V per vaneigemismo |
La
voglia di rivoluzione nasce dalla coscienza che la realtà vissuta è ingiusta e
potrebbe essere diversa se chi ha il potere sugli esseri e sulle cose non
scegliesse d’imporre la logica dominante a tutti i costi e a qualunque prezzo
umano, visto che l’unico prezzo che sembra ormai contare è quello delle cose.
Siamo
circondati dalla violenza. La società della competizione è violenta. Impone di
battersi contro tutti per emergere e vincere. Chiede di non avere pietà per chi
esce di strada, per chi non ce la fa, per chi, circondato dalla ricchezza materiale
da cui è escluso, è costretto a elemosinare la sopravvivenza.
Chi
oserebbe negare oggi la violenza di quella che gli spin doctors - scienziati mercenari della manipolazione delle
coscienze - hanno deciso di chiamare “crisi” per nascondere, dietro questa solo
apparentemente neutra definizione socioeconomica, la prassi incessante del profitto
e il suo metodo di funzionamento opportunistico portato alle estreme
conseguenze?
C’è
una violenza ottusa e potente persino nel contare con raccapriccio il costo
economico di uno tsunami che l’avidità del business planetario ha reso
catastrofico - per esempio riempiendo delle spiagge improbabili di ignari
turisti e della loro corte dei miracoli, oppure costruendo ignobili e inutili
centrali nucleari addirittura su faglie sismiche.
Dopo
ogni inevitabile catastrofe, si contabilizza sempre il prezzo della tragedia mentre
se ne archivia il costo sociale con un cordoglio ipocrita che nel segreto
svelato delle intercettazioni telefoniche può spingersi fino a ridere dei morti
redditizi, come all’Aquila.
Non
è violenza questa? Forse che il cinismo sdogana la perversione della sua
intrinseca cattiveria e non ferisce in maniera indelebile tutta quell’umanità
che, anziché contare i morti per calcolarne il costo e le spese, vorrebbe
riconoscerli e piangerli per far riprendere al più presto la vita e non il
business?
Nella
società capitalista la violenza è il primo prodotto che il Mercato mette in circolazione
per poi arrogare allo Stato che lo serve e lo protegge il monopolio della
violenza legale.
La
violenza della Diaz, come quella di piazza Fontana una trentina d’anni prima,
non è forse tale da incitare anche gli animi più pacifici alla vendetta, alla
reazione, alla ribellione?
Se
a Milano e a Genova, purtroppo, era caldo, lo sconvolgimento climatico che
imperversa non tende affatto ad aggiustare le cose. Il sistema lo sa e ne fa
uso perché la violenza lo serve. La sua e quella dei suoi nemici spettacolari.
Così
il minestrone ideologico è talmente immondo che gli stessi fascisti i cui amici
anche intimi hanno costellato di stragi decenni della storia recente, ricordano
senza vergogna che “chi semina vento
raccoglie tempesta”. Mai monito è stato più vero e mai ha avuto un sapore più
osceno di provocazione perversa nella bocca di chi del vento ha fatto uso e
scempio senza ritegno e della tempesta un godimento da appestati emozionali.
Certo
che la violenza chiama la violenza e stupirsene è tanto idiota quanto è umano
dolersene.
Di
recente Raoul Vaneigem, una delle nobili figure di un’umanità diventata
purtroppo minoranza nello spettacolo sociale dominante, ha saputo racchiudere
in una formula molto felice l’auspicio e la strategia necessaria per chiunque
voglia un cambiamento radicale: “né
guerrieri né martiri !”*
Ben
oltre l’amicizia che provo per il suo creatore, ho fatto evidentemente mia
questa proposizione, come tutto ciò che per libero amore mi appartiene in uso senza
tuttavia privarne nessuno.
Sto
già ridendo preventivamente, del resto, del fatto ineluttabile che qualche inutile
idiota sentirà in questa mia scelta il presunto dito del “vaneigemismo” nel culo indolenzito di ideologi rincoglioniti al
punto da non cogliere più nemmeno l’ombra della luna della volontà di vivere.
In
realtà, ho afferrato affettuosamente e con pacata rabbia questa piccola perla
di coscienza attiva come un frutto maturo perché racchiude in se tutta la forza
del vivente deciso a sottrarsi alla trappola mortale che il nichilismo
capitalista gli tende. Sono convinto, del resto, che, oltre ogni ridicolo copyright, ogni sintesi poetica sia
parte del patrimonio comune di tutti i resistenti al crollo di un mondo che
rischia seriamente di portarci con lui.
Da
millenni, i dominanti impongono con la violenza delle armi e dei dogmi
religiosi il loro dominio sui sudditi di qualunque regno, di qualunque impero.
Da
secoli, la società produttivista impone la violenza del Capitale e giustifica
lo stato cinico e crudele delle cose pretendendo la sottomissione di cittadini
sudditi, schiavi salariati, sfruttati e alienati, spettatori passivi dello
spettacolo sociale.
La
violenza del sistema è un dato di fatto oggettivamente indiscutibile,
soprattutto allo stadio attuale del crollo di un mondo che continua a fare la
morale ai sudditi per meglio imporre l’immoralità di coloro che esercitano un qualunque
potere su popoli educati a porgere sempre anche l’altra guancia.
Il
tempo passa e purtroppo non abbiamo ancora cambiato niente. Ce lo ricorda crudelmente
lo scacco delle nostre rivoluzioni a metà, il cui risultato visibile è il
triste rincoglionimento di molti ex compagni, estremisti da operetta assai poco
buffa. Prigionieri di una no man’s land
tra passato e futuro, guardano da esteti voyeur a qualunque idea in cerca di
chiarezza per passare all’azione, come a un’opera letteraria mancata. Di un
testo, di uno scritto, non sono giustamente critici per meglio condividerne nel
presente la passione, denunciarne gli errori, superarne i difetti. Ne leggono
invece, severamente, lo stile, l’apparire, la mondanità; quella stessa
mondanità che dall’alto miserabile della loro bassezza hanno stigmatizzato per
decenni con lo stile patetico e forbito di frequentatori di salotti letterari
immaginari e di azioni rivoluzionarie ancora più immaginarie. Non hanno
cambiato niente neppure loro, queste avanguardie dell’alienazione che
pretendono di esprimersi con stile squisito e disprezzo del volgo “vaneigemista”.
Chi
se ne frega, poi, dello stile mentre fischia ancora il vento e infuria la
bufera?
Sarà
il privilegio di uomini liberi, valutare lo stile di quelli che avranno provato
a resistere dando loro il tempo di cambiare il mondo, cominciando, magari poco
o niente, ma sinceramente, a prendere coscienza di quest’impellente necessità
diventata tristemente bisogno e a farla circolare.
De
Gaulle è morto e la ricreazione è finita, ma il ballo mascherato continua e i
rivoluzionari spettacolari sono passati dalla parte delle maschere. Non quelle
tristi della sofferenza né quelle allegre della provocazione. Quelle patetiche
di una rabbia paranoica che s’inventa nemici immaginari perché non ne ha più di
veri da superare e lasciare indietro, rispedendo la violenza al mittente nella
spazzatura della storia.
In
tutte le epoche, ogni rivoluzione incompiuta cambia la scena ma ripete il
libretto dello stesso Nabucco: vaffanculo pensiero sull’ali dorate
dell’ideologia.
Il
rincoglionimento dei rivoluzionari del passato è questo: continuare a giocare
gli arrabbiati spietati di un estremismo mascherato di radicalità su un
palcoscenico abbandonato perché lo spettacolo si è spostato e ha investito
altrove e altrimenti con la sua violenza tutti i suoi dominati.
Mi
sono battuto a viso scoperto e pacificamente contro l’ideologia della lotta
armata quando è venuta a inquinare una voglia di rivoluzione sociale sconfitta (ma
non ancora vinta) tanto dal nichilismo interno dei suoi partigiani arcaici e
desueti che dalla forza dirompente del nemico di classe.
Questa
logica di un rapporto di classe è sopravvissuta, tragicamente per l’umanità, al
superamento capitalistico della classe dominante trasformata in casta che
comprende tutte le caste.
Mutatis mutandis, questa logica di classe che i giornalisti embedded e i finti moralisti politici
cancellano ignominiosamente dal quadro del presente, è la radice della violenza
sociale, ne è la levatrice, il motore, la spinta. Oltre e contro di essa c’è la
solidarietà, l’amicizia, la fratellanza con cui gli individui innamorati di
libertà cercano di giocare affettuosamente quando il rincoglionimento ottuso di
ogni violenza non prende il sopravvento.
In
una società di individui liberi, solo i traumi individuali e le frustrazioni
naturali produrrebbero ancora della violenza e dunque la necessità di fermarla.
Tutto il resto sarebbe felicità, qualunque fosse lo stile usato per dirlo e
soprattutto per contribuire modestamente a renderlo concretamente possibile.
Sergio Ghirardi
**Raoul Vaneigem, Lo Stato non è più niente, sta a noi essere
tutto, Nautilus Torino, 2011.