sabato 9 ottobre 2010
Autoproduzione di Paolo Ranieri
Autoproduzione è, da un pezzo, parola di moda. E, come ogni altra parola alla moda, rappresenta un concetto vago, tale da permettere a molti di imprimervi i propri significati e, in alcuni casi, anche i propri interessi. Vi è chi, ad esempio, si impegna a confonderla con il mitico “terzo settore”, da cui tanti sperano di trarre danari e carriere in cambio di un po’ di declamazioni eque e di un pizzico di chiacchiere solidali. Vi è persino chi pretende di identificarla con l’odiosa e spregevole autoimpresa, il coniglio transgenico uscito dal casco dell’autonomo e dalla tuta bianca del disobbediente; oppure con l’autovalorizzazione grata a tutti coloro che sono ansiosi di monetizzare l’antagonismo proprio e, del caso, pure quello altrui (un esempio caratteristico è la messa in vendita di filmati, materiali, scritti di esperienze collettive gratuite, quali quelle del Virus di via Correggio a Milano)
Converrà perciò precisare che noi intenderemo qui, per “autoproduzione”, ogni attività che degli individui, o dei gruppi, rinunciando volontariamente a ricorrere alle possibilità esistenti sul mercato, scelgano di svolgere con forze proprie per fruirne essi stessi, da soli o insieme con altri, ma sempre in uno spirito di gratuità e senza chiedere contraccambio alcuno.
Autoproduzione tipica, e particolarmente immediata per chi legge queste pagine, è quella della canapa. Autoproduzione tradizionale e diffusissima è quella che si svolge ai margini delle metropoli negli orti abusivi. Ma anche attività più complesse e meno alimentari, come i giornali, i cd, le fanzine, i manifesti, i volantini, sviluppati in proprio, con propri strumenti, magari assemblati senza passare per la cassa di alcun negozio. Affini all’autoproduzione sono il riciclaggio, appunto, di strumenti informatici, elettronici, meccanici, di mobili, abiti, giocattoli, le mille soluzioni creative alla complessità delle esigenze e alla banalità delle soluzioni offerte dal bazar delle merci e delle bugie.
Si tratta di un fenomeno che, a mano a mano che il capitalismo convertiva in merce ogni possibile attività umana, è divenuto sempre meno funzionale agli equilibri sociali e perciò sempre meno accettato, con la conseguenza di essere crescentemente sospinto ai margini e anche oltre i margini della legge. Si pensi a tutte le regole igieniche e sanitarie, chiaramente concepite per definire igienico il veleno industriale e antigienico l’orto individuale; si pensi alle regole sul copyright, che praticamente considerano illegale tutto ciò che non nasce e muore in forma di merce; si pensi alle normative sulla sicurezza, che presuppongono la fabbrica come luogo “naturale” della produzione.
L’autoproduzione, comunque la si guardi, non riesce proprio ad essere legale: prima ancora che a causa dell’ostilità aperta dell’industria (che vi intuisce una concorrenza inafferrabile) e dello stato (che vi scorge un’evasione totale dal meccanismo fiscale), a causa della sua indefinibilità. E’ una materia su cui è impossibile legiferare validamente: è un terreno in cui, per definizione, ciascuno fa quel che gli pare. Se non gli permetti di agire così, smette. Per ricominciare da un’altra parte. E’ l’equivalente del nomadismo in campo produttivo, contraddice apertamente i principi fondanti della società capitalista ma è assurdo sperare di cancellarla.
L’autoproduzione è perciò, diciamolo pure, costitutivamente anarchica.
Questa sua caratteristica e la sua crescente diffusione, a partire dagli anni Sessanta, in ambiti che allora si chiamavano alternativi e magari oggi si chiamerebbero antagonisti, hanno alimentato una buffa allucinazione, tuttora ben presente e attiva: secondo la quale, se ciascuno abbandonasse il lavoro industriale e la vita metropolitana, ripudiando i consumi permessi e disponendosi ad autoprodurre secondo le proprie inclinazioni, la società delle merci magicamente finirebbe per crollare, denunciandosi per quell’incubo noioso che, in effetti, é.
In una specie di picnic mondiale, bambinoni malcresciuti, vestiti di braghette e canottiera, zappettando e fornicando con le zolle, assedierebbero la moribonda metropoli capitalista e, infine, il mondo, al grido di “ben zappato, vecchio castoro” entrerebbe infine in un futuro vegetale e vegetativo, restituito infine all’insignificante ciclo della natura.
A questa illusione è andata, di pari passo, contrapponendosi un’altra posizione estrema: che poiché solo lo scontro fra le classi ha la capacità di cambiare la storia, tutte queste attività individuali, sarebbero inutili, se non perniciose, perché tali da distrarre, da deviare la giusta rabbia delle masse, facendo loro balenare dinanzi la mitica “isola felice” tanto odiosa agli occhi di tutti i militanti e paladini del sacrificio, dell’abnegazione, della “lotta dura e oscura”.
La contrapposizione rumorosa e reiterata di queste due posizioni ha finito per mascherare la comune origine dell’equivoco che le rende entrambe parziali e sostanzialmente infondate: il capitalismo non si esaurisce semplicemente nel modo di produzione industriale, ma è costituito da un intreccio di relazioni sociali, mediate dalle merci e dalla loro immagine riflessa all’infinito. Per cui non basta produrre diversamente, come si illudono i promotori di mille piccole attività destinate a fallire o a rifluire nell’infaticabile betoniera dell’economia; e meno ancora può bastare sostituire i responsabili del controllo sull’economia, mantenendone intatti i meccanismi mortiferi, dalla produzione di massa al consumo passivo e vorace del mondo intero. La storia ce ne ha fornito inequivocabile prova, mostrandoci la desertificazione progressiva delle illusioni controculturali di qualche decennio orsono, insieme con i sanguinosi fallimenti dei tentativi con cui le sinistre di governo hanno pretese di suddividere equamente le nocività del mondo, senza scalfirne la sostanza. L’autoproduzione, non può – per sua stessa natura – risolvere la questione cardinale del nostro tempo: l’urgenza dell’autoliberazione dal dominio dell’economia. Farne il centro di un simile progetto, la prefigurazione già in atto di un libero futuro, di una sedicente “società comunista o anarchica” significherebbe subordinare la libertà alla necessità, cui sarebbe una volta ancora demandata l’incombenza di dettare ritmi e priorità della condizione umana.
Ma, sgombrato il terreno da questi equivoci teorici, va detto che, di svantaggi pratici, le autoproduzioni ne presentano uno solo, ancorché assai rilevante: l’aumento inevitabile, evidente e sensibile della fatica, perlomeno nelle fasi iniziali e qualora si operi da soli o in pochi. Oggi, comprare è più facile, più comodo, più rapido, più ECONOMICO, che produrre personalmente. Soprattutto perché occorre una lunga sperimentazione e un’ampia rosa di interventi nella propria vita per riuscire a ridurre il tempo di lavoro comunque venduto per acquistare tutto ciò che non si è in grado di produrre o di farsi donare. Per conseguenza, l’autoproduzione rimane solitamente confinata nel tempo libero, nell’età della pensione o della marginalità nella attesa di uno stabile impiego, decadendo facilmente a hobby. O, peggio ancora, si converte in un secondo lavoro, a fianco del primo, riverberando su di esso un’illusione di libertà, e ricavandone in cambio un riflesso di sottomissione e di ripetitività coatta. O, peggio di tutto, si trasforma essa stessa in un’impresa economica finalizzata alla rivendita e al commercio, riciclando sogni e realtà di una piccola avventura autentica nel mare di merda dell’alienazione sociale.
Tutto ciò ci indica chiaramente che le sperimentazioni in cui ciascuno di noi può procedere nell’ambito dell’autoproduzione possono rimanere entusiasmanti o anche solo interessanti soltanto all’interno di un processo di critica permanente delle proprie condizioni individuali di esistenza, e della vita quotidiana della società nel suo complesso. Separate da tale critica, queste esperienze non farebbero che bruciare la propria verità particolare sull’altare della falsificazione generale dominante, quella che separa ciascuno dai propri sogni, per poterglieli rivendere a rate dopo che sono già scaduti.
Ma proprio la consapevolezza dei limiti intrinseci di ciò che le autoproduzioni possono porre a nostra disposizione, può permetterci di apprezzarne i tanti e tanti vantaggi reali: ne enumereremo alcuni, ma molti di più ciascuno di noi potrà scoprine e sperimentarne attraverso la pratica.
1) la qualità degli oggetti e dei servizi prodotti direttamente è incomparabilmente migliore di quella delle merci in circolazione; in considerazione del fatto che lavoratore, luogo di produzione e consumatore finale coincidono, l’adulterazione volontaria può essere esclusa
2) il controllo diretto e immediato su tutti i passaggi della produzione consente ad un tempo di viverli a fondo e di demistificare il feticismo che la merce sempre porta con sé
3) La riduzione degli sprechi che discende dalla fatica stessa di lavorare in prima persona: mentre l’illusione della produzione industriale, di ridurre la fatica, induce a una sovrapproduzione strutturale, che devasta il mondo e lo riempie di detriti. L’impatto ambientale delle autoproduzioni è quello permesso dalle forze di ogni singolo produttore
4) il piacere di utilizzare oggetti unici, che fanno parte della nostra memoria, con i quali abbiamo costruito una familiarità, che portano inscritte le ore di lavoro magari necessarie a produrli, i sogni, i desideri, lo scorrere del tempo
5) la possibilità di donare qualcosa di unico, fatto con le nostre mani alle persone che ci sono care; o di ricevere doni analoghi da altri
6) la sperimentazione di momenti individuali non comprati e non venduti, in cui ci si regola rigorosamente e unicamente a partire dal principio del piacere
7) la sperimentazione di relazioni in cui non si compra e non si vende, ma si collabora e si gareggia, si apprende e si trasmette l’esperienza
8) la verifica della capacità di dare consistenza ai propri desideri, di realizzare i propri sogni,
9) il piacere di fare qualcosa mossi unicamente da noi stessi, senza dover rispondere ad alcun impegno con altri, senza obblighi;
10) il piacere di darsi regole proprie e propri tempi, di poterli giudicare e modificare senza render conto a nessuno
11) il piacere di agire visibilmente in maniera conforme con le proprie passioni e con le proprie idee, di non essere in contraddizione con sé stessi, di non scavare da soli la propria fossa
12) la sperimentazione dei piaceri che possono derivare dalla fatica e dal confronto aspro con la rigidezza della realtà, comparabili in qualche maniera con quelli che ci derivano da cimenti sportivi difficili o pericolosi in cui ci chiamiamo a misurare la nostra forza, la nostra pazienza, la nostra resistenza, la nostra volontà, la nostra caparbietà
13) la capacità di restituire peso alle cose, di risvegliare l’acutezza dei nostri sensi, di rendere percepibili tanto la fatica quanto il piacere, il desiderio quanto la soddisfazione
14) il piacere e la sfida della scelta, la coscienza che ogni qual volta si fa qualcosa si rinuncia ad ogni attività che non sia quella; il rifiuto dell’onnipotenza passiva del consumatore
15) il piacere di contribuire a imprimere una diversa forma al mondo, quando si tratti di attività intese a creare qualcosa di durevole; o di collaborare alla sua sopravvivenza, qualora si tratti di attività intese al consumo
16) L’attenzione portata in uguale misura al "prodotto finito" come al percorso, al processo, ai protagonisti coinvolti
17) Il suo radicamento non nella specializzazione ma nel gioco libero delle preferenze, incrementando infinitamente le capacità (nessuno specialista salariato di una materia potrà mai competere con un appassionato della medesima materia che sappia attrezzarsi convenientemente; il grosso dello sviluppo informatico si deve inizialmente all’opera gratuita e creativa di dilettanti) senza andare a discapito della sensibilità unitaria
18) L’occasione di identificare concretamente, ciascuno secondo le proprie specificità e all’interno delle proprie relazioni, i varchi tramite i quali la concezione economica dell’esistente penetra nella nostra vita, rendendocela oscura e nemica.
19) il piacere di non pagare le tasse, di boicottare, sia pure in misura piccolissima, la riproduzione del “socio occulto” di ogni nostro singolo atto, lo Stato, che oltre a pretendere di determinare il senso complessivo delle nostre esistenze, è ferocemente impegnato a ricavare una cifra (variabile da Stato a Stato, ma approssimativamente vicina al cinquanta per cento di ogni attività economica individuale) e che perciò trova un diretto tornaconto nel dare forma economica a ogni attività.
20) La sovversione implicita, non tanto nel progetto in sé, ma piuttosto nella sperimentazione individuale della soluzione diretta delle questioni che ci riguardano, esperienza che la società capitalista cerca in ogni modo di precluderci
21) La possibilità di liberarci progressivamente dalla centralità che il lavoro si è conquistato riducendo le nostre vite ad imprese economiche, costantemente tese a ricalcolare costi-benefici, profitti e perdite, budget e investimenti
22) la fiducia di sapersi sperimentati in attività difficili, non alla portata di tutti, che potrebbero rivelarsi, in futuri momenti di emergenza, essenziali per noi stessi e magari per molti altri; la consapevolezza di essere quanto più possibile all’altezza di ogni imprevisto
23) Autoprodurre non prevede autorizzazioni, permessi, esami, abilitazioni
24) Si può incominciare oggi stesso
P.K. giugno 2002