Quel che da tempo apre ampi spazi ai
fascismi politici che si nutrono della psicologia di massa del fascismo è il
fatto ormai avverato, e verificato fin dal Terrore che ha sconquassato la
rivoluzione francese, che la democrazia moderna non è mai esistita. Ancor meno
esiste oggi, quando un gran numero di devoti si gargarizza dei suoi effluvi per
meglio garantire ai privilegiati di una piccola oligarchia d’imporre la loro
supremazia.
Perché se il termine suprematismo è usato unicamente per
definire gli psicopatici neonazisti, i deliranti razzisti, gli integralisti di
ogni campo e altri -ismi scaturiti dalla peste emozionale estremistica, la
logica che muove la patologia predatrice (quindi inevitabilmente suprematista) del
dominio è intrinseca a ogni potere. Poco importa se, subìto ben più che
condiviso, il potere s’imponga a chi non l’ha scelto o l’ha scelto in una
pantomima elettorale che dirige le pecore nel giusto recinto in cui subire le
stigmate dello sfruttamento, dell’ingiustizia e della noia. In ogni ghetto s’ingoiano
veleni e si respira aria tossica, attendendo il macello finale della morte per
sfinimento, per inquinamento, per patologie cancerogene, per incidenti sul
lavoro, per violenza di genere e di classe e qualche volta anche per virus.
Un fatto è certo: la fine della
seconda guerra mondiale ha aperto i campi di sterminio nazisti per imporre agli
abitanti di un pianeta ridisegnato il
lavoro che rende liberi, al suono delle trombe di una pace nuclearizzata partita
da Hiroshima per arrivare a Fukushima, passando per Chernobyl.
L’homo
economicus del produttivismo ha fabbricato
deserti emozionali mondialmente diffusi e li ha chiamati pace. Una pace
pestifera, gestita da élites di ottusi analfabeti, ossessionati dalla
redditività, agenti di una desertificazione planetaria ancor più marcata dalle
oasi di natura protetta, ridotte anch’esse a campi di concentramento chiamati
parchi naturali.
A partire dal dopoguerra, la società
dello spettacolo che si è imposta e che ci dirige da quasi un secolo, ci ha progressivamente
relegati in un mondo cementato da fabbriche, grattacieli e supermercati sparsi dappertutto,
glaciali e sempre simili. Su un pianeta attraversato da automobili e aerei che “rendono
liberi” sempre di più, l’oligarchia consuma liberamente la sua supremazia. Un
buon numero di presunti privilegiati può e deve consumare molto in maniera
tossica, mentre una gran parte della popolazione mondiale produce tutti i beni di
consumo ma consuma solo spazzatura e molto spesso neppure quella, in attesa delle
grandi catastrofi sempre più ufficialmente annunciate.
I suprematisti caricaturali e
mostruosi che vogliono bruciare e sterminare gli untermenchen denunciati nei loro Mein Kampf politici o religiosi (abitualmente entrambi i generi di
quest’orrore osceno sono fusi in una simbiotica demenza dall’infantilismo macabro),
sono quattro gatti e difficilmente riusciranno a ripetere l’impresa del loro
eroe preferito di suicidarsi come lui dopo aver messo a ferro e fuoco l’Europa
e il mondo.
Oggi, invece, i suprematisti più
pericolosi e diffusi sono dei gentili sociologi, degli economisti entusiasti, degli
psicologi alla Edward
Bernays[1],
dei lobbisti politicamente corretti, degli imprenditori indefessi, degli uomini
politici seri e benpensanti, dei burattini mediatici servili. Tutta questa
bella corte frequenta e manipola molti altri ruoli secondari ma fondamentali
per l’alienazione mercenaria al servizio della logica suprematista che è al
cuore del produttivismo e della sua fase terminale: il capitalismo.
Quelli che La Boétie aveva definito “servitori
volontari” già cinque secoli fa, pullulano ormai nello spettacolo a cui è stata
ridotta la società umana, con un potere distruttivo di cui i virus biologici
sono un piccolo, seppur devastante, antipasto naturale. Nell’occorrenza, difendersi
dal coronavirus è un atto prioritario, certo, una necessità vitale per la
specie umana. Tuttavia, nei tempi lunghi, difendersi dalla peste emozionale che
diffonde i suoi miasmi mortiferi sulla vita quotidiana di donne e uomini, è
ancora più vitale e urgente.
Rileggendo Wilhelm Reich (lettura che
fu privilegiata per un breve periodo, poi rapidamente rimossa)[2],
si ritrova la traccia plurimillenaria di questa patologia umana che ha invaso
le coscienze fino a contaminare la stessa biosfera da cui dipende la vita.
Con l’abbandono delle società
organiche e l’instaurarsi dell’arricchimento produttivista, il lento e
contrastato processo di civilizzazione degli esseri umani ha biforcato verso
svariate forme di suprematismo (alcune sopportabili, altre più aggressive) che
hanno lacerato il tessuto umano della specie fatto di aiuto reciproco, di
solidarietà e di creatività al servizio della potenza di godere insieme,
potenza orgastica capace di trasformare le famiglie, i clan e altri gruppi
affinitari in comunità umane di individui liberi.
Questa libertà, fondata su una
centralità femminile acratica che ha contraddistinto molti dei primi gruppi della
scimmia umanoide[3], è stata
aggredita, poi ridotta al silenzio dal dominio di genere e di classe che ha
trasformato l’agricoltura di sostentamento in un’agricoltura produttivista. Se,
infatti, la scoperta dell’agricoltura fu una rivoluzione benefica per degli
esseri umani limitati alla raccolta e alla caccia, il passaggio a
un’agricoltura produttivista ha sconvolto gli equilibri di una comunità umana
ancora fragile, introducendo una macchina da guerra che il patriarcato ha saputo
cogliere. Non senza difficoltà, però, perché la specie umana si è rifiutata per
diversi millenni[4] d’inventare
il lavoro e sottomettersi alle sue leggi. Quest’attività forzata a scopo
economico non esisteva, infatti, prima che l’umanità cedesse di fronte
all’ideologia produttivista, il cui suprematismo ha inventato come “fare del
grano”. Il passaggio dalle svariate, piacevoli o faticose, attività della vita
al lavoro, fu un’alchimia perversa che ha trasmutato i cereali in oro. Così è
apparso il denaro, equivalente generale degli scambi mercantili, con i
corollari della schiavitù – necessaria ad assoggettare e sfruttare i primi
lavoratori della storia umana – e della definitiva sottomissione delle donne.
Questo è oggi il peggiore nemico
dell’umanità: il progetto teologico dell’economia politica di cui il denaro è
il culto diffuso dal mito di una crescita senza fine in un mondo finito. Non
servirà a molto liberarsi del coronavirus se non ci decideremo a lottare contro
la peste emozionale veicolata dal produttivismo e dalla crescita economica di
cui è drogato. Ecco il nemico assoluto, ma per combatterlo dal punto di vista
umano, dobbiamo nello stesso tempo guardarci dai nemici spettacolari dello
spettacolo sociale. Perché se l’obiettivo finale è l’uscita dal produttivismo e
la rifondazione di società organiche capaci di promuovere la comunità umana, non
servirà a nulla battersi contro l’alienazione continuando a farlo con metodi
alienati.
Infatti, la forza intrinseca del
Leviatano produttivista e della società dello spettacolo di cui si serve, è che
anche i suoi oppositori cadono nella trappola di riprodurre gli stessi schemi di
comportamento che pretendono di combattere. Per questo insorgo, come posso,
contro l’intellettualismo che è, a mio avviso, il vero e proprio fulcro della
critica alienata. Anch’esso malato di un suprematismo sedicente sovversivo,
inquina dalle origini il movimento rivoluzionario dell’epoca moderna.
Sempre riferendosi a W. Reich, la cui
qualità di ricerca è stata cancellata, ma resta preziosa per chi l’ha letto
senza inforcare le lenti dell’ideologia sessuofobica, il misticismo è una
lettura distorta e paranoica della realtà che imperversa altrettanto tramite un
approccio spiritualista che materialista del reale. Al misticismo
dell’inquisizione cattolica, sedicente fraterna, ha risposto con una continuità
esemplare, quello della burocrazia comunista, sedicente sovietica. Lo
spiritualismo degli uni (tutti i monoteismi, nessuno escluso, sono stati
all’origine di massacri in nome di Dio e anche i dittatori direttamente al
servizio dell’economia politica, da Franco a Pinochet, hanno sempre mescolato
con brio le genuflessioni sacre e la tortura degli oppositori) ha cercato la
comunità nello sterminio degli eretici. Per contro, il materialismo degli altri
ha cercato il comunismo nelle esecuzioni sommarie, nella Lubianka e nei campi in
Siberia (ma anche in Cambogia non si è mica scherzato, né in Cina si scherza
tuttora, per non citare che due dei crimini più riusciti contro l’umanità).
Ovviamente, quasi più nessuno, oggi, si rivendica dello stalinismo o del nazismo, tranne forse qualche “intellettuale” demente, più intellettuale degli altri perché completamente fuori di testa (proprio a causa della mastodontica dimensione della stessa, una volta separata dal corpo). Il vero mito della società dello spettacolo è la democrazia parlamentare che incarna la truffa dei suprematisti più duttili: ogni pecora è il proprio cane. Chi ha più bisogno di cani da pastore? Sì, qualche robocop con pistola, fucile e manganello, che non si sa mai!
Siccome l’antifascismo fa ormai parte
dei dogmi ipocriti della società dello spettacolo, anche il Mercato e lo Stato,
di cui il fascismo è lo sgherro, possono essere criticati ma solo
separatamente, mai insieme come complici del produttivismo, in modo da salvare
sempre il Leviatano che si nutre di entrambi. Del resto, tutti concordano
ormai, persino i liberali, che non bisogna esagerare con il Mercato; il
Leviatano statale ritrova così, a destra come a sinistra, i sostenitori che non
aveva mai perduto. Si critica lo Stato cattivo di cui è normale diffidare, per
meglio esaltare quello buono, quello maschio che protegge dai malvagi la
nazione femmina (esattamente come il maschio dominante trasuda di un amore da
prosseneta per la sua donna sfruttata, sottomessa e umiliata). Ci raccontano
che “lo Stato siamo noi”, dobbiamo quindi sostenerlo, amarlo e difenderlo
contro quei pazzi di anarchici, senza dio né padrone!
Ora, io che anarchico non sono, ma
acratico, non riesco a ridere di questa peste emozionale diffusa dal
patriarcato che è la servitù volontaria e che, dal sovranismo di destra di
stampo fascista al gauchismo dell’ultra sinistra, critica con terrore o
paternalismo, ma sempre con ottusità e spesso con cieca violenza, l’ipotesi di
un’autogestione generalizzata della vita quotidiana che rifiuta di
sottomettersi a ogni bellicismo militarizzato quanto a ogni conformismo.
Non rido e anzi mi preoccupo, perché
il versante sinistro (in tutti i sensi) di quest’alienazione teorica, serve il
Leviatano come, se non meglio, dei suoi prediletti sottomessi reazionari. Delle
ceneri della sinistra umanistica rimane che abbiamo, in effetti, sognato
insieme, mescolati alla rinfusa ma soprattutto nella confusione e
nell’ideologia, una rivoluzione sociale che rendesse tutti liberi e uguali.
Tuttavia, come ci ha fatto notare Orwell, abbiamo sempre creato situazioni in
cui alcuni erano più uguali degli altri perché si erano arrogati il potere
dell’uguaglianza in modo suprematista.
Non basta aborrire Stalin per non
cadere nel fascismo rosso già denunciato nel 1933 da Reich come l’altra faccia
della medaglia nazifascista. Come ha scritto Ernst Bloch: “Dietro il cittadino si celava il borghese, “Dio” ci salvi da chi si
nasconde dietro il compagno”. Ebbene, il solo modo di salvarsi dal compagno
che è in noi è di esserlo tutti insieme in totale autonomia, secondo schemi
antichi che l’umanità, forse ancora primitiva, ma meno instupidita di noi e del
nostro progresso, ha sempre praticato.
Assemblee locali costituite a partire
dai gruppi spontanei d’affinità in cui tutto il potere si diluisca e si
condivida nel dialogo fino a trasformarsi in decisioni comuni non plebiscitarie
ma consensuali. Capaci, cioè, di sostenere i progetti condivisi e di ridurre,
stemperare e quando possibile abolire le dissidenze inconciliabili. Il tutto in
conformità a un’autonomia che rende impossibile ogni supremazia. Mica un
sistema perfetto, sia chiaro, soltanto quello più consono a una comunità che
cerchi di esistere ed evolvere senza gerarchie né frustrazioni maggiori, con l’obiettivo
dell’autogestione generalizzata della vita quotidiana.
Questo sistema imperfetto, ma meno di
tutti gli altri, con la sua etica amorale, è l’unico che rifugga il minimo
suprematismo gerarchico, ogni sopruso, ogni violenza, fosse anche
rivoluzionaria. Non si tratta d’inventarlo, ma di ritrovarlo e rielaborarlo
alla luce degli insegnamenti della storia per adattarlo a una modernità oggettiva
(il tempo non passa mai invano), ma non subita. Bisognerà, dunque, prendere
anche in conto una crescita demografica insensata della specie umana. Insensata
ma ormai fattuale, che complica la situazione senza tuttavia rendere
impossibili le soluzioni. La realtà sociale è complessa, anche complicata, ma risolubile
da una coscienza collettiva decisa a confrontarsi con essa. Di spazio ne resta
ancora, ma è urgente socializzarlo e non privatizzarlo, proteggere i beni
comuni e cessare di regalarli al Mercato; il quale anzi dovrà smettere di esistere
nelle forme produttiviste per ritrovare il centro del villaggio (la piazza,
l’agora) come luogo del dono che si scambia per amore della vita e del bene
comune, non per interesse economico suprematista.
Il problema centrale, dunque, è la
logica suprematista che impesta il pianeta e contro la quale non si tratta di
essere gentili, morali e accondiscendenti, ma autonomi, determinati e
lungimiranti, cioè soggetti coscienti di una comunità in divenire; individui capaci
di godimento con o senza gli altri, ma mai contro di loro, finalmente capaci di
liberare la parola e la pratica del godimento dalla reificazione alienata che le
donne e gli uomini hanno subito per millenni.
Nella storia contemporanea, la
pubblicità mercantile del godimento è diventata una peste ideologica che ha
ipnotizzato i consumatori fino a far balenare ai loro occhi, più grandi del
ventre, dei bisogni artificiali che non sono mai stati veri desideri. E ancora
una volta l’amico Wilhelm Reich, questo pazzoide che, secondo Freud, pretendeva
di curare la malattia dell’essere umano con l’orgasmo, ci indica una pista. Non
quella di una sessualità ridotta a una merce in cui gli “investimenti
emozionali” non possono che finire in una “banca dello sperma” poiché l’irruzione
della morale sessuale mercantile ha bloccato la facoltà naturale di rilassare
la propria muscolatura involontaria; quella invece, della dépense vitale, della scarica emozionale e fisiologica non solo
delle affinità sessuali condivise, ma, più precisamente, di quell’energia vitale
che ha danzato da sempre con la natura in mille modi diversi: dall’arte al savoir
faire, dalla creatività applicata alla poesia alla poesia applicata alla
creatività.
Chi vuole combattere il produttivismo
non può più accontentarsi di criticarlo dal punto di vista della sua presunta supremazia
intellettuale, ultima bava senile di un’ideologia rivoluzionaria
incartapecorita, senza proporne il superamento concreto da praticare subito nei
propri rapporti personali. Il solo superamento possibile del produttivismo
passa, infatti, per l’ostracismo radicale verso ogni suprematismo. Basta con il
capitalismo, ma anche con gli intellettuali rivoluzionari che ci fanno la
morale in nome di una lucidità impotente stranamente simile al misero potere
dei kapò. Basta con la critica-critica di quanti denunciano sul loro libro
sacro di profeti del discorso (o piuttosto, ormai, sul computer, smanettando con
il Nick Name di Napalm 50 o 68, che è lo stesso), la responsabilità altrui nel
trionfo del male, del sopruso, della tirannia, senza proporre il minimo atto costruttivo
di aiuto reciproco, di solidarietà, di mutamento radicale nella gestione
collettiva della vita quotidiana.
Impariamo dunque dalle nostre
disgrazie attuali dovute al coronavirus. Nel pericolo è riapparsa un’umanità
commovente, ricca di una complicità generosa tra le numerose vittime e i soccorritori,
anch’essi vittime. Nella resilienza che si annuncia, impariamo a ritrovare la
nostra fortuna di essere vivi: applichiamo lo sciopero generale dei consumi
inutili e dannosi, del lavoro inutile e dannoso; liberiamoci delle attività alienate
e nocive in nome della vita da affermare e non più solo per impedire al
coronavirus di contaminarci. Usiamo gli stessi metodi adottati per necessità
contro la piccola peste per combattere quella più grande che l’ha favorita e
preceduta.
Ci libereremo, forse, niente è
sicuro, del vecchio mondo solo cominciando insieme, appena usciti dal
confinamento, a uscire anche, contemporaneamente, dall’universo
concentrazionario del produttivismo e della sua critica spettacolare. Come e da
che cosa cominciare? È proprio di questo che si deve discutere insieme già
adesso, per non perdere il tempo che non abbiamo più e per praticare al più
presto la teoria.
L’umanità ha davanti a sé l’incubo di
una cosa di cui manca soltanto la coscienza pratica per poterla evitare.
Sergio
Ghirardi, 12 4 2020, lasciando perdere l’uovo, ma non la sorpresa.
O la Borsa
(il CAC 40) o la vita!
[1]
Nipote di Sigmund Freud (1891-1995) che ha messo al
servizio delle multinazionali produttiviste (quella del tabacco, in
particolare) le scoperte del famoso zio sui meccanismi psichici e la
possibilità di manipolarli.
[2]
Erano i tempi in cui moltissimi individui di ogni età, ma soprattutto i più giovani,
erano insorti per liberarsi del produttivismo che cominciava a soffocarli. Il
maggio 68, oltre il mito, la falsificazione e la manipolazione che ha subito, è
ancora oggi il simbolo di questo fenomeno epocale.
[3]
Amargi è il termine arcaico più
antico per dire libertà. In sumero esso significa: ritorno alla madre. Sulle società matricentriche preistoriche e
sulle diverse invasioni Kurgan che hanno messo loro fine, imponendo il
patriarcato in tutta l’Europa antica, consultare l’enorme lavoro pluridecennale
di Marija Gimbutas.
[4]
I primi segni di un’agricoltura di sostentamento sono apparsi attorno al 9000
AC, mentre le prime città-Stato produttiviste risalgono al quinto millennio AC.
Le suprématisme
maladie infantile des
réactionnaires, sénile des
révolutionnaires
Ce qui
depuis longtemps ouvre des amples espaces aux fascismes politiques qui se
nourrissent de la psychologie de masse du fascisme, est le fait désormais avéré
et vérifié depuis la Terreur qui a secoué la Révolution française, que la
démocratie moderne n’a jamais existé. Encore moins elle n’existe aujourd’hui,
alors qu’un bon nombre de dévots se gargarise de ses vapeurs pour mieux
garantir aux privilégiés d’une petite oligarchie d’imposer leur suprématie.
Car si
le terme suprématisme est uniquement
utilisé pour définir les psychopathes néonazis, les racistes délirants, les intégristes
de tout bord et autres –ismes jaillis de la peste émotionnelle extrémiste, la
logique qui fait fonctionner la pathologie prédatrice (donc inéluctablement
suprématiste) de la domination est intrinsèque à tout pouvoir. Peu importe si,
subi bien plus que partagé, le pouvoir s’impose à qui ne l’a pas choisi, ou
choisi dans une pantomime électorale qui pousse les brebis dans le bon enclos
où ils/elles subissent les stigmates de l’exploitation, de l’injustice et de
l’ennui. Dans chaque ghetto on avale des poisons et on respire de l’air toxique
en attendant la boucherie finale de la mort par épuisement, par pollution, par
pathologies cancérigènes, par accidents du travail, par violence de genre et de
classe, et parfois aussi par virus.
Une
chose est certaine : la fin de la deuxième guerre mondiale a ouvert les
camps d’extermination nazis pour imposer aux habitants d’une planète
redessinée, le travail qui rend libres,
au son des trompettes d’une paix nucléarisée partie de Hiroshima pour arriver à
Fukushima, en passant par Tchernobyl.
L’homo economicus
du productivisme a fabriqué des déserts émotionnels mondialement diffus en les appelant
« paix ». Une paix pestifère, gérée par des élites d’analphabètes
bornés, obsédés par la rentabilité, agents d’une désertification planétaire
encore plus marquée par les oasis de nature protégée, réduites, elles aussi, à
des camps de concentration appelés parcs naturels.
A partir
de l’après guerre, la société du spectacle qui s’est imposée et qui nous dirige
depuis presque un siècle, nous a progressivement enfermés dans un monde bétonné
par des usines, des gratte-ciels et des supermarchés étalés partout, glaciaux et
toujours semblables. Sur une planète sillonnée par des voitures et des avions
qui « rendent libres » toujours plus, l’oligarchie consomme librement
sa suprématie. Un bon nombre de privilégiés présumés peut et doit consommer beaucoup
de façon toxique, alors qu’une grande partie de la population du monde produit
tous les biens de consommation mais ne consomme que la poubelle et souvent même
pas cela, dans l’attente des grandes catastrophes toujours plus officiellement
annoncées.
Les
suprématistes caricaturaux et monstrueux qui veulent bruler et exterminer les untermenchen dénoncés dans leurs Mein Kampf politiques ou religieux (en
général les deux genres de cet horreur obscène fusionnent dans une symbiotique
démence à l’infantilisme macabre), ne sont que quelques poignées et ils auront
du mal à réitérer l’emprise de leur héros préféré, en se suicidant comme lui, après
avoir mis à feu et sang l’Europe et le monde.
En
revanche, les suprématistes les plus dangereux et répandus sont, aujourd’hui,
des gentils sociologues, des économistes enthousiastes, des psychologues du
genre d’Edward Bernays[1],
des lobbyistes politiquement corrects, des entrepreneurs infatigables, des
hommes politiques sérieux et bienpensants, des pantins médiatiques serviles.
Tout ce beau monde côtoie et manipule beaucoup d’autre rôles secondaires mais
fondamentaux pour l’aliénation mercenaire au service de la logique suprématiste
au cœur du productivisme et de sa phase terminale : le capitalisme.
Ceux que
la Boétie avait définis « serviteurs volontaires » il y a cinq
siècles déjà, pullulent, désormais, dans le spectacle auquel a été réduite la
societé humaine, avec un pouvoir destructeur dont les virus biologiques ne sont
qu’un petit, même si dévastateur, avant-gout naturel. Dans l’occurrence, se
défendre du coronavirus est un acte prioritaire, certes, une nécessité vitale
pour l’espèce humaine. Néanmoins, dans le long terme, se défendre de la peste
émotionnelle qui répand ses miasmes mortifères sur la vie quotidienne des
femmes et des hommes, est encore plus vital et urgent.
En relisant
Wilhelm Reich, (lecture qui fut privilégiée pendant une brève période, puis
rapidement refoulée)[2],
on retrouve la trace plurimillénaire de cette pathologie humaine qui a envahi
les consciences jusqu’à contaminer même la biosphère dont la vie dépend.
Avec
l’abandon des sociétés organiques et le début de l’enrichissement
productiviste, le lent et contrasté processus de civilisation des êtres humains
a bifurqué vers diverses formes de suprématisme (certaines supportables,
d’autres plus agressives) qui ont déchiré le tissu humain de l’espèce fait
d’entraide, de solidarité et de créativité au service de la puissance de jouir
ensemble, puissance orgastique capable de transformer les familles, les clans
et d’autres groupes affinitaires en communautés humaines d’individus libres.
Cette
liberté, fondée sur une centralité féminine acratique qui avait marqué bon
nombre des premiers groupes du singe humanoïde[3],
a été agressée, puis réduite au silence par la domination de genre et de classe
qui a transformé l’agriculture de subsistance en une agriculture productiviste.
Car, si la découverte de l’agriculture fut une révolution bénéfique pour des êtres
humains limités à la cueillette et à la chasse, le passage à une agriculture
productiviste a bouleversé les équilibres d’une communauté humaine encore
fragile, en introduisant une machine de guerre que le patriarcat a saisi. Non
sans difficulté, toutefois, parce que l’espèce humaine a refusé pendant
plusieurs millénaires[4]
d’inventer le travail en se soumettant à ses lois. Cette activité forcée à des
fins économiques n’existait pas, en fait, avant que l’humanité se plie à
l’idéologie productiviste dont le suprématisme a inventé comment « faire
du blé ». Le passage des diverses activités de la vie – agréables ou fatigantes
– au travail, fut une alchimie perverse qui a transmuté les céréales en or. L’argent,
équivalent général des échanges marchands, apparut, avec les corollaires de
l’esclavage – nécessaire à assujettir et exploiter les premiers travailleurs de
l’histoire humaine – et la soumission définitive des femmes.
Ceci est
aujourd’hui le pire ennemi de l’humanité : le projet théologique de
l’économie politique dont l’argent est le culte répandu par le mythe d’une
croissance sans fin dans un monde fini. Il ne sera pas utile à grand-chose de se
libérer du coronavirus si on ne décidera pas de lutter contre la peste
émotionnelle véhiculée par le productivisme et par la croissance économique
dont il est dépendant. Voilà l’ennemi absolu, mais pour le combattre d’un point
de vue humain, on doit en même temps se garder des ennemis spectaculaires du
spectacle social. Car si l’objectif final est bien la sortie du productivisme
et la refondation de sociétés organiques capables de promouvoir la communauté
humaine, il ne servira à rien de se battre contre l’aliénation en continuant à
le faire par des méthodes aliénées.
Car la
force intrinsèque du Léviathan productiviste et de la societé di spectacle dont
il profite, est que ses opposants aussi tombent dans le piège de reproduire les
mêmes schémas de comportement qu’ils prétendent de combattre. Pour cela je
m’insurge, comme je peux, contre l’intellectualisme qui est, selon moi, le
véritable pivot de la critique aliénée. Malade lui aussi d’un suprématisme
soi-disant subversif, il pollue du début le mouvement révolutionnaire de
l’époque moderne.
Toujours
en se référant à W. Reich, dont la qualité de recherche a été effacée, mais
reste précieuse pour ceux qui l’ont lu sans enfourcher les lentilles de
l’idéologie sexophobique, le mysticisme est une lecture tordue et paranoïaque
de la réalité sévissant autant par un approche spiritualiste que matérialiste
du réel. Au mysticisme de l’inquisition catholique, soi-disant fraternelle, a répondu,
dans une continuité exemplaire, celui de la bureaucratie communiste, soi disant
soviétique. Le spiritualisme des uns (tous les monothéismes, sans exceptions,
ont été à l’origine de massacres au nom de Dieu, mais même les dictateurs
directement au service de l’économie politique, De Franco à Pinochet, ont
toujours mélangé avec brio, les agenouillements sacrés et la torture des opposants)
a cherché la communauté dans l’extermination des hérétiques. En revanche, le
matérialisme des autres a cherché le communisme dans les exécutions sommaires,
dans la Lubianka et dans les camps en Sibérie (mais en Cambodge non plus on n’a
pas rigolé, ni en Chine on rigole encore maintenant, pour ne citer que deux des
crimes contre l’humanité les plus réussis).
Evidemment,
maintenant presque plus personne ne se revendique du stalinisme ou du nazisme,
exceptés, peut-être, quelques « intellectuels » démentiels, plus intellectuels
que les autres car malades dans la tète (justement à cause de l’énorme
dimension de celle-ci, une fois séparée du corps). Le vrai mythe de la societé
du spectacle est la démocratie parlementaire qui incarne l’arnaque des
suprématistes les plus flexibles : chaque brebis est son propre chien. Qui
a encore besoin de chiens de berger ? Oui, quelques robocops avec pistolet,
fusil et matraque, juste au cas où !
Puisque
l’antifascisme fait désormais partie des dogmes hypocrites de la societé du
spectacle, même le Marché et l’Etat dont le fascisme est le sbire, peuvent être
critiqués, mais uniquement séparément, jamais ensemble en tant que complices du
productivisme, afin de sauver toujours le Léviathan qui se nourrit des deux.
D’ailleurs, tous s’accordent, désormais, même les libéraux, qu’il ne faut pas
exagérer avec le Marché ; le Léviathan étatiste retrouve ainsi, à droite
comme à gauche, les adeptes qu’il n’avait jamais perdus. On critique l’Etat
méchant dont il est normal de se méfier, afin de mieux célébrer le bon, celui mâle
qui protège des méchants la nation femelle (exactement comme le mâle dominant dégouline
d’un amour de macro pour sa femme exploitée, soumise et humiliée). On nous
raconte que « l’Etat c’est nous », on doit, donc, le soutenir, l’aimer
et le défendre contre ces fous anarchistes, sans Dieu ni maître !
Or, moi
qui ne suis pas anarchiste, mais acratique, je n’arrive pas à rire de cette peste
émotionnelle répandue par le patriarcat qu’est la servitude volontaire.
Répandue du souverainisme de droite fascisant au gauchisme de l’ultra gauche, celle-ci
critique avec terreur ou paternalisme, mais toujours avec esprit borné et
souvent avec une violence aveugle, l’hypothèse d’une autogestion généralisée de
la vie quotidienne qui refuse de se soumettre à tout bellicisme militarisé
autant qu’à tout conformisme.
Je ne
ris pas et même je m’inquiète, car le côté gauche (dans tous les sens du terme)
de cette aliénation théorique sert le Léviathan, autant sinon mieux, que ses
soumis réactionnaires bien aimés. Des cendres de la gauche humanitaire reste le
fait que nous avons rêvé ensemble, mélangés en vrac, mais surtout dans la
confusion et l’idéologie, une révolution sociale qui nous rend tous libres et égaux.
Néanmoins, comme Orwell nous a fait remarquer, on a toujours crée des
situations où certains étaient plus égaux que les autres en s’étant appropriés
du pouvoir de l’egalité de façon suprématiste.
Il ne
suffit pas d’abhorrer Staline pour ne pas tomber dans le fascisme rouge déjà dénoncé
en 1933 par Reich comme le côté pile de la médaille dont le nazi-fascisme était
le côté face. Comme a écrit Ernst Bloch : « Derrière le citoyen se cachait le bourgeois, Dieu nous sauve de qui se
cache derrière le camarade ». Or, la seule manière de se sauver du
camarade qui est en nous, c’est de l’être tous ensemble en toute autonomie, selon
des schémas anciens que l’humanité, encore primitive, peut-être, mais moins
bête que nous et notre progrès, a toujours pratiqué.
Des
assemblées locales constituées à partir de groupes spontanés d’affinité où tout
le pouvoir se dilue et est partagé par le dialogue jusqu’à se transformer en
des décisions communes, non pas plébiscitaires mais consensuelles. Capables,
donc, de porter les projets partagés et de réduire, délayer et si possible
abolir, les dissensions inconciliables. Le tout sur la base d’une autonomie qui
rend impossible toute suprématie. Non pas un système parfait, soyons clair, mais
celui plus adapté à une communauté qui cherche à exister et évoluer sans
hiérarchies ni frustrations majeures, dans le but de l’autogestion généralisée
de la vie quotidienne.
Ce
système imparfait, mais moins que tous les autres, avec son étique amorale, est
le seul qui refuse le moindre suprématisme hiérarchique, toute injustice, toute
violence, fusse-t-elle révolutionnaire. Il n’est pas question de l’inventer,
mais de le retrouver et le réélaborer à la lumière des enseignements de
l’histoire pour l’adapter à une modernité objective (le temps ne passe jamais
pour rien), mais pas subie. Il faudra, donc, prendre aussi en compte une
croissance démographique insensée de l’espèce humaine. Insensée mais désormais
factuelle, qui complique la situation sans rendre pourtant impossibles les
solutions. La réalité sociale est complexe, même compliquée, mais résoluble par
une conscience collective décidée à s’y confronter. On a encore de l’espace,
mais il est urgent de le socialiser et non pas le privatiser, de protéger les
biens communs et arrêter de les donner au Marché ; lequel, d’ailleurs,
devra arrêter d’exister dans les formes productivistes pour retrouver le centre
du village (le square, l’agora) comme lieu du don qui s’échange par amour de la
vie et du bien commun, non pas par intérêt économique suprématiste.
Le problème
central, donc, est la logique suprématiste qui empeste la planète et contre
laquelle il n’est pas question d’être gentils, moraux et condescendants, mais
autonomes, décidés, et clairvoyants, c'est-à-dire des sujets conscients d’une
communauté en devenir ; des individus capables de jouissance avec ou sans
les autres, mais jamais contre eux, finalement capables de libérer la parole et
la pratique de la jouissance de la réification aliénée que les femmes et les
hommes ont subi pendant des millénaires.
Dans
l’histoire contemporaine, la publicité marchande de la jouissance est devenue
une peste idéologique qui a hypnotisé les consommateurs jusqu’à faire miroiter
à leurs yeux, plus gros que leur ventre, des besoins artificiels qui n’ont
jamais été des vrais désirs. Et encore une fois, l’ami Wilhelm Reich, cet
original qui, selon Freud, prétendait de soigner la maladie humaine par
l’orgasme, nous indique une piste. Non pas celle d’une sexualité réduite à une
marchandise où les « investissements émotionnels » ne peuvent qu’aboutir
à une « banque du sperme », puisque l’irruption de la morale sexuelle
marchande a bloqué la faculté naturelle de relaxer sa musculature involontaire ;
celle, en revanche, de la dépense vitale, de la décharge émotionnelle et
physiologique non pas uniquement des affinités sexuelles partagées, mais, plus précisément,
de l’énergie vitale qui a toujours dansé avec la nature de mille manières
differentes : de l’art au savoir-faire, de la créativité appliquée à la poésie
à la poésie appliquée à la créativité.
Qui veut
combattre le productivisme ne peut plus se contenter de le critiquer se
positionnant du point de vue de sa suprématie intellectuelle présumée, dernière
bave sénile d’une idéologie révolutionnaire parcheminée, sans en proposer le dépassement
concret à pratiquer immédiatement dans ses propres relations personnelles. Car,
le seul dépassement possible du productivisme passe par l’ostracisme radical envers
tout suprématisme. Assez du capitalisme, mais aussi des intellectuels
révolutionnaires qui nous font la morale au nom d’une lucidité impuissante qui
ressemble étrangement au pouvoir minable des kapos. Assez de la
critique-critique de ceux qui dénoncent sur leur livre sacré de prophètes du
discours (ou plutôt, désormais sur l’ordinateur où ils tapotent avec le Nick
Name de Napalm 50 o 68, c’est pareil), la responsabilité des autres dans le
triomphe du mal, de l’injustice, de la tyrannie, sans proposer le moindre acte constructif
d’entraide, de solidarité, de mutation radicale dans la gestion collective de
la vie quotidienne.
Apprenons,
donc, de nos malheurs actuels dus au coronavirus. Dans le péril, une humanité émouvante
est réapparue, riche d’une complicité généreuse entre les nombreuses victimes
et les soignants, victimes eux aussi. Dans la résilience qui s’annonce, apprenons
à retrouver notre chance d’être vivants : appliquons la grève générale des
consommations inutiles et nuisibles, du travail inutile et nuisible ;
libérons-nous des activités aliénées et nocives au nom de la vie à affirmer et
non pas uniquement pour empêcher que le coronavirus nous infecte. Utilisons les
mêmes méthodes utilisées par nécessité contre la petite peste pour combattre
celle plus grande qui l’a favorisée et précédée.
On se libérera,
peut-être, rien n’est sur, du vieux monde uniquement en commençant ensemble, à
peine sortis du confinement, à sortir aussi, en même temps, de l’univers
concentrationnaire du productivisme et de sa critique spectaculaire. Comment et
par quoi commencer ? C’est justement de cela qu’on doit discuter ensemble
dés maintenant, pour ne pas perdre le temps qu’on n’a plus et pour pratiquer le
plus tôt possible la théorie.
L’humanité
a devant elle le cauchemar d’une chose dont elle manque uniquement de la
conscience pour pouvoir l’éviter.
Sergio Ghirardi, 12 4 2020, en laissant tomber l’œuf, mais gardant la
surprise
Ou la Bourse (le CAC 40) ou la
vie !
[1] Neveux de Sigmund Freud (1891-1995) qui a
mis au service des multinationales productivistes (celle du tabac, en particulier)
les découvertes de l’oncle fameux concernant les mécanismes psychiques et la
possibilité de les manipuler.
[2] C’était le temps où beaucoup
d’individus de tous âges, mais surtout les plus jeunes, s’étaient insurgés pour
se libérer du productivisme qui commençait à les étouffer. Mai 68, au-delà du
mythe, de la falsification et de la manipulation qu’il a subi, est, encore
aujourd’hui, le symbole de ce phénomène qui a marqué une époque.
[3] Amargi est le terme archaïque plus ancien
pour dire liberté. En sumérien il signifie : retour à la mère. A propos des sociétés matri centriques
préhistoriques et des multiples invasions Kurgan qui les ont terrassées en
imposant dans toute l’Europe ancienne le patriarcat, consulter l’énorme travail
de Marija Gimbutas pendant plusieurs décennies.
[4] Les premiers signes d’une agriculture
de subsistance sont apparus environ autour de 9000 AC, alors que les premières
cités-Etat productivistes remontent au cinquième millénaire AC.