Ubu Roi Enrico Baj |
Non sappiamo se verrà mai un tempo in cui
dei miti si sarà capaci di fare a meno.
Per quanto si scavi nel passato, parrebbe
di scoprire che abbiano accompagnato sempre le primitive aggregazioni umane, le
comunità, le nazioni e ora la società mondiale, in cui tutti siamo compressi e
ammassati. Pare che sia sempre stato necessario disporre di una cornice di
riferimento in cui inscrivere le pretese più o meno bizzarre di conferire un
senso alla presenza umana sulla Terra.
Perché a questo sono sempre serviti i miti,
a distrarre e a consolare e a sublimare esistenze confrontate con la profonda
futilità dell’esserci e con la totale irrealtà dell’essere: ma questa pretesa
di imporre un senso collettivo cui sottomettere le singole esistenze
individuali, se forse risponde a una passione del singolo, che infantilmente
cerca fuori di sé la cagione della propria presenza, risponde tuttavia
sicuramente a una necessità di quella parte di società che desidera detenere il
senso dell’esistenza collettiva, al fine di manipolarlo a proprio vantaggio.
Infatti, individui consapevoli della
sostanziale impermanenza di tutto ciò che esiste, dell’inesistenza di
qualsivoglia disegno indipendente da loro, che verrebbe da lontano e
proseguirebbe dopo la loro morte, risulterebbero difficilmente disposti a
sacrificare questo breve periodo di esistenza.
Uno dei sintomi più eloquenti
dell'assunzione del potere da parte della borghesia, lo si può scorgere nella
progressiva migrazione del mito dall'ambito religioso all'ambito economico.
L'affermarsi delle due moderne religioni
del libro, il cristianesimo e l'Islam, aveva già provveduto a introdurre nelle
società europee e mediterranee il concetto di popolo di Dio, e del suo
procedere nel tempo dalla creazione verso il Paradiso. La vita del singolo
percepita come percorso di esperienza, di purificazione, di messa alla prova, si
trovava così inscritta in un percorso collettivo. La storia in questo modo
cessa di essere la cronaca degli eventi, quale la si era ereditata dai pagani,
per convertirsi in un grande disegno intelligente, il vero ambito dell'adesione
del singolo al progetto divino.
Quando nel Settecento la borghesia rampante
principia a configurare una propria filosofia della storia e una propria
visione di progresso, affrancate dalla religione, agisce in ogni caso su una
società già profondamente segnata dall'idea che esisterebbe un senso nelle
umane vicende indipendente dalle decisioni e dal giudizio del singolo.
La storia come religione, il mito della
storia come disegno dotato di una propria autonomia e di proprie leggi, è
precisamente il ponte che fa transitare la vecchia mitologia della creazione,
della valle di lacrime, del paradiso da meritare nella mitologia moderna del
progresso illimitato e permanente.
Poiché la brevità stessa della vita mina la
pretesa di costruire aggregazioni durevoli che da questa brevità possano
prescindere, è precisamente il tempo l’ambito in cui l’alienazione deve
radicarsi. Perché il mito è semplicemente questo: una fonte di alienazione.
Per conseguenza, i suoi territori di
elezione sono tre: il passato, il futuro e non già il presente, che è esattamente
ciò che di diabolico deve essere estromesso dall’esperienza, ma il processo che
dal passato procede verso il futuro: é accaduto qualcosa, accadrà qualcosa, sta
accadendo qualcosa: in ogni caso una forza esterna ci trasporta. Per la libertà
non rimane posto.
Beninteso, molte religioni e moltissime
filosofia della storia (due a caso: il cristianesimo e l’idealismo) parlano
della libertà, come fondamento dell’azione umana. Peccato che, come in tutti
monologhi del potere, la falsificazione risieda non tanto nella risposta ma
nella domanda. In questi casi infatti, viene attribuita al singolo una
fantomatica “libertà” semplicemente per poterlo incolpare di ciò che accade, e
particolarmente di ciò che GLI accade. Poiché gli è concesso di scegliere senza
costrizione alcuna fra i veleni che gli vengono offerti, allora quando muore,
la colpa è stata sua. Mentre il bene appartiene a Dio, oppure alla storia,
questo dio impersonale tirato fuori dal cappello degli illusionisti borghesi;
il male va tutto sul conto del singolo, chiamato a pagare il debito collettivo,
personalmente, con l’unica vita che ha e della quale non è autorizzato a disporre
mai.
In realtà, non è difficile osservare che il
modulo di riferimento tanto dei miti in veste religiosa, tanto di quelli
recenti di tema socioeconomico, è sempre il medesimo: in passato c’è stata la
caduta (Adamo ed Eva che mangiano la mela, l’introduzione della divisione del
lavoro, l’accumulo dissennato del debito pubblico), in futuro ci sarà la
redenzione (il paradiso, il comunismo, la realizzazione del benessere per
tutti…). In mezzo c’è il sacrificio, simbolico o comunque contemplato nella sua
forma più cruenta (la crocifissione, i nostri morti, il default dei popoli sfortunati),
reale nella sua forma grigia e quotidiana di militanza nel lavoro, nel consumo,
nell’obbedienza, nella rinuncia. Il tutto scandito dalla parola dei grandi
profeti morti e dei piccoli sacerdoti vivi
In questo modo, le panzane più
inverosimili, che non resisterebbero all’osservazione di un bambino che avesse
da poco imparato a leggere, vengono viceversa ammannite e scambiate senza
vergogna, in quantità talmente smisurate che anche i più avvertiti faticano a
sottrarsi totalmente al delirio. Tralasciamo pure di commentare le vecchie
assurdità delle religioni, le transustanziazioni, le assunzioni in cielo, le
immacolate concezioni: hanno già provveduto i nuovi mentitori a farsene beffe.
Ma per meglio qualificare la nuova ondata di sproloqui, la storia, la lotta di
classe, la dialettica materialista, l’abolizione dello Stato attraverso la
dittatura del proletariato. Oppure, visto che anche le ideologie presentano la
stessa deperibilità accelerata che caratterizza sempre di più tutte le merci,
l’attuale mito adatto per quest’epoca di accresciuto disincanto: lo sviluppo
permanente, la democrazia, il benessere da conseguire attraverso i sacrifici
connessi con il saldo di un debito che nessuno ricordava di avere mai
contratto.
La modernità è essa stessa un mito, per
molti aspetti uguale e contrario a quelli dell’antichità. Se un tempo si era
fissata l’età dell’oro nel passato (siamo nani sulle spalle di giganti: il
presente come inarrestabile decadenza dalla grandezza dei predecessori) e in
seguito, sulla spinta della cultura ebraica, nel futuro (l’anno venturo a
Gerusalemme, i vari paradisi, non escluso quello socialista), oggi lo
sgretolarsi miserando dello sviluppo e delle sue illusioni triviali, indica
chiaramente di volerci condannare al presente.
Ma ad un presente “senza sogno e senza
realtà”, in cui l’alienazione da giustificatoria come nella classicità oppure
consolatoria come nella modernità, diviene una mescolanza di tedio e di
angoscia dal momento che l’intera giornata è divenuta tempo di produzione (o,
per meglio precisare: di consumo produttivo), essa ha finito per
essere risucchiata dal karma disgraziato del capitalismo, quello che Marx aveva
definito “la caduta tendenziale del saggio di profitto”. Tradotto in altre
parole: la necessità di investimenti ogni giorno più imponenti per realizzare
gli stessi profitti del giorno prima.
Anche nell’esistere quotidiano l’esperienza
è la medesima: lo sforzo non basta mai e l’esito è sempre più evanescente. Come
su un tapis-roulant, si deve correre a perdifiato per non esser portati via dal
vento mefitico delle immagini. Che dobbiamo scambiarci ad un ritmo sempre più
parossistico, senza respiro alcuno.
Mentre vi è
una sovrapproduzione di merci rispetto non tanto alla necessità quanto
piuttosto alle capacità di acquisto, la fame di illusioni rimane insaziata,
perché ciascun nuovo feticcio si presenta ad un pubblico ormai inguaribilmente
deluso, che dietro i lustrini già occhieggia la data di scadenza. Pur radicalmente
disillusi, si pasteggia ad illusioni tuttavia, ma senza riuscire più a
pervenire ad un soddisfacimento ragionevole.
il fantasma della libertà - Luis Bunuel 1974 |
Ma avere smascherato, in ritardo ma con sempre
maggiore tempestività, i falsificatori di caratura mondiale, non basta a
ristabilire la verità. Che potrà essere conseguita solo attraverso un radicale
processo di decrescita esteso anche al consumo e alla produzione di ideologie, come
già si è compreso, in molti, di dover fare per le merci materiali.
Infatti, il meccanismo di produzione, circolazione
e consumo di miti è talmente radicato nella nostra esperienza quotidiana da
indurci ad avvalercene per conferire tratti carismatici e arcani alla nostra
azione, per renderla capace di competere sul mercato delle apparenze e per
valorizzare le nostre vite reali, dando loro i tratti mistici della militanza
e, una volta ancora, del sacrificio. E così anche coloro che si dichiarano, e
si dipingono ai propri stessi occhi, come immuni dalle illusioni collettive, che
fonderebbero la propria azione unicamente su sé stessi, non rinunciano spesso a
costruire nuove gabbie del pensiero e dell’azione, e nuovi feticci verso cui
porsi ginocchioni, come a qualcosa che sfuggirebbe al giudizio del singolo.
E si tratterà di volta in volta di
idealizzazioni della natura e della storia, del manipolo dei vari anti-
(antifascismo, antisessismo, antispecismo, antirazzismo, ma di sicuro se ne
aggiungeranno di nuovi), di ipostatizzazioni di condotte (si pensi all’ossequio
per il concetto di “azione diretta”, reso elastico fino a comprendere un gran
numero di azioni che non hanno nulla di diretto), fino alla magica stessa idea
di “rivoluzione”.
Per quanto ci sia sforzati, si è ancora
lontani dall’avere definitivamente accettato che esistono unicamente i singoli
e le loro brevi e transitorie presenze, nell’ambito delle quali ciascuno può,
se crede, cercare di agire secondo le proprie passioni nel modo che ritiene il
migliore, per il solo piacere di evadere per qualche momento dal nulla, cui in
ogni caso faranno tutti ritorno. Per il piacere di tracciare, alla maniera di
uno sberleffo, un confine visibile fra la vita e la non-vita
Paolo Ranieri per “La melma dei giorni n. 6 - giugno 2012”
Paolo Ranieri per “La melma dei giorni n. 6 - giugno 2012”