato a uso dei dominati) o una proprietà sublimata (proprietà del
dominante, formulata a uso dei dominati). Chi presenta uno scopo come un
“valore universale” non fa che dissimulare il suo interesse particolare. Quest’operazione
(“il potere che rende anonimo se stesso”) è particolarmente manifesta nel
concetto di dovere (des Sollens), che si presenta come un comandamento
senza comandante. Fino a Nietzsche, nessuno aveva fatto luce sulla mostruosità
di un comandamento senza comandante.
8. La questione da cui siamo partiti non può dunque
trovare una risposta semplice, come “sì” o “no”, perché è costituita da una
parte all’altra da categorie evanescenti, che si diluiscono nelle nostre mani.
Quel che è decisivo è: sotto l’effetto del monopolio del potere, il processo del divenire culturale si è
trasformato in un settore a parte; in
origine, l’azione che tende a rendere culturale riguarda l’insieme della vita
sociale, non una specifica religione, specifici “valori”. La celebre consegna
di una pint milk[2],
se essa fosse veramente cercata o realmente eseguita, sarebbe il compimento culturale
più autentico. Quel che per me non è né una metafora né un paradosso.
DISCUSSIONE
Reichenbach: Anders ha utilizzato il concetto di valori culturali
in modo da includervi le categorie positive e negative ma ci si può riferire ai
valori culturali esclusivamente in un senso positivo e non si può, allora,
trattarli come mobili vecchi. Bisogna allora ricorrere alla critica culturale (Kulturkritik).
Anders: Il concetto di cultura non esisteva nell’Antichità e
nemmeno nel Medio Evo.
Reichenbach: Non esisteva forse il concetto, ma
c’era la cosa.
Anders: Nella filosofia greca, la
discussione estetica non si riferisce mai all’arte, ma alla bellezza di un
corpo o a quella di una tecnica. Per Platone la musica fa parte della politica.
Reichenbach: Credo che lei confonda estetica e
arte.
Marcuse: La funzione degli oggetti
artistici nell’Antichità era talmente e totalmente differente da oggi che la si
può appena includere nell’arte.
Reichenbach: Tuttavia, quel che Lei designa
oggi come arte può essere pensato in modo da includervi anche la pratica che ne
avevano i Greci.
Marcuse: Una prima di Eschilo non era un
prodotto artistico, si veniva letteralmente aspirati.
Horkheimer: Credo che Reichenbach abbia visto
qualcosa di decisivo quando dice che non è soltanto determinante quel che i
Greci pensavano a proposito della loro produzione artistica, ma che per farne
la teoria dobbiamo anche tener conto di quel che significavano una stele o una
tragedia. È altrettanto falso dire che si devono mantenere in vigore soltanto i
nostri concetti artistici moderni che lo sarebbe affermare che solo lo spirito
greco si era mostrato decisivo in materia.
Adorno: Credo che le categorie
fondamentali che conducono al concetto di arte autonoma fossero già largamente
preformate nell’Antichità. Sarei incline a credere che la tragedia greca ad
Atene non fosse più integrata in modo così diretto al mondo religioso come ha
voluto farcelo credere Wilamowitz-Moellendorff. L’opera d’arte relativamente
autonoma e compiuta è già esistita nei periodi più decisivi dell’Antichità.
Marcuse: Se si segue questo cammino, si
perde di vista che l’arte greca non ha giustamente conosciuto il momento della
cultura.
Brecht: Trovo molto utile la divisione dei
concetti di cultura e arte.
Marcuse: L’arte non deve necessariamente
figurare tra i valori culturali.
Anders: Credete che in Nuova Guinea ci sia
dell’arte e della cultura? Per deciderlo non c’è bisogno di prendere in
considerazione l’insieme della vita sociale del posto. Non si può, però,
affrontare il problema con le nostre categorie proprie.
Reichenbach: Persisto a credere che si possa
benissimo fare dei paragoni tra la cultura in Nuova Guinea e la nostra.
Anders: ma tra quei popoli non c’è nemmeno
una parola per designare la cultura e quel che non può essere designato con una
parola, non esiste.
Adorno: Il modo di unificazione quale si
presenta attraverso il concetto di cultura mira a un’unificazione della società
a cominciare dai suoi obiettivi sociali. Non si è inventata la cultura che dal
momento in cui fu questione di un aumento della barbarie.
Horkheimer: Il concetto di libertà, quale si
presenta in Anders, mi sembra un po’ problematico. Dopotutto, gli uomini non si
sono creati una forma di società, ma si sono stabiliti sotto la pressione della
situazione esteriore. Ciò vale fino a oggi, fino al capitalismo monopolistico.
Anders: A differenza dell’animale che non
cessa di produrre, sempre e di nuovo, dei prodotti stereotipati e uno stile di
vita immutato, l’uomo crea diversi generi di mondo. Ha almeno dalla sua una
libertà passiva.
Horkheimer: Relativamente alla terza parte del
testo pronunciato da Anders, vorrei sollevare un’obiezione storica: Lei dice
che Nietzsche, Stirner e Marx avrebbero rimesso in questione il dovere (das
Sollen), io vorrei dire che è l’insieme della cultura borghese che lo ha
fatto. Alla base di questa cultura si trova il sapere che non esiste dovere. Il
dovere è un’ipotesi di soccorso che si formula quando la credenza nella cosa è
già andata perduta. Sade e anche tutto il movimento dell’Illuminismo si
ricongiungevano su questo punto. La borghesia è la classe che, in fondo, non
crede. Bisogna dunque includere nella comprensione della cultura, il fatto che
essa esiste soltanto in epoche in cui non si crede più ai valori culturali. È
per ragioni di prestigio sociale che si appendono ai muri di casa propria dei
bei quadri. Schopenhauer ha ragione quando dice, a proposito del comandamento
morale, che gli uomini non oserebbero più attraversare la strada se solo la
religione e la morale li governassero. La morale non ha il peso che le si
attribuisce. Nel mondo borghese, è chiaro che tutta la cultura non proviene che
dal dominio. Gli uomini sanno che la società ha una tendenza immanente a non
dovere essere diretta da un Potere. L’idea di una società senza classi non ha
preso corpo nel cervello di Marx, ma è piuttosto inerente a ogni azione che
miri a instaurare una società umana. Il Potere ha sempre cattiva coscienza, i
potenti hanno sempre dovuto parlare a voce bassa, vicino all’orecchio. È sempre
stato necessario convincere gli uomini che nulla era possibile senza i
comandamenti ideologici. In tutto quello che chiamiamo arte o poesia, è
presente un’intuizione di quel che sarebbe il mondo senza alcun Potere. Non
dobbiamo negligere quest’aspetto quando dibattiamo della cultura. Infatti,
poiché si è forzati di dare alle masse qualcosa che assomiglia alla cultura, si
confessa tacitamente che l’utopia vive e batte al fondo del loro cuore. La
cultura è inclinarsi davanti al bene nell’uomo. Vorrei riassumere:
1) La
società borghese è caratterizzata dall’assenza di credenza nella morale, nella
bellezza, ecc.
2) Il fatto
che si sia sempre avuto bisogno di cultura rende manifesto che nella massa
esiste un’intuizione della vera società, della società senza classi. Tutto quel
che trovo degno di essere affermato si avvicina alla società senza classi, il
resto diventa polvere come le menzogne.
Anders: La questione di sapere perché si
deve dovere (warum man sollen soll) è stata, senza dubbio, espressa
dappertutto, non solo dagli autori che ho appena citato, ma la borghesia non ha
mai avuto dubbi in proposito. Si credeva al dovere e ciò le dava molta forza.
Horkheimer: Sì, ma solo perché l’universale vi
era contenuto. I nostri padri non facevano il bene per rispetto del dovere, ma
perché pensavano che era preferibile che tutti agissero così. Solo i kantiani
credono al dovere. L’esigenza di offrire dei valori culturali agli uomini era
sempre puramente ideologica. I bisogni primari degli uomini non si situano in
questa prospettiva.
Reichenbach: Posso immaginare una società nella
quale dei valori culturali sarebbero realizzati, ma senza essere utilizzati
male, come mezzi al servizio delle classi dominanti.
Brecht: Non teme che la cultura sia
costantemente fondata sui bisogni della classe dominante, che questi valori
culturali possano essere tutti espressi in termini di profitto?
Reichenbach: Ciò non mi sembra inevitabile.
Anders: dei valori virtuosi possono essere
definiti altrimenti che in termini di potenza e di dominio? Non ci sono valori
che non siano quelli di un gruppo sociale dominante ben preciso.
Reichenbach: Allora una società socialista non
conoscerebbe più valori culturali.
Brecht: La produzione culturale potrebbe
ancora esistere, ma non più sottoforma di beni culturali.
Anders: Se Lei attraversa un villaggio e
sente cantare un bambino, ciò può essere qualificato di cultura, ma non si
tratterà di un bene culturale, non sarà una merce.
Horkheimer: È difficile dire a che cosa
assomiglierà una società socialista. Ai giorni nostri, in ogni caso, i
microsolchi esistono essenzialmente per rovinare l’idea di una società
socialista. Perché definiremmo come valore culturale una cosa che sappiamo per
certo non servire ad altro che a impedire l’avvenimento di una società senza
classi? I bisogni come quello riguardante il latte devono essere soddisfatti. In
una situazione come l’attuale, però, in cui numerose persone muoiono, non si
può mettere su un piede di parità i bisogni in generale e quello riguardante
del latte.
Reichenbach: Credo che anche il latte possa
essere utilizzato per consolidare il dominio di classe altrettanto che la
cultura. La società capitalista agisce così con tutto. Il problema posto da una
critica della cultura consiste nel domandarsi quel che nella cultura
meriterebbe di essere salvato per transfert.
Brecht: Anders direbbe che noi vogliamo
salvare la musica. Oggi noi vogliamo salvare il latte perché vediamo che per
mancanza di latte, la gente deperisce. La musica non fa che ostacolare il
passaggio alla società senza classi.
Reichenbach: Non riesco a trovare differenze
tra il latte e i microsolchi a questo riguardo.
Horkheimer: Lei deve prima mostrarci, a
partire da quale punto dobbiamo essere contro il latte. Reclamare del latte è
immediatamente politico, non reclamare della musica.
Reichenbach: Che succede se il disco contiene
un messaggio rivoluzionario?
Marcuse: Allora il messaggio rivoluzionario
diventa esso stesso un valore culturale.
Horkheimer: Nel momento in cui tanti esseri
umani muoiono di fame, in cui il mondo minaccia di trasformarsi in macchina di
terrore, non si può accordare del valore a dei dischi.
Eisler: Il latte può essere utilizzato
come una leva per la cultura, ma certo non l’inverso. Il latte si ricollega
alle più profonde verità, mentre i dischi trasmettono la più lamentevole
mediocrità.
Adorno: L’idea di un salvataggio per
transfert, come in quella dell’eredità di Lukács, contiene qualcosa di
sbagliato, poiché presenta l’accesso alla società senza classi come posto sotto
l’autorità dei guardiani, che decidono, per esempio che conviene salvare Bach
ma si deve gettare Schumann. L’idea di salvataggio verso l’altra riva, contiene
l’immagine di una richiesta, di un meccanismo di selezione, alla quale la
società senza classi dovrebbe al contrario restare estranea. Finché la
questione si presenta sotto la forma seguente: molto latte o meno latte ma dei
dischi in più, bisogna decidersi per il latte.
Reichenbach: Non si tratta di creare
un’istanza, ma al momento del salvataggio della cultura bisognerà pure
domandarsi: che cosa succederà e che cosa vogliamo? Non possiamo rispondere che
non vogliamo che il latte. La critica culturale fa parte della lotta di classe.
Horkheimer: Ciò vuol dire che oggi la cultura
significa criticare la cultura.
Marcuse: L’idea di salvare per transfert è
già cattiva perché i valori culturali di cui si sta trattando non esistono ormai
più.
Brecht: Si dovrebbe, per esempio,
distinguere tra le arti e i prodotti artistici. La cultura non incontra forse
le più grandi probabilità di sopravvivere, come diceva Reichenbach, se essa
s’implica nella lotta di classe, se abbandona il suo carattere
mercantile ?
Reichenbach: Noi, però, non combattiamo affatto
il carattere mercantile. La musica, per esempio, non potrà essere salvata che
se un giorno esisterà ancora gente capace di ascoltarla adeguatamente.
Marcuse: Che cosa fa di Hölderlin un valore
culturale ?
Brecht: La situazione attuale tutta intera.
Reichenbach: Anche se si salveranno dei libri,
ci saranno degli uomini capaci di leggerli?
Viertel: Perché dovremmo decidere quel che
gli uomini avranno da leggere? Sceglieranno da soli.
Reichenbach: Non credo che in una migliore
forma di società, tutto sarà automaticamente in ordine.
[1]
Anders ricorda più
precisamente questo: “Non è senza interesse costatare che durante quegli anni
critici, fu fatto un tentativo di mettere in relazione intellettualmente due
circoli che non erano strettamente legati, il circolo brechtiano e quello della
Scuola di Francoforte. Nel corso di uno dei seminari, ho pronunciato una breve
conferenza contenente già la filosofia della cultura (Kulturphilosophie) che ho in seguito
presentato nel mio volume letterario e filosofico Mensch ohne Welt (Uomo senza mondo), specialmente nella prefazione.
Abitavo allora in casa di Marcuse. Aveva probabilmente proposto che io
partecipassi a quel seminario. Del resto frequentavo Eisler e Brecht e anche
loro furono ugualmente associati al progetto cosicché ci fu davvero il
tentativo di raggruppare due formazioni di musica da camera che suonavano
separatamente per farne una piccola orchestra”.
[2] L’espressione pint milk si riferisce alla promessa fatta dagli uomini politici
del New Deal (in particolare il ministro dell’agricoltura Henry A. Wallace,
membro dell’ala sinistra dell’amministrazione Roosevelt) di procurare a ogni
bambino un mezzo litro di latte quotidiano. Nel 1954, Mendes-France, un altro
progressista, obbligò i bambini francesi a bere in classe il loro latte
quotidiano. Non c’è mai molta distanza tra la promessa e il comandamento.