giovedì 21 giugno 2012

RIO BRAVO 2012 Oscar per la migliore finzione di fronte alla vera catastrofe che si avvicina




 
La realtà della distruzione programmata dell’ecosostema del vivente a fini mercantili si appoggia sullo spettacolo di una coscienza ipocrita del problema ecologico.
Il summit della terra a Rio di questi giorni è stato l’ultimo atto di questo osceno spettacolo.

Per la prima volta nel 1972 una conferenza della Nazioni Unite aveva fatto esplicitamente riferimento nel titolo alla questione ambientale. Non a caso nello stesso anno il Club di Roma aveva pubblicato il suo famoso rapporto sui “limiti dello sviluppo e della crescita” allertando sul fatto che il sistema economico mondiale finora concepito era destinato a crollare entro 60 anni (nel 2032, dunque, con buona pace dei Maya e soprattutto dei loro adepti postmoderni).
All’apertura della conferenza, a Stoccolma, il canadese Maurice Strong dichiara: “L’umanità ha poche possibilità di riuscire a gestire il suo rapporto con la natura se non impara a gestire meglio i rapporti tra esseri umani”.
Un tale allarme sensato ha contribuito, in realtà, ad arricchire la coscienza in fieri della necessità di una rottura del dogma della crescita senza fine e dunque di una sensibilità nuova incompatibile con il capitalismo di destra e di sinistra, barbarico o socialista.
Un modo di produzione fino ad allora osteggiato soltanto dalla coscienza del proletariato - che ne subiva da secoli lo sfruttamento economico e l’alienazione sociale, sprovvisto, tuttavia, della minima coscienza ecologica -, si trovava ormai a dover lottare anche contro il nuovo apporto alla coscienza umana da parte della natura e del suo rifiuto spontaneo e organico di sottomettersi al delirante utopismo produttivista.
Questa forma nascente della coscienza sociale ha innescato, quasi senza saperlo, la necessità di togliere il potere dalle mani delle lobby che gestiscono la democrazia rappresentativa come modo di governo della società spettacolare mercantile. Da questa novità diventata oggi matura e urgente, è rinato attualizzato quel progetto di democrazia diretta portatore di una rivoluzione planetaria ancora più grande di quella che ha portato la borghesia al potere nel 1789.
Solo la ripresa nelle proprie mani del loro destino da parte degli individui reali e dei loro interessi umani ormai incompatibili con il capitalismo, infatti, è in grado di affrontare la questione dell’ambiente in legame diretto con la questione sociale.
Ogni altro modo di occuparsi dell’ambiente, invece, è un alibi gattopardesco, una strategia della gestione mafiosa della società capitalista in decomposizione, ormai obbligata per sopravvivere a un vampirismo cinico e ottuso tanto sugli uomini che sulla natura.
Si staglia ormai come un’evidenza che una tal predazione nichilista ha il solo scopo di procrastinare una valorizzazione economica che sta portando il mondo alla catastrofe.
Da quella data fatidica, il 1972, coincidente con la definitiva sconfitta del movimento delle occupazioni del 1968 e con il tragico recupero di molti rivoluzionari nell’ideologia controrivoluzionaria della lotta armata, con la reintroduzione della penuria in una società che aveva fallito miseramente il suo primo tentativo di utopia consumistica e con la sacralizzazione demenziale del lavoro salariato, ogni dieci anni fino a oggi, un summit hollywoodiano sul tema dell’ambiente si è svolto per meglio rendere sostenibile la continuità del business planetario nocivo agli umani e alla natura del vivente.
I sessanta anni previsti nel 1972 stanno per scadere. Chissà se ci sarà una proroga da parte di una natura particolarmente generosa, ma certo l’impatto finale con un mondo finito e con la fragilità di un ecosistema sconvolto è ineluttabile senza un rapido cambiamento radicale di prospettiva.
Un tale cambiamento, però, è impossibile senza l’abolizione del totalitarismo economicista gestito dalla democrazia rappresentativa e dalla pletora di Stati canaglia che la incarnano.
Tutto il potere ai consigli di autogestione della vita quotidiana, dal locale al planetario. In questo semplice progetto libertario è racchiusa l’ultima speranza di salvezza prima della fine.
Altro che crisi della finanza, una povertà ancor più radicale si profila all’orizzonte : nessuno potrà respirare la crescita economica al posto dell’aria, bere l’aumento del Pil al posto dell’acqua, mangiare delle banconote quando le megalopoli saranno ridotte a deserti di plastica e cemento.
Sullo sfondo di questo delirio programmato da banchieri, economisti, politici, guerrieri, martiri e servitori volontari, aleggia la coscienza infelice e impotente di star preparando davvero la soluzione finale: il sacrificio della specie e di tutto il biosistema in nome di un ultimo profitto nella roulette russa della redditività.


Questa, in breve, dopo il 1972, la favolosa storia decennale dei summit sull’ambiente fino a oggi:

1982, a Nairobi si è istallato il Pnue (programma delle nazioni unite per l’ambiente) ma il summit abortisce miseramente nel clima di guerra fredda e tensioni internazionali (Restano comunque ancora 50 anni di tempo prima del crollo ipotizzato).

1992, a Rio, in un contesto geopolitico ottimistico, pieno di speranze e di volontarismo in seguito alla caduta del muro di Berlino e della transizione in atto dei paesi cosiddetti comunisti, la Terra si invita per la prima volta al tavolo dei negoziati. 172 paesi sono rappresentati con la presenza di 108 capi di Stato.
Fate in modo che i vostri atti riflettano le vostre parole” li esorta il dodicenne Severn Suzuki in nome delle generazioni future.
In venti anni la polazione mondiale è appena passata da 3,5 miliardi a 5 miliardi di abitanti e lo stato del pianeta s’aggrava.
Contro il catastrofismo, a Rio si propone la controffensiva. Appoggiandosi sul rapporto del 1987 (Our Commun Future) di Harlem Brundtland, presidente norvegese della Commissione mondiale indipendente sull’ambiente e sullo sviluppo - che stabilisce l’insostenibilità a lungo termine del tasso di crescita sia nei paesi industrializzati che in quelli in via di sviluppo -, si propone uno “sviluppo sostenibile” compatibile con i limiti di assorbimento e di rigenerazione dell’ecosistema.
L’umanità ha la capacità di mettere in atto lo sviluppo sostenibile così da poter soddisfare i bisogni del presente senza compromettere la possibilità per le generazioni future di far fronte ai propri bisogni”.
Questo primo summit di Rio associa ambiente e sviluppo, consacrando il principio di sviluppo sostenibile insieme a quello della “responsabilità comune e differenziata di ogni paese” in funzione del grado di sviluppo.
L’Agenda 21, programma per il XXI° secolo, è adottata sottolineando le azioni richieste per uno sviluppo sostenibile, dal locale al globale.
Appare per la prima volta la necessità di una strategia planetaria comune della questione ecologica, politica e economica rompendo con l’abitudine di trattare le componenti separatamente. Emerge così la consapevolezza rivoluzionaria che solo l’istaurazione di una democrazia direttamente in mano ai soggetti reali della comunità umana può permettere il cambiamento di civiltà necessario.
I summit, però, diciamocelo chiaramente, sono fatti per evitare le rivoluzioni e non per renderle possibili. Così Rio si conclude con una Dichiarazione sull’ambiente e lo sviluppo e con l’elaborazione di tre grandi convenzioni ambientali (mutamenti climatici, diversità biologica, lotta contro la desertificazione). Rio resta, dunque, il punto più alto di una coscienza infelice, impotente ad agire seppur fondatrice della cooperazione possibile contro il mutamento climatico e il declino della biodiversità. Contro questa pur fragile coscienza affiorante si spiegherà negli anni seguenti uno sforzo lobbistico importante nel ridicolizzare la questione del clima da parte di pseudoscienziati mercenari al soldo del business produttivista (Ancora 40 anni di tempo, secondo la profezia del Club di Roma).

Nel 2002 il summit di Johannesbourg finisce per essere un’enorme delusione.
Il discorso di Chirac “La nostra casa brucia e noi guardiamo altrove. La natura mutilata, ipersfruttata, non riesce più a ricostituirsi e noi rifiutiamo di ammetterlo” è ricco di uno slancio critico che non si traduce in nessuna azione concreta.
Sepolte le speranze di cambiamento del 1992, il neoliberalismo trionfante si accontenta di un piano di messa in atto dell’Agenda 21 senza obblighi di sorta.
Parole che non corrispondono agli atti, anzi. Sono infatti le grandi imprese che s’impadroniscono della palla al balzo dello sviluppo sostenibile facendolo proprio per prevenire ogni costrizione e ogni obbligo contro il dogma produttivista.
Più di cento PDG dei grandi gruppi industriali sono presenti per imporsi come i parners privilegiati delle Nazioni Unite. Le lobby schiacciano il resto della società civile, le ONG sono relegate su un sito a 50 Km dal summit ufficiale. Il quale si conclude con decine di partenariati tra pubblico e privato e con il trionfo degli interessi economici sulle preoccupazioni ambientali e sociali. (Mentre restano ancora trent’anni prima del crollo previsto dai catastrofisti).

2012, sotto l’egida dell’ONU, 120 capi di Stato e di governo si riuniscono di nuovo a Rio, in Brasile, per rilanciare i negoziati sullo sviluppo sostenibile mentre la popolazione umana ha appena superato i 7 miliardi e settecento milioni di anime (e soprattutto di corpi).
La situazione geopolitica è sottosopra. Una crisi finanziaria senza precedenti scuote le economie dei paesi del nord da quattro anni, mentre la parola dei paesi emergenti (emergenti nel mare di merda consumistica altamente inquinato della società produttivista planetaria), come la Cina, l’India e il Brasile, acquista un peso rilevante.
Il 43% della popolazione mondiale vive con meno di 2 dollari al giorno, un miliardo e trecento milioni di individui sono senza elettricità mentre quasi tre miliardi di persone sono ancora costretti a metodi di cottura del cibo altamente nocivi per la salute, soprattutto in India (836 milioni), nel resto dell’Asia (661 milioni) e nell’Africa subsahariana (653 milioni).
Metà della popolazione mondiale vive in città dall’urbanistica patologica e criminalizzante, tra cui 20 megalopoli con più di 10 milioni di abitanti.
La concentrazione di CO2 nell’atmosfera (la cui emissione è per il 18% Usa e per il 24% Cina) è passata da 280 parti per milione nel 1850 a quasi 400 parti per milione nel 2010 !
Il 75% delle superfici coltivabili è ormai accaparrato dalle monoculture produttivistiche (soja, palma da olio, canna da zucchero) mentre la deforestazione continua.
Solo la metà dei dirigenti presenti al G8 si fa viva a Rio: niente Obama, Merkel, Cameron e Hu Jintao.
Come spot pubblicitario per le opinioni pubbliche idiotizzate e terrrorizzate  dalla “CRISI” si propone il concetto di economia verde e il miglioramento della governabilità mondiale a partire dal 2015, mentre gli anni che ci separano dall’ipotetico punto di sfondamento si riducono a una ventina.
Niente paura, la crescita scenderà dal cielo a salvare il pianeta mentre sullo schermo la parola fine si staglia sul culo del cavallo su cui John Waine trotta dritto e fiero verso il tramonto definitivo dell’homo œconomicus.



Sergio Ghirardi