Sintesi
da Redazione del Fatto Quotidiano del 6 luglio 2012
Ha ancora senso parlare di democrazia? E soprattutto ha ancora senso
rivendicarla come bandiera di eguale libertà? Da anni si afferma che è malata,
la si accusa, ma le si rimane attaccati come all’ultimo baluardo di libertà e
uguaglianza. Da anni si sente parlare di democrazia zoppa, di
democrazia finita, di democrazia fallita. Ma a cosa ci riferiamo quando
parliamo di democrazia? A una forma utopica e ideale, o a un meccanismo
concreto di gestione del potere capace di ridurre le distanze tra i cittadini?
L’idea di democrazia ha dovuto adeguarsi a molte sollecitazioni, a cambiamenti
sociali così radicali da mettere in crisi non solo le grandi ideologie,
ma anche gli ideali che tenevano insieme popoli e nazioni. Cosa rimane al
concetto e alla pratica democratica dopo l’improvviso accelerare della storia
degli ultimi anni? Cosa dopo decenni di liberismo sfrenato,
dopo crisi finanziarie, dopo l’avvento sempre più incontrollabile dei poteri
forti? Con questo saggio Paolo Flores D’Arcais riflette sullo stato di salute e
sugli spazi di azione ancora propri della democrazia, cercando prima di
individuarne nemici e punti deboli, poi di trovare possibili soluzioni per un
ritorno vero e condiviso del fare democratico.
Commento
di Sergio Ghirardi:
L'esempio della Comune, citato nel libro in questione ma
anche, direi, tutti gli altri moderni tentativi storici di democrazia diretta
(ogni democrazia che non sia diretta è solo una caricatura carnevalesca
dell'oclocrazia capitalista esportata con le armi e la propaganda come macabro
ersatz di democrazia) si sono mostrati incompatibili con lo Stato che, bianco,
nero o rosso che fosse, si è sempre premurato nei secoli di massacrare
sistematicamente tutti i fautori delle organizzazioni consiliari fedeli all'ideale
di democrazia sociale.
Anni fa, Lefort parlava già di "democrazia
selvaggia" e Abensour ha ipotizzato più di recente una "democrazia
insorgente". Tra gli altri, mi sembrano spunti molto utili alla
riflessione. Credo si debba ripartire da questo nodo dell'incompatibilità
definibile tra una democrazia che tenda ad allargarsi dal locale della Comune
ricostituita al planetario dell'internazionale del genere umano, e lo Stato che
ha storicamente vampirizzato le nazioni riducendole a categorie etnosociologiche
funzionali al modo di produzione capitalistico.
Una tale rivoluzione, communalista e internazionalista al
contempo, sarà ancora più ampia di quella che ha permesso alla borghesia di
abolire l'Ancièn Régime in nome di un totalitarismo economicista in agguato nel
cavallo di Troia dei diritti dell'uomo. Il proletariato planetario, in quanto
ultima classe della storia, ha in mano la possibilità di realizzare una società
umana pacificata contro e oltre la lotta tra le classi che il feticismo della
merce sta finendo di digerire nell'alienazione generalizzata e nella
competizione produttivista globalizzata.
Ce n'est qu'un début, continuons
le débat...
Risposta di Albertoagitescion:
Risposta di Albertoagitescion:
Possiamo teorizzare una presa di coscienza mondiale, ma le differenze
culturali sono insormontabili. In Egitto hanno vinto i Fratelli Musulmani che
non é precisamente un movimento democratico. In Africa la democrazia non sanno
neanche come si traduce nelle lingue locali ed in India esistono ancora e sono
radicate le Caste. Queste analisi sovrastrutturali veteromarxiste possono
rivelarsi solo elucubrazioni accademiche
…e mio ulteriore
commento:
Le differenze culturali sono
sormontabili e sistematicamente sormontate dalla storia.
Lei avrebbe potuto vaticinare con
la stessa sicurezza nel 1780 contro chi avesse parlato di superamento dell'Ancièn Régime.
Certo io non so se e quando
questa rottura di paradigma si farà, ma la sostengo confidando sul fatto che
quelli che ieri bruciavano gli eretici oggi non possono più farlo impunemente.
Non mi faccia ora passare per un veterocattolico o, a piacere, per un
sostenitore dell'ideologia musulmana. Considero tutti i monoteismi delle psicopatologie
sociali, ma scommetto, senza enfasi né ottimismi particolari, su un'auspicabile
laicizzazione del mondo.
Voglio solo sottolineare che il
processo storico è in marcia e che soltanto dei voyeurs depressi possono
accettare di subirlo passivamente come un ineluttabile destino. Per quel che mi
riguarda, io sono marxista quanto Marx quando diceva di non essere marxista
mentre la distinzione tra struttura e sovrastruttura è la più classica delle
elucubrazioni accademiche veteromarxiste.