La realtà della distruzione programmata dell’ecosostema
del vivente a fini mercantili si appoggia sullo spettacolo di una coscienza
ipocrita del problema ecologico.
Il summit della terra a Rio di questi giorni è stato
l’ultimo atto di questo osceno spettacolo.
Per la prima volta nel 1972 una conferenza della Nazioni
Unite aveva fatto esplicitamente riferimento nel titolo alla questione
ambientale. Non a caso nello stesso anno il Club di Roma aveva pubblicato il
suo famoso rapporto sui “limiti dello
sviluppo e della crescita” allertando sul fatto che il sistema economico
mondiale finora concepito era destinato a crollare entro 60 anni (nel 2032, dunque,
con buona pace dei Maya e soprattutto dei loro adepti postmoderni).
All’apertura della conferenza, a Stoccolma, il canadese
Maurice Strong dichiara: “L’umanità ha
poche possibilità di riuscire a gestire il suo rapporto con la natura se non
impara a gestire meglio i rapporti tra esseri umani”.
Un tale allarme sensato ha contribuito, in realtà, ad
arricchire la coscienza in fieri della necessità di una rottura del dogma della
crescita senza fine e dunque di una sensibilità nuova incompatibile con il
capitalismo di destra e di sinistra, barbarico o socialista.
Un modo di produzione fino ad allora osteggiato soltanto
dalla coscienza del proletariato - che ne subiva da secoli lo sfruttamento
economico e l’alienazione sociale, sprovvisto, tuttavia, della minima coscienza
ecologica -, si trovava ormai a dover lottare anche contro il nuovo apporto
alla coscienza umana da parte della natura e del suo rifiuto spontaneo e
organico di sottomettersi al delirante utopismo produttivista.
Questa forma nascente della coscienza sociale ha innescato,
quasi senza saperlo, la necessità di togliere il potere dalle mani delle lobby
che gestiscono la democrazia rappresentativa come modo di governo della società
spettacolare mercantile. Da questa novità diventata oggi matura e urgente, è rinato
attualizzato quel progetto di democrazia diretta portatore di una rivoluzione
planetaria ancora più grande di quella che ha portato la borghesia al potere
nel 1789.
Solo la ripresa nelle proprie mani del loro destino da
parte degli individui reali e dei loro interessi umani ormai incompatibili con
il capitalismo, infatti, è in grado di affrontare la questione dell’ambiente in
legame diretto con la questione sociale.
Ogni altro modo di occuparsi dell’ambiente, invece, è un
alibi gattopardesco, una strategia della gestione mafiosa della società
capitalista in decomposizione, ormai obbligata per sopravvivere a un vampirismo
cinico e ottuso tanto sugli uomini che sulla natura.
Si staglia ormai come un’evidenza che una tal predazione
nichilista ha il solo scopo di procrastinare una valorizzazione economica che sta
portando il mondo alla catastrofe.
Da quella data fatidica, il 1972, coincidente con la
definitiva sconfitta del movimento delle occupazioni del 1968 e con il tragico
recupero di molti rivoluzionari nell’ideologia controrivoluzionaria della lotta
armata, con la reintroduzione della penuria in una società che aveva fallito
miseramente il suo primo tentativo di utopia consumistica e con la
sacralizzazione demenziale del lavoro salariato, ogni dieci anni fino a oggi,
un summit hollywoodiano sul tema dell’ambiente si è svolto per meglio rendere
sostenibile la continuità del business planetario nocivo agli umani e alla
natura del vivente.
I sessanta anni previsti nel 1972 stanno per scadere. Chissà
se ci sarà una proroga da parte di una natura particolarmente generosa, ma
certo l’impatto finale con un mondo finito e con la fragilità di un ecosistema
sconvolto è ineluttabile senza un rapido cambiamento radicale di prospettiva.
Un tale cambiamento, però, è impossibile senza
l’abolizione del totalitarismo economicista gestito dalla democrazia
rappresentativa e dalla pletora di Stati canaglia che la incarnano.
Tutto il potere ai
consigli di autogestione della vita quotidiana, dal locale al planetario. In questo
semplice progetto libertario è racchiusa l’ultima speranza di salvezza prima
della fine.
Altro che crisi della finanza, una povertà ancor più
radicale si profila all’orizzonte : nessuno potrà respirare la crescita
economica al posto dell’aria, bere l’aumento del Pil al posto dell’acqua,
mangiare delle banconote quando le megalopoli saranno ridotte a deserti di
plastica e cemento.
Sullo sfondo di questo delirio programmato da banchieri,
economisti, politici, guerrieri, martiri e servitori volontari, aleggia la
coscienza infelice e impotente di star preparando davvero la soluzione finale: il
sacrificio della specie e di tutto il biosistema in nome di un ultimo profitto
nella roulette russa della redditività.
Questa, in breve, dopo
il 1972, la favolosa storia decennale dei summit sull’ambiente fino a oggi:
1982, a Nairobi si è istallato il Pnue (programma delle nazioni
unite per l’ambiente) ma il summit abortisce miseramente nel clima di guerra
fredda e tensioni internazionali (Restano comunque ancora 50 anni di tempo
prima del crollo ipotizzato).
1992, a Rio, in un contesto geopolitico ottimistico, pieno di
speranze e di volontarismo in seguito alla caduta del muro di Berlino e della
transizione in atto dei paesi cosiddetti comunisti, la Terra si invita per la prima
volta al tavolo dei negoziati. 172 paesi sono rappresentati con la presenza di
108 capi di Stato.
“Fate in modo che i
vostri atti riflettano le vostre parole” li esorta il dodicenne Severn
Suzuki in nome delle generazioni future.
In venti anni la polazione mondiale è appena passata da
3,5 miliardi a 5 miliardi di abitanti e lo stato del pianeta s’aggrava.
Contro il catastrofismo, a Rio si propone la
controffensiva. Appoggiandosi sul rapporto del 1987 (Our Commun Future) di Harlem Brundtland, presidente norvegese della
Commissione mondiale indipendente sull’ambiente e sullo sviluppo - che
stabilisce l’insostenibilità a lungo termine del tasso di crescita sia nei
paesi industrializzati che in quelli in via di sviluppo -, si propone uno “sviluppo sostenibile” compatibile con i
limiti di assorbimento e di rigenerazione dell’ecosistema.
“L’umanità ha la
capacità di mettere in atto lo sviluppo sostenibile così da poter soddisfare i
bisogni del presente senza compromettere la possibilità per le generazioni
future di far fronte ai propri bisogni”.
Questo primo summit di Rio associa ambiente e sviluppo,
consacrando il principio di sviluppo sostenibile insieme a quello della “responsabilità comune e differenziata di
ogni paese” in funzione del grado di sviluppo.
L’Agenda 21, programma per il XXI° secolo, è adottata
sottolineando le azioni richieste per uno sviluppo sostenibile, dal locale al
globale.
Appare per la prima volta la necessità di una strategia
planetaria comune della questione ecologica, politica e economica rompendo con
l’abitudine di trattare le componenti separatamente. Emerge così la consapevolezza
rivoluzionaria che solo l’istaurazione di una democrazia direttamente in mano
ai soggetti reali della comunità umana può permettere il cambiamento di civiltà
necessario.
I summit, però, diciamocelo chiaramente, sono fatti per
evitare le rivoluzioni e non per renderle possibili. Così Rio si conclude con
una Dichiarazione sull’ambiente e lo
sviluppo e con l’elaborazione di tre grandi convenzioni ambientali
(mutamenti climatici, diversità biologica, lotta contro la desertificazione). Rio
resta, dunque, il punto più alto di una coscienza infelice, impotente ad agire
seppur fondatrice della cooperazione possibile contro il mutamento climatico e
il declino della biodiversità. Contro questa pur fragile coscienza affiorante
si spiegherà negli anni seguenti uno sforzo lobbistico importante nel
ridicolizzare la questione del clima da parte di pseudoscienziati mercenari al
soldo del business produttivista (Ancora 40 anni di tempo, secondo la profezia
del Club di Roma).
Nel 2002 il summit di Johannesbourg finisce per essere
un’enorme delusione.
Il discorso di Chirac “La nostra casa brucia e noi guardiamo altrove. La natura mutilata,
ipersfruttata, non riesce più a ricostituirsi e noi rifiutiamo di ammetterlo”
è ricco di uno slancio critico che non si traduce in nessuna azione concreta.
Sepolte le speranze di cambiamento del 1992, il
neoliberalismo trionfante si accontenta di un piano di messa in atto
dell’Agenda 21 senza obblighi di sorta.
Parole che non corrispondono agli atti, anzi. Sono
infatti le grandi imprese che s’impadroniscono della palla al balzo dello
sviluppo sostenibile facendolo proprio per prevenire ogni costrizione e ogni
obbligo contro il dogma produttivista.
Più di cento PDG dei grandi gruppi industriali sono
presenti per imporsi come i parners privilegiati delle Nazioni Unite. Le lobby
schiacciano il resto della società civile, le ONG sono relegate su un sito a 50 Km dal summit ufficiale.
Il quale si conclude con decine di partenariati tra pubblico e privato e con il
trionfo degli interessi economici sulle preoccupazioni ambientali e sociali. (Mentre
restano ancora trent’anni prima del crollo previsto dai catastrofisti).
2012, sotto l’egida dell’ONU, 120 capi di Stato e di
governo si riuniscono di nuovo a Rio, in Brasile, per rilanciare i negoziati
sullo sviluppo sostenibile mentre la popolazione umana ha appena superato i 7
miliardi e settecento milioni di anime (e soprattutto di corpi).
La situazione geopolitica è sottosopra. Una crisi
finanziaria senza precedenti scuote le economie dei paesi del nord da quattro
anni, mentre la parola dei paesi emergenti (emergenti nel mare di merda consumistica
altamente inquinato della società produttivista planetaria), come la Cina, l’India e il Brasile,
acquista un peso rilevante.
Il 43% della popolazione mondiale vive con meno di 2 dollari
al giorno, un miliardo e trecento milioni di individui sono senza elettricità
mentre quasi tre miliardi di persone sono ancora costretti a metodi di cottura del
cibo altamente nocivi per la salute, soprattutto in India (836 milioni), nel
resto dell’Asia (661 milioni) e nell’Africa subsahariana (653 milioni).
Metà della popolazione mondiale vive in città
dall’urbanistica patologica e criminalizzante, tra cui 20 megalopoli con più di
10 milioni di abitanti.
La concentrazione di CO2 nell’atmosfera (la cui emissione
è per il 18% Usa e per il 24% Cina) è passata da 280 parti per milione nel 1850 a quasi 400 parti per
milione nel 2010 !
Il 75% delle superfici coltivabili è ormai accaparrato
dalle monoculture produttivistiche (soja, palma da olio, canna da zucchero)
mentre la deforestazione continua.
Solo la metà dei dirigenti presenti al G8 si fa viva a
Rio: niente Obama, Merkel, Cameron e Hu Jintao.
Come spot pubblicitario per le opinioni pubbliche
idiotizzate e terrrorizzate dalla
“CRISI” si propone il concetto di economia verde e il miglioramento della
governabilità mondiale a partire dal 2015, mentre gli anni che ci separano dall’ipotetico
punto di sfondamento si riducono a una ventina.
Niente paura, la crescita scenderà dal cielo a salvare il
pianeta mentre sullo schermo la parola fine si staglia sul culo del cavallo su
cui John Waine trotta dritto e fiero verso il tramonto definitivo dell’homo œconomicus.
Sergio Ghirardi