Mapuche |
Arrivando
a Le Teil ero molto curioso di entrare nel villaggiodei possibili che il tempo esecrabile ha reso impossibile. Al prossimo
numero dunque.
Così
la settimana si è ridotta al fine settimana della democrazia reale a venire, in
un’atmosfera spesso calorosa e umana, tenuto conto dell’amara evidenza che la
comunità non esiste ancora e c’è solo l’illusione di essere insieme
collettivamente.
Come
potrebbe essere diversamente? Ecco la questione rimasta sempre presente lungo
tutto l’incontro e spesso taciuta, al di là dei diversi temi affrontati,
ingoiati come esche, con passione confusa ma sincera, da parte di cittadini
venuti dal nulla.
Ogni
incontro spontaneo - come nel caso di Le Teil dove il grosso e notevole lavoro
di preparazione di Bernard Bruyat e dei suoi amici dell’OPDLM (Osservatorio delle Pratiche di Sviluppo
[Developpement] Locale e Mondiale) ha costituito il dono di uno
spazio/tempo dove ciascuno ha potuto provare a essere se stesso - fa emergere
qualche affinità ma soprattutto le differenze tra gli individui. Il che risalta
tanto al livello dei comportamenti che a quello della coscienza perché le
vecchie opposizioni sono tuttaltro che superate (così come, del resto, le
frustrazioni personali che le alimentano). Inoltre i reumatismi ideologici
dolorosi aumentano con il sussistere più che mai, purtroppo, della presenza
invadente del vecchio mondo.
Dietro
ogni militante rode sempre una qualche morale, non necessariamente coerente,
che vede in ogni negare un rinnegare, in ogni presa di parola una presa di
potere. Allorché niente cambia mai, la moralizzazione burocratica dell’altro è
l’ultima attività possibile per nascondere la propria impotenza (vuoi la
carenza di vera passione) nel cambiare il mondo. Così i limiti inevitabili
degli individui diventano spesso i capri espiatori di un collettivismo da bar
per dei militanti di base arrivati come turisti per consumare dei discorsi,
della mondanità alternativa.
C’è
dunque, nella fauna che tutti noi componiamo, il gran parlatore narcisista e il
radicale da conferenza che non si lascia intrappolare dalla poesia di un
discorso troppo liberamente esposto. Costui vede il parlare con agio come un
potere e allora, come non solidarizzare con la sua grinta burocratica nel
misurare il numero di frasi e il tempo di parola?
Purtroppo,
chi, in nome della democrazia, si proclama distributore della parola di gruppo finisce
quasi sempre per approffittarne e darsi il diritto di parlare ad libitum mentre
misura la parola altrui. Bisognerà forse trovare un altro modo di regolare questa
questione tanto delicata: che ognuno spieghi liberamente i suoi saperi o
presunti tali, senza la ghigliottina di un popolo frustrato che vuole
condividere la sua frustrazione senza mai denunciare l’impotenza che lo
frustra.
Il
vero limite sociale evidente di quelli che parlano molto è d’impedire agli
altri di fare altrettanto, ma l’uguaglianza sta dunque piuttosto nel parlare
ognuno come e quanto crede, non nel fatto che tutti parlino così poco. Non
esiste uguaglianza senza libertà né senza differenze visibili. Abbiamo bisogno
di tempo, del vero tempo libero da ogni obbligo da schiavi, ma certo anche del
diritto assoluto di ricordare a chi parla, in ogni istante, il lato nevrotico
della presa di parola, il suo eventuale eccesso disarmonico e la nostra voglia
di fare altrettanto.
Obbligare
i giovani, le donne o i panda a esprimersi, rileva infatti del paternalismo da
professori o psicologi, mica della libertà democratica o dell’uguaglianza
fraterna.
Per
favorire l’espressione di ciascuno, bisognerebbe piuttosto lasciare agire
liberamente le affinità elettive che tendono spontaneamente a dirigere ognuno
verso il collettivo più attraente.
Io
ho apprezzato, per esempio, l’assenza nel mio atelier di un certo numero
d’individui che evidentemente non trovavano simpatica la lezione di un
presuntuoso transalpino, specie di filosofo pretestuoso dalla parola facile.
La
magia sta nel fatto che sovente l’antipatia è reciproca e va benissimo così. Il
che non impedisce di bere un bicchiere insieme e persino, a volte, di
comunicare un po’. Si può amare un pochino tutti ma non fare l’amore con tutti,
nemmeno in teoria.
Che
ogni godimento cerchi e trovi, dunque, il suo possibile interlocutore, in
teoria come in pratica. L’insieme delle differenze espresse farà un mondo nuovo
secondo la sensibilità di Fourier e non di Stalin.
La
paura è effettivamente dovunque, ma essa è un sintomo e non una
giustificazione. L’insicurezza è un sentimento fobico. Va dunque trattata come
un alibi sintomatico non come una giusta rivendicazione o una saggia
precauzione.
Così
si supererà, forse, il gioco sadomaso ipnotico che porta ad alleviare se stessi
in modo solitario accusando tutti gli altri della propria solitudine. Siamo
tutti soli insieme e ci si riunirà davvero quando insieme soddisferemo qualche
desiderio anziché rivendicare ossessivamente, come dei sindacalisti del
quotidiano, dei tragici bisogni colpevolizzanti.
Da
parte mia - la sola parte che posso assumere - dico: basta con gli
intellettualismi confusionisti che per riappropriarsi delle parole confiscate
dal potere rivendicano il proprio populismo, il proprio nazionalismo. E perché,
allora, non rivendicare anche fascismo e razzismo?
Tolleranza
per tutti, superamento delle ideologie, certo, ma resta pur sempre necessario
scegliere il proprio campo, compagni! Per questo io condivido ancora con l’IS
questa divisa pratica: nessun dialogo con
i provocatori, nessun dialogo con i coglioni! (Non dimentico, tuttavia, che
ognuno di noi è il coglione di qualcun altro, da cui l’importanza delle
affinità elettive).
Basta
con le terapie da laboratorio per curare l’economia quando si tratta, invece, di
salvare gli uomini dalla patologia economica.
La
vera riappropriazione delle parole è nel far loro dire quel che la loro
etimologia lascia intendere. L’economia è la buona gestione della “casa”,
dunque un’economia domestica, punto e basta.
Un
populista è un demagogo manipolatore del popolo non un amico del popolo. La
causa del popolo è quella del popolo stesso e non quella dei suoi pastori
autoproclamati.
Un
nazionalista non è un patriota di una nazione viva, ma un autoritario che mette
la sua nazione ideologica al di sopra di quelle altrui che neppure riconosce.
Basta
con i turisti della rivoluzione che partecipano agli incontri come a un
cineforum. Si commuovono fino alle lacrime dopo un film come se i greci o i
Mapuche non esistessero se non sullo schermo.
Chi
pensa che la rivoluzione è in Grecia ci vada, altrimenti si potrebbe piuttosto
intervenire qui e ora nella nostra vita quotidiana che non manca certo di
rivoluzioni necessarie nelle nostra affettività, attività, esclusioni intime
ecc. Il che mi pare una forma di solidarietà con gli altri meno spettacolare.
I
poeti burocrati adorano sempre il calcolo della dita che si levano perché
questo è il miglior modo d’ignorare la luna che ci si vergogna di avere
lasciato passare durante tutta una vita perduta a guadagnarsela in silenzio.
Che
sia a proposito di un discorso, di una persona o di un libro, gli eterni
seguaci di una verità indiscutibile, ma cambievole come le ideologie, finiscono
sempre delusi dai guru che inseguono freneticamente. Tanto meglio, ma quando
smetteranno di seguire prima per odiare dopo?
Tutto
ciò non ha più alcun senso, perché niente del vecchio mondo gerarchico può
partecipare al superamento necessario della società dello spettacolo.
Senza
alcuna pretesa di aver capito o di dire tutto, queste mie parole esprimono una larga
parte dei mio sentire.
Con
sincera amicizia,
Sergio Ghirardi
PS Sorry
for my french, I’m italian.
aggiungiamo il link con le immagini
http://aixenblog.wordpress.com/1er-forum-national-de-la-democratie/
aggiungiamo il link con le immagini
http://aixenblog.wordpress.com/1er-forum-national-de-la-democratie/