Per una coscienza sacrilega
Siete realisti? Siete pronti a diventarlo? In caso affermativo, ci
si prenderà cura di voi. L’avvenire si degnerà di sorridervi. Qualsiasi
cosa facciate e con qualsiasi spirito la facciate, vi rimarrà sempre una
faccia di ricambio, una porta ancora praticabile, parole sottili o
eroiche per restare a galla in caso di naufragio, buone possibilità di
essere un giorno — sempre che i vostri intrighi siano all’altezza delle
vostre ambizioni! — al soldo di una delle tre casse del destino: gloria,
denaro, potere. O di tutte e tre assieme, se sarete abbastanza abili da
fingere di non dare importanza a nessuno di questi tre temibili
strumenti di dominio. Così fanno infatti alcuni grandi asceti della
nostra epoca i quali, tuttavia, quando sono certi di aver convinto tutti
della loro elevata integrità morale, non resistono alla tentazione di
farsi ricamare un piccolo fregio qua, una grossa infiorettatura là.
Notate che, anche se beccato in flagrante delitto di gallonatura, un
realista dell’ascetismo darà del suo atto mille giustificazioni
plausibili, plausibili se si collocano appunto su di un particolare
piano: quello dell’utilità immediata e dell’interesse tattico. La forza,
l’immensa forza dei realisti deriva dal fatto che ignorano il flagrante
delitto. Quale presa potrebbe mai avere su persone talmente immerse in
quel che chiamano reale, che nessuna ovvietà potrà mai confondere?...
Se viceversa non intendete cedere alla triplice tentazione che la
gloria, il denaro e il potere esercitano a vantaggio del realismo
politico, preparatevi a passare per un instancabile agitatore di
astrazioni. Secondo l’opinione generale, siete senza contatto con la
vita, senza conoscenza delle gioie e delle sofferenze degli uomini,
votati allo sterile ambito della teoria. In un mondo abituato ormai a
trafficare con la stessa lena coi valori dello spirito e coi prodotti
manufatti, una sfumatura di crescente disprezzo macchia il termine
stesso di teoria. Immediatamente, eccovi sulla difensiva. Dovete
cominciare col provare che non mancate né di cuore né di viscere a
persone che di mestiere organizzano le emozioni altrui. E, data la
dimostrazione, resterete loro sospetti come prima qualora non reagiate
agli ottoni delle loro fanfare. Dal momento che si perfeziona la civiltà
del ricatto e della contraffazione, ogni teoria degna di questo nome si
presenta come un’insopportabile sfida all’agilità di spirito degli uni e
alla capacità di acrobazie degli altri. A questo proposito è edificante
vedere i superstiti di una ortodossia che, ai suoi albori, faceva
sfoggio d’un rigore più poliziesco che intellettuale, fraternizzare oggi
coi dilettanti di espedienti e coi professionisti dell’improvvisazione
politica, in un’avversione comune per ogni attività critica dello
spirito, per non parlare poi della fedeltà a qualcosa di tanto vano come
i princìpi.
Dalla più implacabile ortodossia alle manipolazioni politiche meno
scrupolose, il passaggio si è rivelato ben agevole da superare. Ma, se
l’ortodossia ha potuto condurre nella lotta quotidiana a pratiche così
aberranti, non è che alcune coscienze partigiane — sostituendo la
cultura delle idee con il loro culto puro e semplice, cioè sostituendo
le normali pratiche della ragione con un rito più o meno intangibile —
hanno imparato a sbarazzarsi a buon mercato, prima di ogni conflitto di
interpretazione, poi di ogni questione pregiudiziale relativa alla
scelta d’azione da condurre e all’atteggiamento da assumere? Un
difensore di questo genere di ortodossia, talmente disponibile a
scendere in basso, riassumeva per me con parole toccanti che mi affretto
a trascrivere qui la regola aurea del suo comportamento: «È proprio
perché abbiamo princìpi fortemente stabiliti, che possiamo permetterci
tutto!». Lo si tenga a mente. Questa non è una battuta da liquidare con
un’alzata di spalle. È l’espressione sincera e limpida di uno stato
d’animo assai diffuso, che consiste nel trasformare dei valori vivi e
mutevoli in valori emblematici, nel dedicare loro devozioni rituali, nel
considerarli non insudiciabili dai compromessi realisti del momento,
sopra cui volteggiano molto in alto.
Singolare impresa quella che si ostina a salvare l’ideale dandogli
ali di fango! Chiunque sia portato ad aderire a questa concezione di
vita politica, dovrà autoregolarsi due coscienze distinte e non
comunicanti, una che abbia cura di preservare nella loro pretesa purezza
i princìpi permanenti e la visione dello scopo finale, l’altra che
estenda il suo benevolo controllo alle minute fornicazioni quotidiane.
Che per di più questa continua dissociazione, questo perenne divorzio
fra le attività immediate e il mondo dei princìpi sovrani, possa passare
per l’espressione finale dello spirito di sintesi, ecco ciò che
permette di misurare le possibilità di mistificazione di cui
l’intelligenza è al tempo stesso complice e vittima.
Disprezzo — prima sapientemente suggerito, poi spontaneo e quasi
unanime — nei confronti di qualsiasi idea preoccupata di ricercare altro
dalle opportunità di negarsi o di alienarsi, sottomissione di ogni
pensiero alla prima realtà pervenuta, riduzione arbitraria ad uno stesso
contenuto di nozioni talmente poco sovrapponibili le une alle altre che
dogmatismo e ideologia, ortodossia e demagogia, sono i segni della
spaventosa confusione che si aggrava e si complica senza sosta, che
prende gli uomini alla testa per meglio convincerli a concedersi da
soli, spontaneamente, col sorriso sulle labbra, da veri cittadini quali
sono, ad una qualsiasi delle tirannie di moda.
È a forza di giocare con le parole, di abusare dell’elasticità di
linguaggio, che si è potuto giungere all’attuale stato di disfacimento
in cui una cosa, un uomo, un’idea riescono ad essere nello stesso tempo o
successivamente sia se stessi che il loro contrario. Quante volte
abbiamo sentito il motto di quel luogotenente di Hitler che, allorché
sentiva parlare di cultura o di intelligenza, brandiva la sua
rivoltella. Ahimé, perché mai altre parole gradite dal vocabolario
politico e sociale degli uomini non possono beneficiare di significati
così netti? Perfino la parola «pace», avendo da tempo cessato di essere
rassicurante, evoca segreti terrori ed emette un tale tanfo di
catastrofe. Nell’attesa che, secondo il suggerimento di qualcuno, sia
costituito un «ministero del significato delle parole», è importante
ridare una chiara e precisa sostanza ai termini più corrotti, più
avviliti da un utilizzo cieco.
Una teoria non è un catechismo. È un nucleo di idee indicatrici,
eccitatrici, che orientano lo spirito ma che soprattutto lo incitano a
pensare, a prendere — sviluppando fruttuosamente quegli elementi di
partenza — coscienza della sua libertà.
Una teoria afferra il pensiero con un certo messaggio ma, lungi
dall’imbrigliarne il movimento naturale, non ne compromette nemmeno per
un attimo la preziosa autonomia. Ogni messaggio complementare è il
benvenuto. Ogni contributo originale del pensiero afferrato assicura lo
sviluppo necessario e continuo del messaggio teorico. Un’idea deve
essere pensata da tutti, non da uno. È qui che la lotta contro le idee
ricevute — contro la docile riproduzione di formule prestabilite da
milioni di sudditi addomesticati — deve innalzarsi al suo apice. È qui
che alla sottrazione del libero arbitrio individuale da parte dei mille
inganni della suggestione o delle mille minacce della violenza di Stato,
si deve contrapporre la partecipazione consapevole di ciascuno allo
sviluppo dei valori teorici. Se deploriamo lo stato di abbandono e di
scadimento in cui sono cadute le teorie del secolo, è perché vi vediamo
un grave arretramento della libertà nella sua forma più elevata e
creatrice. Una società che presentasse solo fornitori di idee — in
numero limitato e in distribuzione controllata — e consumatori di idee
in stato di passività quasi ipnotica — una società in cui gli scambi
intellettuali si riconducessero a preparati di laboratorio da una parte e
a rituali manifestazioni di adesione e di entusiasmo plebiscitario
dall’altra, una società simile non sarebbe, dietro un’apparenza forse
più indulgente, né più né meno mostruosa dell’organizzazione hitleriana
della servitù.
Contrariamente alle dottrine, che hanno lo scopo di cristallizzare —
dunque di fissare — l’opinione attorno al loro insegnamento, esso
stesso consolidato e ossificato, ogni teoria si accompagna ad un appello
implicito al proprio superamento. A questo proposito, non esiste
miglior addestramento per lo spirito di quello che consiste
nell’attaccare le convinzioni-limite, nello spostare continuamente il
proprio campo visivo. Per secoli e secoli, lo spirito ha provato il
sinistro bisogno di trincerarsi dietro infinite serie di linee
fortificate, ciascuna delle quali ha costituito, nella sua epoca, la
linea della più grande ignoranza. L’umanità ha vissuto finora quasi
unicamente sotto l’imperio della ragione utilitarista, cioè in
ginocchio. E ogni volta che sopraggiungeva un fremito di follia per
accordare all’uomo una parte crescente di libertà, le forze della
regressione non tardavano a riconquistare il terreno perduto, a
canalizzare gli slanci liberatori, a costruire nuovi altari o a
modernizzare vecchi idoli, in poche parole a rinchiudere le acquisizioni
del genio umano in un sistema di disciplina rituale in cui non fanno
che sanzionare con il loro prestigio l’incessante ritorno
all’oppressione. Permane così fra l’uomo e la libertà un vero e proprio
supplizio di Tantalo, con la libertà che si tira indietro nel momento
stesso in cui tutto concorre al suo trionfo cedendo il posto a qualche
tirannico edificio sulla cui facciata brillerà comunque il suo nome come
una falsa etichetta su un articolo di contrabbando.
La lotta anti-teorica mira solo a disarmare l’intelligenza, a
spogliarla della sua funzione critica, ad abituarla al rispetto di
verità gerarchicamente fissate e valide fino a nuovo ordine. Col
pretesto di farla finita con le speculazioni arbitrarie, andiamo verso
dogmi elementari, verso spaventosi catechismi sociali in cui le parole
più esaltanti saranno piegate a colpi di manganello.
L’ideale dei realisti sarebbe quello di confinare l’intelligenza in
una sorta di Gazzetta ufficiale. Forse che si discute la Gazzetta
ufficiale? Vi si apprendono i decreti del giorno. Mentre nelle piazze e
sulle strade, alcune attrazioni ben scelte argineranno l’eccitazione
favorevole delle masse (chi può contestare che le sfilate sulla piazza
Rossa abbiano contribuito alla solidità del regime stalinista?). Così
vengono dati in pasto il cuore e le emozioni dai realisti... Il giorno
in cui gli uomini diserteranno le sfilate e i mausolei, magari i
realisti li rimprovereranno di aver perso il proprio cuore, mentre essi
non avranno fatto che preservarne i battiti per un uso migliore.
Il realismo politico si basa su due formule che si completano solo
in apparenza. «Tutti i mezzi sono buoni», ci informano i realisti. E
aggiungono un attimo dopo: «Bisogna sapersi adattare alle circostanze».
L’antinomia che rende queste due massime non associabili non può
catturare a lungo l’attenzione dei realisti. Per costoro non vi sono
antinomie definitive, così come non esistono antagonismi irriducibili. A
loro importa solo sviluppare a partire da certi aforismi primari una
filosofia del camuffamento destinata a procurar loro la più comoda
libertà di manovra. Al massimo si potrebbe concepire che dicessero:
«Tutti i mezzi sono buoni per adattare le circostanze». Ma adattare le
circostanze, al posto di adattarvisi, implica una volontà di cambiare il
reale, di travolgere l’ostacolo e non di lasciarsi modellare da esso.
I realisti hanno paura dell’ignoto. Il loro compito non è quello di
cambiare il reale, ma di gestirlo. Dove potrebbero trovarsi più a loro
agio, se non in una realtà cordiale e familiare che li ricompensi con
ogni tipo di successo per la stabilità che essa deve a loro? Alla fine,
potrebbe non essere più tanto facile distinguere, fra il reale o il
realista, chi abbia alimentato l’altro. Ma, se interviene qualche
cambiamento radicale, tutto ridiventa chiaro. È allora che «tutti i
mezzi sono buoni» per soprassedere a questo cambiamento, per dimostrarne
l’inutilità e, in ultima analisi, per schiacciarne i fautori. Rimettere
ad un realista il compito di cambiare le cose è come incaricare un
inserviente del circo di districare la giungla.
No, non tutti i mezzi sono buoni! Ci sono certi mezzi, proprio
quelli più ricercati dai realisti, che sono buoni solo a falsare il
corso degli eventi e ad introdurre nei progetti d’azione tracciati una
tale deviazione, di solito sufficiente a tenere in scacco le forze
accorse inutilmente al bivio. Proprio come quelle piaghe che evitano la
cicatrizzazione, gli angoli aperti dalle «deviazioni realiste» diventano
ben difficili da richiudere. Tanto più che il realismo consiste
nell’installarsi nella deviazione e nel considerarla non come uno stadio
intermedio, ma come uno stadio finale, una situazione in sé. Una
situazione che i non-realisti dovranno decidersi a recidere.
Quando dei politici che hanno sempre vissuto di espedienti
sostengono di lasciar libero corso alle volontà popolari, possiamo stare
certi che questo ricorso al popolo costituisce solo un espediente in
più del loro gioco. D’altronde, di regola questi politici si appellano
al popolo solo quando sono minacciati di venire sloggiati da un banda
rivale, più abile e più ricca di espedienti. Non di rado è stata posta
la questione di sapere se le masse abbiano qualche interesse a
rispondere a tali occasionali e interessati appelli. Giacché nelle fila
dei lavoratori si trovano pressappoco altrettanti professori di realismo
che nel campo avverso. È bello vedere questi Machiavelli in berretto
mettere delicatamente a punto le alleanze più scabrose, le
riconciliazioni più desolanti, gli innesti politici meno raccomandabili.
In questo ricorso all’adulterazione politica si comincia con
l’ingannare il proprio ideale col vicino dirimpettaio, poi si finisce
col condividere qualsiasi giaciglio con qualsiasi partner.
Le masse hanno in sé le proprie risorse e i propri strumenti di
lotta. Non hanno bisogno di subaffittare dei professionisti già
consumati al servizio altrui per realizzare la propria opera. Non devono
nemmeno prestare le proprie energie a imprese di riciclaggio di
politici e partiti entrambi marci, i primi dall’illimitata pratica
dell’intrigo, i secondi dall’illimitata pratica del compromesso.
Quando le masse si sentono invitare all’azione da personaggi e
gruppi che devono la propria sopravvivenza solo all’inazione delle
masse, è bene che avvertano alcuni motivi di preoccupazione. Perché
ovviamente non può trattarsi che di una data azione canalizzata in una
certa direzione. Fino ad ora i politici sono riusciti mille volte a
canalizzare le masse; le masse mai a canalizzare i politici. Quelli che
incitano le masse ad andare a rimorchio di questo o di quel grand’uomo,
di questo o di quel partito, liberi entrambi di disporre a proprio
piacimento dei “desideri popolari”, quelli che pretendono che a forza di
devozione verrà permesso alle masse di influenzare le decisioni di un
leader o di un partito, quelli sono in realtà strani consiglieri dalla
cui bocca si può imparare solo l’arte di falsificare la storia.
Certo, le masse conservano un ruolo enorme, un ruolo supremo da
svolgere. Ma un ruolo autonomo. Ogni volta che è necessario adularle
dall’alto di una tribuna, le si apostrofa parlando del loro peso sulla
bilancia delle forze politiche. Questo peso è reale, l’essenziale è
sapere cosa lo sposta. L’azione autonoma delle masse — con ciò di cui ha
bisogno quanto a romanticismo per ristabilire l’unità etica fra mezzi e
fini fratturata dalle politiche realiste — deve radere al suolo il
mostruoso cumulo di espedienti e di artifizi sotto cui rischiamo a lungo
andare di restare seppelliti.
Adesso bisogna uscire dalla notte, ed è qui la difficoltà maggiore.
Così come gli occhi si abituano all’oscurità, lo spirito si abitua
all’ignoranza, l’intelligenza si abitua al progresso del feticismo,
l’individuo libero si abitua alle costrizioni che i suoi padroni
forgiano. Bisogna uscire dalla notte e non sarà né l’eloquenza dei
tribuni, né l’eroismo dei martiri che potranno aiutarci. È reagendo
contro la pretesa delle grandi entità collettive ad un’autorità assoluta
(Stato, Partito, Assemblea), è facendo dell’esercizio individuale delle
facoltà critiche, non un capo d’accusa in assurdi processi di
sabotaggio o tradimento, bensì la condizione necessaria di una piena
consapevolezza, è in questo modo e a questo prezzo che si potrà tentare
una prima liberazione.
Né l’eloquenza dei tribuni, né l’eroismo dei martiri. La libera e
sacrilega coscienza degli individui senza più bisogno di intercessori
presso il destino.
[libera traduzione di G. Henein, Machete n. 3, Novembre 2008]
grazie a http://finimondo.org/node/864- le sottolineature sono mie