Per
una Comune d’Europa
Un fantasma si aggira per l’Europa,
spaventando schiavi sottomessi, burocrati e specialisti dell’addomesticamento.
Quello di una democrazia reale che
pretende d’incarnare subito l’ipotesi di un’autogestione generalizzata della
vita quotidiana e che vuole restituire agli schiavi salariati o disoccupati il
potere decisionale sulle loro scelte sociali e il libero arbitrio confiscato a
ognuno dal totalitarismo spettacolare-mercantile.
La prima denuncia della società dello
spettacolo risale a un tempo in cui il movimento operaio alimentava ancora
l’illusione che l’emancipazione umana passasse per la riorganizzazione del
lavoro produttivo al servizio di una società produttivistica.
Di fronte alla propaganda ideologica
di un comunismo autoritario che confiscava ogni ipotesi d’emancipazione, la
mascherata liberale di una democrazia fittizia, capillarmente propagandata da
Stati, scuole, mass-media e abitudini consolidate, si offriva sul mercato delle
ideologie come un business redditizio e come un ricatto cui non ci si poteva
sottrarre. Non a caso il mantra della sua definizione più celebre è ancora ripetuto,
quasi con un sorriso, come un’innocua battuta arguta, in realtà sferzante
sarcasmo assolutamente degno del cinismo di Churchill: “… la democrazia? Il peggiore dei governi, tutti gli altri esclusi”.
Intendendo, ovviamente, per “tutti gli altri” unicamente quelli imposti più che
proposti dai dominanti a dei dominati sprovvisti di coscienza, di memoria e di
parola.
Per secoli, infatti, i tentativi per
un governo consiliare, incommensurabilmente migliore di ogni parvenza di
democrazia parlamentare (dalla congiura degli uguali alla Comune di Parigi,
dalla comunità tedesca di Rosa Luxembourg,
Karl Liebknecht e Ben
Traven alle comunità libertarie spagnole durante la guerra civile), sono più
volte riusciti e sempre sono stati violentemente annichiliti militarmente dal
totalitarismo dominante di destra o di sinistra.
Poi, con la sconfitta storica del movimento
operaio che ormai solo pochi burocrati opportunisti rispolverano ancora per
fregiarsene come di un’odiosa propaganda elettorale auto valorizzatrice, la
pillola dell’efferata truffa della democrazia parlamentare è diventata la
foglia di fico del despotismo mercantile all’epoca del suo trionfo
spettacolare.
Tuttavia, nemmeno questa pentola ha
trovato il suo coperchio definitivo e la retorica del governo del popolo sovrano
è sempre più a stento ingoiata dai soggetti umiliati delle diverse popolazioni
mondiali.
La menzogna non ha più presa a causa dell’estensione
della corruzione e dell’evidenza delle ingiustizie sociali che essa comporta e
ancor più a causa del crollo dell’intero ecosistema del vivente che il
produttivismo minaccia ormai seriamente di distruzione.
Soltanto le masse pavloviane dei
servitori volontari educati a ignorare il crollo pur evidente della civiltà del
lavoro e del modo di produzione che l’ha portata alla sua fase terminale,
continuano a inginocchiarsi dinanzi all’idolo parlamentare di un mondo che
crolla, mentre giurano fedeltà elettorale ai suoi cinici sacerdoti, banksters
di Stato e di Mercato, galoppini politici al loro servizio e servi
massmediatici.
La “crisi”
è ormai declamata dappertutto come un prodromo quasi biblico di una possibile
apocalisse, ma è raramente denunciata laddove essa si trova veramente: al cuore
di un modo di produzione capitalista arrivato allo stadio supremo e infimo della
finanziarizzazione e dello sfruttamento.
Una tale fase terminale del modo di produzione
dominante diventato planetario era già stata ventilata come molto probabile dalla
teoria del proletariato di Marx. Avveratasi, un secolo più tardi, come la
profezia dialettica di un dominio reale
del capitale, la separazione netta e irreversibile dell’economia reale dall’economia
virtuale si è dunque tradotta in un ultimo assalto da parte della teologia
economicista alla comunità umana, già erosa da millenni di economia politica.
Siamo ormai al conflitto sociale
finale, e nessuna propaganda potrà più cancellare la contraddizione che rende
improduttivo, dal punto di vista del capitale, il lavoro materiale mentre rende
estremamente semplice e redditizia la circolazione di capitali virtuali in
un’economia finanziarizzata.
Come rendere questa catastrofe accettabile
in una società educata a sacralizzare il lavoro che non c’è più? In un unico,
classico modo: colpevolizzando le vittime per la scomparsa di questo prezioso
strumento di tortura e domandando loro di assumersi un debito planetario inesistente
insieme alla responsabilità di una crisi che non li riguarda.
Se si è riusciti per millenni a far
credere alla favola di un onnipotente dio virtuale, generalmente barbuto e seduto
sulle nuvole a decidere delle sorti dell’umanità, perché non dovrebbe passare
il delirio, ben più modesto, sobrio e quasi laico, in fondo, di un debito
contratto alla nascita e all’insaputa da ogni individuo di qualunque gruppo
sociale?
Tuttavia, la complicazione più severa
per i teologi dell’economicismo riguarda, più che gli uomini in sé, il loro
rapporto con la natura di cui sono parte.
Già nel secolo scorso, prima che
l’evidenza di questa crisi strutturale del modo di produzione dominante
suonasse la campana dell’ultimo giro per un capitalismo che vorrebbe ignorare
gli esseri umani, ma non può fare a meno di sfruttarne la forza-lavoro, la
natura stessa era, infatti, intervenuta per denunciare, dal suo punto di vista
globale ed essenzialmente biologico, la fine ineluttabile di un ciclo storico
in cui la crescita economica si presentava come una magia senza limiti di
spazio e di tempo.
Finita l’epoca in cui si potevano
facilmente guidare gli asini frustrati e acculturati al consumismo verso la
carota di una felicità geneticamente modificata. Finita la mitologia umiliante
dell’essere ridotto all’avere svuotato di senso, poi costretto addirittura a
finire nel mondo della apparenze effimere della società dello spettacolo. L’onnipresenza
della messa in scena ha finito per svelare un tale segreto di Pulcinella e il
culo nudo del re è ormai alla portata anche dei ciechi.
La felicità di paccottiglia venduta da
Stato e Mercato è l’OGM che comprende tutti gli altri ma è anche il primo organismo
geneticamente modificato che mostra la crudele assenza di senso di ogni
artificialità del vivente.
Non si tratta dunque di perdere tempo
a provare scientificamente l’immoralità e neppure il rischio vitale delle
mutazioni genetiche artificiali. Limitare la critica degli OGM a una questione
morale o scientifica vorrebbe dire regredire a quell’oscurantismo religioso che
è stato il miglior alleato di tutte le fughe in avanti dell’ultima religione venduta
agli esseri umani alienati: la terribile religione della scienza.
La critica radicale dell’artificialità
va fatta piuttosto in nome della salvaguardia del godimento immenso
dell’autenticità della vita. Riprendendo in mano, insieme al principio di
precauzione, il metodo scientifico e il principio di non contraddizione su cui
si fonda tutto il processo di emancipazione e di progresso della specie
particolare di scimmie cosiddette umane, si tratta di cominciare subito a usare
queste conquiste della conoscenza e del libero pensiero per denunciare il
conformismo embedded di specialisti
coinvolti nel conflitto d’interesse più bieco con le istanze produttivistiche
che dominano il mondo rendendolo infelice insieme ai suoi sempre più tristi
abitanti.
Le facce degli uomini sono una prova schiacciante
dello scacco di una civiltà.
Una prima chiarezza va subito fatta.
La chiara, evidente e lancinante
denuncia del produttivismo non significa affatto una lode del primitivismo né
il rifiuto stupidamente mistico e fobico dell’uso dell’utensile o delle
tecniche, né la criminalizzazione di una produzione di beni abbondante e
sufficiente per soddisfare i desideri autentici ed eventualmente quei bisogni
che una cattiva gestione dei desideri e delle loro soddisfazioni tramutano spesso
in carenze impellenti e vitali.
Soltanto l’abolizione alla radice del
capitalismo e il suo superamento attraverso una società produttrice di valori
d’uso per il benessere da parte dell’ultima classe della storia - la risorta
classe della coscienza - potrà mettere fine a quest’incubo che si presenta da
tempo come un incubo senza fine.
Con qualche colpo assestato sulla
tastiera di un computer dalla mia volontà di vivere, ho voluto manifestare un
modesto ma deciso segno della (r)esistenza individuale che si sta facendo collettiva.
Il partito preso della vita, l’unico di cui mi onoro far parte senza tessere né
adesioni formali poiché appartiene a tutti ma non è di nessuno, riuscirà a
rompere decisamente con tutti i manicheismi per percorrere la via dialettica
delle contraddizioni da assumere e da superare.
Produrre beni utili al godimento della
propria vita individuale e sociale è stato da sempre il comportamento spontaneo
di quell’artista naif che è l’essere umano.
Spinto dalla voglia di godere al
meglio del proprio essere al mondo, un certo numero d’individui ha colto
nell’armonia dei rapporti sociali non solo e non tanto un’etica conforme
all’esistenza, ma il metodo migliore per praticare la teoria di una felicità pratica
posta sopra tutti gli altri progetti.
Crescita e decrescita fanno dunque parte
di un unico progetto di emancipazione o di alienazione definitiva. Ecco perché,
in questo delicato momento, la decrescita economica è la base di ogni possibile
emancipazione.
Produttivismo e antiproduttivismo sono
soltanto due ideologie il cui reciproco superamento renderà onore all’unica
teoria degna di questo nome: la ricerca varia e diversa di una felicità che è
la sola opera d’arte di una vita quotidiana fatta di abbondanza e di dono, di
sobrietà e di eccesso, di confronto e di soluzione dei problemi della libertà e
di un rifiuto radicale dell’assunzione dei problemi generati da una schiavitù
produttivistica imposta all’uomo naturale dall’homo œconomicus che l’ha
reso schiavo.
Essere antiproduttivisti senza
diventare i ridicoli mistici di un ritorno a un’inesistente purezza primigenia,
significa far decrescere l’alienazione sociale, i suoi progetti demenziali e i
suoi prodotti nocivi. Significa anche reinventare un nuovo ciclo produttivo di
beni utili all’espansione del saper vivere, alla soddisfazione dei desideri e
all’aumento della felicità. Una volta sostituita la volontà di vivere alla
volontà di produrre valore economico, la creatività spingerà spontaneamente verso
la motilità dell’orgasmo genitale legato alla gratuità anziché verso il
business dell’accumulazione fondata sulla ritenzione anale, reiterata e
bloccata, degli escrementi.
La qualità darà un senso alle scelte
quantitative necessarie e non avrà più senso per un essere umano ritrovato
perdere la vita a guadagnarsi un salario da spendere per sopravvivere.
Ogni micro comunità reale troverà
allora nel suo stesso esistere e partecipare gioiosamente allo sforzo
collettivo di felicità, il senso del suo essere locale e del suo pensarsi
planetario, nuclei solidali intersoggettivi di cittadini di uno stesso mondo.
La fine degli Stati canaglia,
sfruttatori delle comunità reali confiscate dalle multinazionali mafiose,
permetterà al tessuto umano di riformarsi in una continuità d’intenti e di
complicità reciproche, dalla casa al quartiere, dal villaggio al Comune, dalla
regione alla nazione, fino alla Comune d’Europa, casa continentale comune a
tutti inglobante in uno slancio internazionalista la semplice volontà di vivere
coniugata dall’individuale al collettivo, dal locale al planetario.
Generalità, certo, ma che si nutrono
del sangue e della passione concreta di tutti gli insorti della vita
quotidiana, di tutti i secessionisti e i disertori della guerra economica pronti
a dedicarsi per piacere e solidarietà a un cambiamento che renderà finalmente
impossibile ogni ritorno indietro, ogni regressione alla barbarie economicista.
Non mi prendo affatto per un profeta e
amerei tanto sbagliare, ma se questa socializzazione gioiosa della voglia di
vivere non sfonderà al più presto le mura di cinta della società
dell’alienazione in avanzata decomposizione, io vedo i macabri becchini di
fascismi vecchi e nuovi tornare alla ribalta, sospinti da una peste emozionale
diffusa. Vedo, come in un incubo che ritorna, gli zombi uscire dalle tombe mal
chiuse della preistoria dell’umanità e riprendere il processo morboso con cui hanno
sempre cercato di esorcizzare le loro fobie mettendo il coperchio della morte
sulla volontà di vivere.
Autogestione generalizzata della vita
quotidiana o barbarie?
Sergio Ghirardi, 1 maggio 2013