sabato 30 maggio 2020

Decameron - il ricordo delle origini per l’invenzione di un altro presente




Quadro su Tela Tiziano - Bacco e Arianna • Pixers® - Viviamo per ...


 “Quant’è bella giovinezza, che si fugge tuttavia! chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza”.
Lorenzo de Medici, Trionfo di Bacco e Arianna, 1490.
  
Tra il marzo e il maggio 2020, la società planetaria ha subito una svolta unica e decisiva nella storia dell’umanità. Fino a ieri tutto un sistema immondo di manipolazione delle coscienze era riuscito a rimuovere la minima precauzione sensata sui veri problemi del mondo nonostante gli espliciti segnali d’allarme provenienti dalla natura.
Pur tardivamente accertata, l’apparizione di un microscopico coronavirus ha messo a nudo uno sconvolgimento delle vite degli esseri umani del pianeta terra già in corso da tempo, ma deliberatamente disinnescato dalla ferrea propaganda diffusa dalla casta oligarchica dei profittatori al potere e dai loro servi mercenari.
Campagne ecologiche spettacolarmente pressanti quanto sterili e “tira a campare” hanno continuato a banalizzare i rischi più che imminenti di apocalittiche catastrofi climatiche. Questi allarmi ambigui e contraddittori si sono aggiunti ai pericoli già in corso (da Chernobyl a Fukushima, per non citare che le catastrofi maggiori) dovuti a un uso incosciente ma redditizio nell’immediato dell’energia nucleare, dei pesticidi in agricoltura, degli antibiotici nell’allevamento e altre nocività comunemente usate dall’industria del business.
I business dell’industria e di una tecnologia sempre più digitale, hanno contribuito mano nella mano, anzi mani sulla tastiera del computer o del telefono, all’aumento delle patologie cancerogene, cardiache e altre quisquilie per un’umanità in marcia verso la catastrofe facendosi dei selfies sull’orlo dell’abisso e comunicandosi per mail e social network le sue inquietudini impotenti e le sue rabbie esibizioniste.
Ora, invece, di colpo, quasi quattro miliardi d’individui[1] hanno visto crollare le loro abitudini, la loro già fittizia autonomia, i loro movimenti obbligati di sopravvivenza consumistica, nel nome di una sicurezza sanitaria giudicata improvvisamente in grave pericolo.
Oltre ogni ragionevole dubbio, è chiaro che nel suo procedere inarrestabile, la natura, aggredita e sollecitata dall’artificializzazione progressiva della società umana, ha oggettivamente operato un subitaneo lavoro pedagogico di risanamento delle superstizioni dominanti, obbligando una specie ormai abituata allo spettacolo di una vita assente a un brusco risveglio di fronte all’urgenza imposta dalla realtà.
Tutto il sistema planetario di una società ormai globale, produttivista da millenni e capitalista da secoli, ha mostrato il suo deretano tragicamente umano ma ridicolmente nudo ai cyborg trans umanisti in cerca di una vita eterna pagabile a rate mensili.
Tutto il meccanismo folle del produttivismo capitalista ha dovuto modificare drasticamente e subitaneamente il suo funzionamento abituale nell’esercizio collettivo della sopravvivenza della specie a fini di lucro. Una vera e propria distopia pratica ha preso il posto dell’ideologia dominante fondata sul mito della democrazia parlamentare osannata da tutti – dittatori, affaristi, lobbisti e servitori volontari –, tranne da chi vorrebbe una democrazia vera, diretta e autogestita dalla comunità reale degli esseri umani.
Oppressi da un potere che si pretende benefico mentre succhia loro il sangue, gli sfruttati educati a restarlo, sono pur tuttavia sempre in cerca di un senso da dare alla loro voglia crescente di rivoltarsi contro il totalitarismo allegramente in marcia. Un potere sempre più aggressivo e invadente si estende, infatti, con l’ausilio prezioso di una tecnologia invasiva e ormai capace d’integrarsi fin nel corpo psicofisico individuale dei suoi sempre più liberi schiavi.
Che il potere sia in marcia, del resto, lo annuncia esso stesso, cinico e senza scrupoli, ma cieco e variabile per necessità o per capriccio. Lo spettacolo dominante marcia ora con il passo dell’oca grottesco di dittature cibernetiche già oggettivamente trans umaniste come la Cina, ora con il ritmo blando ma insinuante, subdolo e talvolta delirante dei prodotti adulterati di una democrazia formale sempre più artificiale e corrotta. Il parlamentarismo è, infatti, servito in tutto il vasto mondo sedicente “occidentale” dal laboratorio politico di una propaganda capillare, mediatizzata e digitalizzata.
Corsi e ricorsi storici si susseguono in una storia confiscata dai dominanti ma vissuta anche dalla coscienza infelice dei dominati. È in questo contesto che il virus dal nome evocatore dei tempi andati delle monarchie trionfanti, non si è fermato a Wuhan e neppure a Eboli, ma si è diffuso in Lombardia e poi nel mondo senza trovare ostacoli.
L’Italia è stata, dunque, il primo paese gravemente colpito dalla pandemia dopo la Cina. Cosi, in una strana rimembranza delle teorie del Vico, quel confino che il fascismo mussoliniano aveva inventato al suo nascere per controllare e vessare gli antifascisti precoci degli albori del ventennio a venire, è stato riesumato come un’arma di difesa contro la propagazione del coronavirus; quest’ombrello protettore d’occasione è diventato una necessità diffusa sulla scala del pianeta in mancanza di respiratori, di reagenti per i test e di maschere di protezione, materiale prezioso colpevolmente carente per l’imperizia sparagnina degli Stati[2].
Dal confino di ieri al confinamento di oggi, si è passati dal sopruso subito al ricatto imposto da una realtà sfuggita al controllo non dei deboli – che per condizione non controllano mai nulla –, ma dei potenti, forti nello sfruttare e manipolare i loro simili, ma impotenti di fronte ai diktat della natura quando essa reagisce spontaneamente alle punture di spillo inferte alla sua epidermide robusta dall’hybris degli umanoidi produttivisti.
Eppure i virus e le epidemie vengono da lontano e gli uomini sono stati confrontati al pericolo in questione fin da quando la civiltà mercantile l’ha introdotto come una costante nel rapporto tra l’uomo e la natura.
La diffusione delle malattie virali è stata, infatti, una delle conseguenze deleterie dell’addomesticamento progressivo e indiscriminato delle specie animali da parte dell’uomo. Questo processo ha caratterizzato il passaggio dalle prime società di popoli raccoglitori nomadi ai molto più stanziali agricoltori che hanno integrato nel loro quotidiano la pericolosa promiscuità interspecifica legata all’addomesticamento e all’allevamento sedentario di diverse specie animali a uso e consumo degli esseri umani. Il prezzo di questo mutamento è stato l’introduzione d’innumerevoli patologie (morbillo, scarlattina, varicella per citarne alcune ben note) inesistenti ai tempi in cui gli esseri umani mantenevano una netta distanza dagli animali che procuravano loro cibo e altri preziosi beni di consumo.
Nei quattro millenni cruciali (dal nono al quinto prima dell’era cosiddetta cristiana) trascorsi tra la scoperta dell’agricoltura e il suo trasformarsi in attività produttivista (cioè in lavoro per i più e in arricchimento per pochi altri), le popolazioni di raccoglitori delle società organiche[3], pur praticando già moderatamente la pastorizia e altri tipi di sfruttamento animale, si sono volontariamente limitati a un’agricoltura di sostentamento capace di garantire l’autonomia di una comunità dai capricci aleatori della natura senza faticare troppo, né aumentare il tempo dedicato alla soddisfazione dei bisogni necessari alla vita.
Sembra, infatti, che le attività necessarie, faticose o piacevoli, non eccedessero le due, tre ore quotidiane di quella preistorica epoca di abbondanza e di tempo parzialmente libero[4] che ha preceduto l’epoca storica, così pomposamente chiamata dai dominanti e dalla loro cultura del potere. Questi popoli, organicamente sintonici con la natura di cui erano e si sentivano parte, sono stati catalogati come barbari e selvaggi dai civilizzati allorché erano molto attenti ed evoluti nella ricerca di armonia vitale e nel mantenimento di una distanza che potremmo oggi chiamare di sicurezza tra le diverse specie in contatto. Si garantivano, come meglio potevano, un impiego del tempo piacevole pur in una natura primitiva in cui, certo, i pericoli erano svariati e sempre presenti.
Sia ben chiaro, del resto, che questa mia descrizione non intende accarezzare alcuna simpatia primitivista ma solo esplicitare una robusta diffidenza verso la demente modernizzazione industriale della tecnica, sfuggita al controllo dei suoi inventori umani a vantaggio di una minoranza di sfruttatori beceri e pestiferi.
Per capire lo sviluppo successivo della storia umana, è fondamentale registrare la lunga resistenza generalizzata e spontanea dei popoli raccoglitori delle società organiche preistoriche alla trasformazione dell’agricoltura in una macchina essenzialmente manovrata dall’economia; processo che avrebbe dato vita, qualche millennio più tardi, all’alienazione redditizia e invadente dell’economia politica.
Per dirla tutta, il problema non è affatto l’agricoltura, ma l’uso snaturante che ne è stato fatto dall’ideologia produttivista, distruttrice della relazione organica tra la specie umana e la natura, tra gli uomini fra loro e tra i due generi biologici che godono insieme della dimensione orgastica del vivente, volgarmente chiamata amore.
Per quattro lunghi millenni, pur potendolo, gli esseri umani hanno rifiutato di adeguarsi alle esigenze di un produttivismo reso possibile dall’addomesticamento dei cereali accumulabili senza problemi di deterioramento; prerogativa che ha reso possibile, per la prima volta nella storia, « fare del grano »[5], inventando, cioè, la ricchezza economica e la società gerarchica che ne ha diretto lo sfruttamento fino ai nostri giorni.
L’umanità non è mai stata totalmente nomade, ma ha sempre mescolato la tendenza spontanea a un movimento sociale incessante – in funzione della soddisfazione dei bisogni e dei desideri degli individui della comunità di appartenenza – con delle sedentarietà relative, soprattutto dopo la scoperta dell’agricoltura che ha rivoluzionato le società organiche primitive quasi quanto l’utilizzazione del fuoco, quattrocentomila anni prima, aveva cambiato la vita dei primati che fummo . Grazie all’agricoltura, infatti, è diventata possibile una sedentarietà più godibile pur senza intaccare, per millenni, lo spirito libero e vitale teso all’esplorazione psicogeografica dei godimenti della vita.
Un tale godimento spontaneo e prolungato del presente vissuto è stato, del resto, testimoniato in tutte le epoche da molte celebrazioni famose: basti citare il carpe diem di Orazio che ha anticipato di un millennio e mezzo l’elogio del presente declamato poeticamente da Lorenzo il magnifico alla fine del medioevo, poi il progetto emancipatore di un ben più recente Fourier; tuttavia, tutti i commoventi promotori di un diritto alla pigrizia rivendicato da Paul Lafargue, hanno intinto le loro radici storiche nell’attività orgastica che una nutrita schiera di esseri umani non contaminati dall’irruzione della morale sessuale[6], ha sempre privilegiato naturalmente, a partire da una centralità femminile acratica garante della libertà di tutti.
La corazza caratteriale sessuofobica – e dunque inevitabilmente sessuomaniaca per compensazione della frustrazione subita – costituitasi in seguito all’irruzione della morale in questione, ha prodotto una peste emozionale particolarmente violenta, sfruttatrice e sopraffattrice, da parte di diversi gruppi patriarcali, conquistatori, schiavisti e maschilisti.
Una serie d’invasioni da parte dei Kurgan[7], registrate da Marija Gimbutas nella preistoria più recente, hanno avuto progressivamente ragione nell’Europa antica di una pacifica civiltà gilanica[8] legata al periodo ben più felice delle società organiche matricentriche.
Logicamente su tutto ciò è stato fatto un assordante silenzio accompagnato e sostenuto dalle ideologie religiose in generale e dai monoteismi patriarcali in particolare. Questa vera e propria omertà è cominciata dalla fondazione delle prime città-Stato (la cui data coincide, del resto, con quella delle invasioni Kurgan) e dall’affermarsi della sintesi di tutto questo : un produttivismo mercantile fondato su uno schiavismo patriarcale sistematico e sul diffondersi del suo bellicismo guerriero in una società divisa da un’endemica lotta di classe e di genere, fino alla sua fase terminale attuale – il capitalismo.
È sulla scia lontana di questo processo metastorico reso volutamente invisibile e dagli effetti disastrosi, che il coronavirus ha fatto oggi la sua apparizione, come un capello su una zuppa già seriamente adulterata, obbligando l’umanità intera a interrogarsi sul suo presente fino a coinvolgere il proprio passato rimosso per riaprire la chance di un futuro possibile.
La questione particolare riguardante il coronavirus funziona infatti da lente d’ingrandimento sulla questione maggiore e atavica di una peste emozionale economicista che sta ormai distruggendo le basi stesse della vita, attaccando una biodiversità da cui dipendono i mammiferi umani quanto la maggior parte delle altre specie animali e vegetali.
Il panico che ha guidato gli Stati, i politici e gli scienziati collusi nella gestione della crisi del coronavirus, ha mostrato chiaramente quanto gli uomini di potere siano inaffidabili, portatori di un’irresponsabilità sociale maggiore che mette in discussione l’intera civiltà che li ha generati.
Al contrario, emerge con una limpidezza commovente che i semplici esseri umani si aiutano reciprocamente come possono, ma generosamente, solidali di fronte alla difficoltà. Ecco perché, se l’umanità vuole salvarsi, deve decidersi a elaborare una coscienza di specie antigerarchica che inglobi l’antica coscienza di classe sconfitta per abbattere il Leviatano che la sta distruggendo.
Quest’obiettivo generale è inseparabile dal problema particolare del coronavirus perché in ogni situazione il comportamento del potere è sempre oggettivamente irrazionale e antisociale. Quel che è accaduto è destinato a continuare, se non si rovescia la prospettiva sociale della specie umana, perché è molto peggio dell’arzigogolato complotto ordito dai cattivi, egoisti e diabolici: è, tragicamente, il frutto dell’incapacità strutturale della civiltà produttivista di operare dal punto di vista della vita organica.
Risulta ormai semplicemente e drammaticamente evidente per tutti che la pratica del confinamento è un errore da evitare nella gestione di un’epidemia, salvo se il comportamento irresponsabile del potere economico ha messo molte popolazioni nella condizione di non avere altra scelta.
Storicamente, infatti, il confinamento delle popolazioni è stato una prassi frequente quando gli esseri umani mancavano di mezzi e della conoscenza scientifica delle cause delle diverse pandemie che hanno accompagnato lo sviluppo delle società umane produttiviste. Oggi non si pretende più di combattere la peste usando gli escrementi dei topi, ma l’ignoranza di un tempo è stata sostituita dalla speculazione del JIT (Just In Time), metodo industriale di risparmio calcolato delle scorte che ha messo un gran numero di Stati-nazione capitalisti nell’incapacità di proteggere minimamente con le maschere[9] la popolazione, così come di testare e curare al meglio un numero importante di casi gravi[10].
Il confinamento si è imposto in questa situazione dovuta all’imperizia cinica e ottusa del potere dell’economia politica e solo l’intelligenza e la sensibilità collettiva dei popoli hanno autogestito la situazione nel migliore dei modi possibili. Restando, cioè, vigilanti altrettanto sui rischi d’infezione che sul loro uso come alibi per una definitiva robotizzazione dell’umano in un sistema sociale orwelliano. La riflessione sul tema è stata abbondante quanto l’impossibilità di muoversi liberamente. Ora si avvicina inderogabilmente il momento di scelte sociali radicali per il bene di tutti e della specie intera.


Sergio Ghirardi, 28 maggio 2020



[1] Tuttavia, che ne è stato nel frattempo dei quasi altrettanti quattro miliardi di persone dichiarate estranee a questo tsunami sociale? Mica vivono sulla Luna e nemmeno ancora su Marte!
[2] A parte i deliranti patologici come Trump e Bolsonaro, i pochi paesi scampati al confinamento perché in grado di opporre al virus un controllo medico e mezzi di protezione più efficaci, hanno ottenuto buoni risultati nella profilassi.
[3] In accordo con M. Bookchin, chiamo organiche le società umane caratterizzate da un accordo armonico con la natura che il produttivismo ha distrutto.

[4] Vedi in proposito Marshall Sahlins, L'economia dell'età della pietra. Scarsità e abbondanza nelle società primitive, (1972), Bompiani, Milano 1980.

[5] Secondo i luoghi e le condizioni climatiche, anche orzo, sorgo, mais o altri cereali e poi riso, una volta messa a punto la sua cultura per irrigazione.
[6] W. Reich, L’irruzione della morale sessuale coercitiva, (1951), Sugar, Milano 1972. Vissuto dal vivo, nel secolo scorso, da Malinowski nelle sue prolungate esplorazioni antropologiche nelle isole Trobriand, il passaggio traumatico da una società matricentrica al patriarcato ha evidenziato un tornante decisivo nello sviluppo della nevrosi sociale, dimostratasi ben peggio del “disagio della civiltà” diagnosticato da Freud.
[7] Marija Gimbutas, Kurgan – Le origini della cultura europea, Medusa, Milano 2010, ha chiamato Kurgan (dalla forma a tumulo delle loro sepolture) le popolazioni originarie delle steppe pontico caspiche del sud della Russia (dall’estuario del Danubio fino ai monti Urali all’est e fino al Caucaso settentrionale a sud). Avvezzi a domare i cavalli, attività che sviluppa un autoritarismo feroce, i Kurgan hanno investito in fasi successive i territori dell’Europa antica matricentrica dal 4200 AC.
[8] Secondo Gimbutas, le comunità gilaniche (delle donne libere, dal greco gyné donna + lyein/lyo liberare) furono aggredite e vinte dalle società patriste (devote alla legge del padre, dunque del maschio dominante) dei Kurgan.
[9] Fino a diffondere una criminale menzogna sulla loro presunta inutilità!
[10] Per carenza di materiale si è arrivati alla straziante necessità di scegliere chi intubare e chi lasciare morire tra due malati gravi!



Chi vuol esser lieto, sia…..


Décaméron final - le souvenir des origines
pour l’invention d’un autre présent

« Combien belle est la jeunesse, elle ne cesse de fuir ! Qu'à son gré chacun soit en liesse : rien n'est moins sûr que demain ».
Laurent de Médicis, Trionfo di Bacco e Arianna, 1490.


Entre mars et mai 2020, la société planétaire a subi un détournement unique et décisif dans l’histoire de l’humanité. Jusqu’à hier tout un système immonde de manipulation des consciences avait réussi le refoulement de la moindre réflexion sensée concernant les vrais problèmes du monde, malgré les signaux d’alarme explicites venant de la nature.
Même si confirmée tardivement, l’apparition d’un microscopique coronavirus a mis à nus un bouleversement des vies des êtres humains de la planète terre déjà agissant depuis un moment, mais délibérément désamorcé par la propagande opiniâtre répandue par la caste oligarchique des profiteurs au pouvoir et par leurs serviteurs mercenaires.
Campagnes écologistes spectaculairement pressantes mais stériles et sans débouchées concrètes ont continué à banaliser les risques plus qu’imminents de catastrophes climatiques apocalyptiques. Ces alarmes ambigus et contradictoires se sont ajoutés aux dangers déjà en cours (de Tchernobyl à Fukushima, pour ne citer que les catastrophes majeures), dus à une utilisation inconsciente mais rentable à court terme de l’énergie nucléaire, des pesticides dans l’agriculture, des antibiotiques dans l’élevage et autres nuisances couramment utilisés par l’industrie du business.
Les business de l’industrie et d’une technologie de plus en plus digitale, ont contribué, main dans la main, ou plutôt mains sur le clavier de l’ordinateur ou du telephone, à l’augmentation des pathologies cancérigènes, cardiaques et autres bagatelles pour une humanité en marche vers la catastrophe en se faisant des selfies au bord du gouffre et communiquant par mail et par réseaux sociaux ses inquiétudes impuissantes et ses rages exhibitionnistes.
Maintenant, en revanche, d’un coup, presque quatre milliards d’individus[1] ont vu s’écrouler leurs habitudes, leur déjà fictive autonomie, leurs mouvements obligés de survie consumériste, au nom d’une sécurité sanitaire jugée soudainement en grave danger.
Hors de tout doute raisonnable, c’est clair que dans son mouvement inarrêtable, la nature, agressée et sollicitée par l’artificialisation progressive de la société humaine, a objectivement mis en œuvre un soudain travail pédagogique d’assainissement des superstitions dominantes, en obligeant une espèce désormais habituée au spectacle d’une vie absente à un brusque réveil face à l’urgence imposée par la réalité.
Tout le système planétaire d’une société désormais globale, productiviste depuis des millénaires et capitaliste depuis des siècles, a montré ses fesses tragiquement humaines mais ridiculement nues aux cyborgs trans humanistes en quête d’une vie éternelle payable à tempérament.
Tout le mécanisme fou du productivisme capitaliste a du modifier drastiquement et soudainement son fonctionnement habituel dans l’exercice collectif de la survie de l’espèce à but lucratif. Une véritable dystopie pratique a pris la place de l’idéologie dominante fondée sur le mythe de la démocratie parlementaire saluée par tous – dictateurs, affairistes, lobbyistes et serviteurs volontaires –, sauf par ceux qui voudraient une vraie démocratie, directe et autogérée par la communauté réelle des êtres humains.
Opprimés par un pouvoir qui se prétend bienfaisant alors qu’il suce leur sang, les exploités éduques à le rester, sont pourtant toujours en quête d’un sens à donner à leur envie croissante de se révolter contre le totalitarisme joyeusement en marche. Un pouvoir toujours plus agressif et envahissant s’étale, en fait, avec l’aide précieux d’une technologie invasive et désormais capable d’intégrer même le corps psychophysique individuel de ses esclaves de plus en plus libres.
Que le pouvoir soit en marche, d’ailleurs, c’est annoncé par lui-même, cynique et sans scrupules, mais aveugle et changeant par nécessité ou par caprice. Le spectacle dominant marche une fois avec le grotesque pas de l’oie des dictatures cybernétiques déjà objectivement trans humanistes comme la Chine, une autre avec le rythme fade mais insinuant, sournois et parfois délirant des produits frelatés d’une démocratie formelle toujours plus artificielle et corrompue. Le parlementarisme est, en fait, servi partout dans le vaste monde soi-disant « occidental » par le laboratoire politique d’une propagande capillaire, médiatisée et digitalisée.
Cours et recours historiques se succèdent dans une histoire confisquée par les dominants mais vécue aussi par la conscience malheureuse des dominés. C’est dans ce contexte que le virus au nom évocateur du vieux temps des monarchies triomphantes, ne s’est pas arrêté à Wuhan ni à Eboli, mais il s’est répandu en Lombardie, puis dans le monde sans trouver d’obstacles.
L’Italie a été, donc, le premier pays lourdement frappé par la pandémie après la Chine. Ainsi, par un étrange rappel aux théories de Vico, ce « confino » que le fascisme mussolinien avait inventé à ses débuts pour contrôler et réprimer les antifascistes précoces du début du « ventennio » à venir, a été exhumé comme une arme de défense contre la propagation du coronavirus ; ce parapluie protecteur d’occasion est devenu une nécessité répandue à l’échelle de la planète à cause du manque des respirateurs, des réactifs pour les tests et de masques de protection, matériel précieux dont le défaut coupable est du au disfonctionnement grippe-sou des Etats[2]
Du « confino » de hier au confinement d’aujourd’hui, on est passé de l’abus subi au chantage imposé par une réalité échappée au contrôle, non pas des faibles – qui par leur condition ne contrôlent jamais rien –, mais des puissants, forts dans l’exploitation et la manipulation de leurs semblables, mais impuissants face aux diktats de la nature quand elle réagit spontanément aux égratignures infligées à sa peau solide par l’hybris des humanoïdes productivistes.
Et pourtant, les virus et les épidémies viennent de loin et les hommes ont été confrontés au péril en question depuis que la civilisation marchande l’a introduit comme une constante dans la relation entre l’homme et la nature.
La diffusion des maladies virales a été, en fait, une des conséquences délétères de la domestication progressive et indiscriminée des espèces animales de la part des humains. Ce processus a marqué le passage des premières sociétés nomades de peuples de la cueillette aux agriculteurs beaucoup plus sédentaires qui ont intégré dans leur quotidien la dangereuse promiscuité interspécifique liée à la domestication et à l’élevage sédentaire de multiples espèces animales pour l’utilisation et la consommation des humains. Le prix de cette mutation a été l’introduction d’innombrables pathologies (rougeole, scarlatine, varicelle, pour citer les plus connues) inexistantes à l’époque où les êtres humains gardaient une nette distance des animaux qui leur procuraient de la nourriture et d’autres précieux biens de consommation.
Pendant les quatre millénaires cruciaux (du neuvième au cinquième avant l’ère soi-disant chrétienne) passés entre la découverte de l’agriculture et sa transformation en une activité productiviste (c'est-à-dire en travail pour un grand nombre et en enrichissement pour quelqu’un), les peuples cueilleurs des sociétés organiques[3], tout en pratiquant déjà modérément l’élevage et d’autres formes d’exploitation animale, ont volontairement limité l’agriculture à une activité de subsistance capable de garantir l’autonomie d’une communauté des caprices aléatoires de la nature sans trop se fatiguer, ni augmenter le temps dédié à la satisfaction des besoins nécessaires à la vie.
Car il semble que les activités nécessaires, pénibles ou agréables, ne dépassaient pas les deux, trois heures quotidiennes pendant cette époque préhistorique d’abondance et de temps partiellement libre[4] qui précéda l’époque historique, ainsi pompeusement appelée par les dominants et leur culture du pouvoir. Ces peuples primaires, organiquement en syntonie avec la nature dont ils étaient et se sentaient partie, ont été catalogués comme barbares et sauvages par les civilisés, alors qu’ils étaient très attentifs et évolués dans la recherche d’une harmonie vitale et dans le maintien d’une distance qu’on pourrait aujourd’hui appeler de sécurité entre les differentes espèces en contact. Ils se garantissaient, le mieux possible, un emploi du temps agréable même dans une nature primitive où, certainement, les dangers étaient multiples et toujours présents.
Qu’il soit clair, d’ailleurs, que ma description n’a pas du tout l’intention de cajoler la moindre sympathie primitiviste, mais rendre explicite une forte méfiance envers la démentielle modernisation industrielle de la technique, échappée au contrôle de ses concepteurs humains à l’avantage d’une minorité d’exploiteurs grossiers et pestifères.
Pour comprendre le développement successif de l’histoire humaine, il est fondamental d’enregistrer la longue résistance généralisée et spontanée des peuples cueilleurs des sociétés organiques de la préhistoire envers la transformation de l’agriculture en une machine essentiellement manœuvrée par l’économie ; processus qui a donné vie, quelques millénaires après, à l’aliénation rentable et envahissante de l’économie politique.
Pour tout dire, le problème n’est pas du tout l’agriculture, mais son utilisation dénaturante par l’idéologie productiviste, destructrice de la relation organique entre l’espèce humaine et la nature, entre les hommes et leurs semblables et entre les deux genres biologiques qui jouissent ensemble de la dimension orgastique du vivant, vulgairement appelée amour.
Pendant quatre longs millénaires, tout en étant capables de le faire, les êtres humains ont refusé de s’adapter aux exigences d’un productivisme devenu possible par la domestication des céréales stockables sans problemes de détérioration ; prérogative qui a rendu possible, pour la première fois dans l’histoire, « faire du blé »[5], en inventant ainsi la richesse économique et la société hiérarchique qui a dirigé son exploitation jusqu’à aujourd’hui.
L’humanité n’a jamais été complétement nomade, mais elle a toujours mélangé sa tendance spontanée à un mouvement social incessant – en fonction de la satisfaction des besoins et des désirs des individus de la communauté d’appartenance – avec des sédentarités relatives, surtout après la découverte de l’agriculture qui a révolutionné les sociétés organiques primitives presque autant que l’utilisation du feu, quatre cent mille années auparavant, avait changé la vie des primates que nous fumes. Grace à l’agriculture, en fait, une sédentarité plus jouissive est devenue possible, sans entacher, pendant des millénaires, l’esprit libre et vital tendant à l’exploration psychogeographique des jouissances de la vie.
Une telle jouissance spontanée et prolongée du présent vécu a été, d’ailleurs, témoignée, dans toutes les époques, par plusieurs célébrations fameuses : ça suffit de citer le Carpe diem de Horace qui a anticipé d’un millénaire et demi l’éloge du présent déclamé poétiquement par Laurent de Médicis à la fin du Moyen-âge, puis le projet émancipateur d’un bien plus récent Fourier ; néanmoins, tous les émouvants promoteurs d’un droit à la paresse revendiqué par Paul Lafargue, ont puisé leurs racines historiques dans l’activité orgastique qu’une foule d’êtres humains non contaminés par l’irruption de la morale sexuelle[6] a toujours privilégié naturellement, à partir d’une centralité féminine acratique garant de la liberté de tous.
La cuirasse caractérielle sexophobique – donc inéluctablement sexo maniaque par compensation de la frustration subie – constituée à la suite de l’irruption de la morale en question, a produit une peste émotionnelle particulièrement violente, exploiteuse et oppressant, de la part de plusieurs groupes patriarcaux, conquéreurs, esclavagistes et machistes.
Une série d’invasions de la part des Kurgan[7], enregistrées par Marija Gimbutas dans la préhistoire la plus récente, ont eu progressivement le dessus, dans l’Europe ancienne, d’une pacifique civilisation gylanique[8] liée à la période bien plus heureuse des sociétés organiques matri centriques.
Logiquement un silence assourdissant est tombé sur toute cette question, accompagné et soutenu par les idéologies religieuses en général et par les monothéismes patriarcaux en particulier. Cette véritable « omertà » a commencé par la fondation des premières Cités-Etat (dont la date coïncide, d’ailleurs avec celle des invasions Kurgan) et par l’affirmation de la synthèse de cela : un productivisme marchand fondé sur un esclavage patriarcal systématique et sur la diffusion de son bellicisme guerrier dans une société divisée par une endémique lutte des classes et des genres, jusqu’à sa phase terminale actuelle – le capitalisme.
C’est dans le sillon lointain de ce processus métahistorique rendu volontairement invisible et aux conséquences désastreuses, que le coronavirus a fait aujourd’hui son apparition, comme un cheveu dans une soupe déjà abondamment frelatée, en obligeant l’humanité entière à s’interroger sur son présent jusqu’à concerner son propre passé refoulé afin de relancer la chance d’un futur possible.
La question particulière concernant le coronavirus fonctionne, en fait, comme une loupe sur la question majeure et atavique d’une peste émotionnelle économiste qui est en train de détruire les bases mêmes de la vie, en attaquant une biodiversité dont dépendent les mammifères humains autant que la majorité des autres espèces animales et végétales.
La panique qui a guidé les Etats, les politiciens et les scientifiques complices dans la gestion de la crise du coronavirus, a montré clairement combien les hommes du pouvoir ne sont pas fiables, porteurs d’une irresponsabilité sociale majeure qui met en discussion toute la civilisation qui les a générés.
En revanche, émerge avec une limpidité émouvante que les simples êtres humains s’entraident réciproquement comme ils peuvent, mais généreusement, solidaires face à la difficulté. Voila pourquoi, si l’humanité veut se sauver, elle doit se décider à élaborer une conscience d’espèce antihiérarchique incluant l’ancienne conscience de classe vaincue pour abattre le Léviathan qui est en train de la détruire.
Ce but général est inséparable du problème particulier du coronavirus parce qu’en toute situation le comportement du pouvoir est toujours objectivement irrationnel et antisocial. Ce qui s’est passé est destiné à continuer, si on ne renverse pas la perspective sociale de l’espèce humaine, car c’est bien pire d’un alambiqué complot tramé par les méchants, égoïstes et diaboliques : il est, tragiquement, le fruit de l’incapacité structurelle de la civilisation productiviste à œuvrer du point de vue de la vie organique.
C’est désormais simplement et dramatiquement évident pour tous que la pratique du confinement est une erreur à éviter dans la gestion d’une épidémie, sauf si le comportement irresponsable du pouvoir économique a mis des populations entières dans la situation de n’avoir pas le choix.
Historiquement, en fait, le confinement des populations a été une pratique répandue quand les êtres humains manquaient des moyens et de la connaissance scientifique des causes des pandémies diverses qui ont accompagné le développement des sociétés humaines productivistes. Aujourd’hui on ne prétend plus de lutter contre la peste en utilisant les excréments des rats, mais l’ignorance d’antan s’est recyclée dans la spéculation du flux tendu (JIT, Just in Time), méthode industrielle d’épargne calculé des escortes qui a mis un grand nombre d’Etats-Nation capitalistes dans l’incapacité de protéger un minimum par les masques[9] la population, ainsi que de tester et soigner au mieux un nombre important de cas graves[10].
Le confinement s’est imposé dans cette situation due à la faillite cynique et obtuse du pouvoir de l’économie politique et seules l’intelligence et la sensibilité collective des peuples ont autogéré la situation dans le meilleur des modes possibles. C'est-à-dire, en restant vigilants autant aux risques d’infection qu’à leur utilisation comme un alibi pour une définitive robotisation de l’humain par un système social orwellien. La réflexion sur le thème a été abondante autant que l’impossibilité de bouger librement. Maintenant s’approche, obligatoirement, le moment des choix sociaux radicaux pour le bien de tous et de l’espèce entière.

Sergio Ghirardi, 28 maggio 2020




[1] Néanmoins, entretemps, tous les autres – presque aussi nombreux – soi disant non concernée par ce tsunami social, que sont-ils devenus ? Ils ne vivent pas sur la Lune ni, pas encore, sur Mars !
[2] Mis de côté les délirants pathologiques comme Trump et Bolsonaro, les rares pays qui ont échappé au confinement parce que capables d’opposer au virus un contrôle médical et des moyens de protection plus efficaces, ont obtenu des bons résultats dans la prophylaxie.
[3] D’accord avec M. Bookchin, j’appelle organiques les sociétés humaines caractérisées par un accord harmonique avec la nature que le productivisme a brisé.
[4] Voir à ce propos Marshall Sahlins, Âge de pierre, âge d’abondance – L’économie des sociétés primitives, Gallimard, Paris 1972.
[5] Selon les lieux et les conditions climatiques, l’orge aussi, le sorgo, le mais ou autres céréales, puis le riz, une fois maitrisée sa culture par irrigation.
[6] W. Reich, L’irruption de la morale sexuelle, (1951), Payot, Paris 2007. Vécu directement, au siècle dernier, par Malinowski pendant ses longues explorations anthropologiques dans les iles Trobriand, le passage traumatisant d’une société matri centrique au patriarcat a marqué un tournant décisif dans le développement de la névrose sociale, apparue bien pire du « malaise dans la civilisation » diagnostiqué par Freud.
[7] Marija Gimbutas, The Kurgan wave (3400-3200 BC) into Europe and the following transformation of culture, in “Journal of Indo-European Studies”, vol. 8, pp. 273-315, 1980; Marija Gimbutas, Kurgan – Le origini della cultura europea, Medusa, Milano 2010. Gimbutas a appelé Kurgan (pour la forme de leurs sépultures) les populations originaires des steppes pontique-caspiennes du sud de la Russie (depuis l’estuaire de la Danube jusqu’aux monts Oural à l’est et jusqu’au Caucase septentrional au sud). Habitués à dompter les chevaux, pratique qui développe un autoritarisme poussé, les Kurgan ont investi par phases successives les territoires de l’Europe ancienne matri centrique depuis 4200 AC.
[8] Selon Gimbutas les communautés gylaniques (des femmes libres, du grec gyné femme + lyein/lyo libérer) furent agressées et vaincues par les sociétés patristes (dévotes à la loi du père, donc du mâle dominant) des Kurgan.
[9] Jusqu’à répandre le mensonge criminel de leur inutilité présumée !
[10] Par manque de matériel, on est arrivé à la déchirante nécessité de choisir qui intuber et qui laisser mourir entre deux malades graves !

Quant'è bella giovinezza Lorenzo Dè Medici | PasChics

sabato 23 maggio 2020

Critica del radicalismo borghesotto






Il lavoro della critica rivoluzionaria non consiste certo nel portare la gente a credere che la rivoluzione sarebbe diventata impossibile”.
G. Debord in : Jean-François Martos, Correspondance avec Guy Debord, Le fin mot de l’Histoire, 1998
Quando il popolo comincia a muoversi tra le rovine di un mondo che gli crolla addosso per cercare davvero di uscirne (non avendo, del resto, altra scelta se non morire), l’ultimo atto offensivo del Leviatano che lo opprime, consiste in una critica parziale della situazione fatta da intellettuali che hanno interiorizzato la logica gerarchica del potere e rivolgono la loro critica colpevolizzante su chi lo subisce.
Che gli agenti di questo meccanismo siano coscienti o incoscienti, in buona o mala fede, poco importa: il Leviatano è un virus sociale che utilizza sistematicamente la sua critica separata per trasformarla nel suo rinnovamento. Per sopravvivere a se stesso, dalla sua nascita fino al suo ultimo modo di produzione – il capitalismo –, il produttivismo rinnova incessantemente la corazza ideologica di un suprematismo intellettuale destinato a diventare sociale. Così, da millenni, risorge sempre dalle sue ceneri quel mostro bicefalo che è il connubio di Stato e Mercato.
Nel mondo della lotta di classe durata fino a ieri, la cultura dominante è sempre stata quella della classe dominante; quindi, nei tempi moderni, quella della borghesia. Questa classe è stata l’erede finale di un mondo del commercio dei corpi e delle anime, della vita e della cose, della donna e della natura. I suoi gestori e profittatori hanno chiamato il loro dominio civiltà, progresso, umanesimo e, ben più raramente, persino rivoluzione per nascondere la loro natura di vampiri del sangue umano, del tempo e della gioia di vivere.
In realtà, il potere è un virus sociale, un parassita portatore malsano delle peggiori forme del conflitto tra individui, gruppi e popoli di un’umanità divisa essenzialmente in due classi subalterne l’una all’altra: i dominanti e i dominati. L’egoismo, che nelle società organiche era parzialmente controllato e socializzato dall’intelligenza collettiva, si è trasformato, con il produttivismo, in un’energia pestilenziale individualista che ha contrapposto gruppi, generi, popoli e classi in una guerra senza fine.
Di fronte alla classe borghese che ha incarnato la modernità del dominio sociale, si è levato per secoli l’urlo di Munch del proletariato. Oggi, però, questa lotta di classe plurimillenaria è stata superata dal nichilismo capitalista che ha ridotto l’umanità a una sequela di caste[1] tutte coinvolte nel culto delle rovine e nell’attesa della fine totemizzata come progresso e crescita economica senza fine. Nell’era dello Stato democratico virtuale e del Mercato cibernetico, la cultura è diventata un neoanalfabetismo totalitario che coinvolge tutti, a gradi diversi, nella perdita di senso della realtà ridotta a spettacolo.
Il rapporto tra la storia e la coscienza di classe si è trasformato nella relazione conflittuale tra i teologi della fine della storia (proclamata da trans umanisti di varie sette ideologiche spesso in conflitto tra loro, ma tutte accomunate dalla perdita drastica di ogni intelligenza sensibile, perdita che coinvolge ormai masse di zombi telefonizzati e computerizzati) e degli esseri umani tuttora decisi a uscire dalla preistoria per realizzare la storia, rilevando la sfida di una specie ancora vogliosa di non lasciarsi sopraffare né dai dominanti, né dall’idiozia invasiva dei servitori volontari, né dalle sue stesse “avanguardie” narcisiste e perverse.
È questo un punto di agopuntura cruciale di una radicalità connessa al sorgere spontaneo di una coscienza di specie che esprime, alla radice, il senso di un vecchio slogan della saggezza collettiva rivoluzionaria: l’emancipazione del popolo e degli individui che lo compongono sarà solo l’opera del popolo stesso e di quei liberi individui che autogestiscano la loro vita quotidiana.
A partire da questo assunto, si manifesta concretamente il possibile superamento dell’antica coscienza di classe e insieme la sua realizzazione nella coscienza di specie di un’umanità che si confronta alla storia in una realtà tragicamente nuova, in cui il Leviatano, fragilizzato ma non domo, continua a imperversare contando sulla debolezza e le contraddizioni dei suoi antagonisti.
Far risorgere dalle sue ceneri ancora calde una nuova burocrazia, un nuovo clero tanto più intollerante perché autoproclamatosi ideologicamente rivoluzionario, non è un fenomeno sconosciuto: da sempre, un clero burocratico nuovo di zecca accompagna il rinnovarsi del potere e il suo ordine nuovo. La sua vera natura gerarchica emerge sempre troppo tardi, quando le rivoluzioni in corso si sono già adulterate in controrivoluzioni.
Purtroppo, temo di avere ragione nel diffidare, sulla scia di Wilhelm Reich, della psicologia di massa di un fascismo caratteriale che si ripropone sempre come rivoluzionario prima di potere imporre il suo dominio tramite una volontà di potenza suprematista. E oggi, ancora una volta, ci risiamo. Il momento è rivoluzionario. Il che non vuol dire che la rivoluzione sia in atto, ma che per un soggetto dotato di una nuova coscienza di specie ci sono le situazioni per praticarla, per discuterne democraticamente le modalità, per condividerla fraternamente senza altri nemici di quelli che si proclamino tali difendendo il sopruso e il dominio della morte sulla vita.
Quel che è nuovo oggi, è una crescente diffidenza popolare verso tutte le gerarchie, promettente sospetto che la catastrofica gestione dell’epidemia del coronavirus da parte del potere ha fortemente accentuato. C’è oggettivamente nell’aria, in questo passaggio dal confinamento al deconfinamento diventato una danza macabra intorno al coronavirus, un’alternativa sociale radicale che preme per rompere con l’universo concentrazionario del lavoro che rende liberi di lavorare.
O si torna – non come prima, perché ciò è impossibile, ma molto peggio di prima – nel ghetto consumistico, o s’infrangono le barriere dell’economia politica per costruire un mondo fraterno attraverso una socialità autogestita da tutti per il bene di tutti.
Ebbene, se la servitù volontaria si aggira sempre in masse di adepti del sacrificio e della reciproca tortura, un altro nemico subdolo rode tra le barricate virtuali, facendoci la morale rivoluzionaria prima ancora che la rivoluzione cominci.
Gli intellettuali delle avanguardie politiche autoproclamate sono spesso gli autori di un primo passo verso l’abdicazione all’autonomia del popolo insorto con i loro sermoni, le loro tattiche, le loro strategie di esperti in rivoluzione. Per questo lancio l’allerta sulla peste emozionale che monta, portata anche da quanti, in nome della rivoluzione o anche solo della critica della barbarie, ci fanno la morale, ci rimproverano il peccato mortale e il male assoluto contro il quale si pretendono i Savonarola del secolo. Il (bi)millenarismo rivoluzionario è un sintomo della peste emozionale che critica le sue forme desuete per rinnovarle.
Nello specifico della situazione attuale, quelli che negano l’importanza, se non l’esistenza della pandemia che ha fragilizzato il sistema rendendolo ancora più temibile, sono dei dottrinari mistici in cerca, inconsciamente forse, del potere che criticano. Ti giudicano, pesano il tuo coraggio o le tue supposte paure (come se la paura, ben dosata e non invasiva, non fosse un elemento fondamentale dell’intelligenza sensibile per trovare il coraggio necessario a reagire nelle difficoltà); nel loro misticismo intellettuale, s’immaginano militanti, se non capi, di un’armata rivoluzionaria che agita i loro sogni retorici, incubi aristocratici dove i più intelligenti, i più coraggiosi, avranno il potere perché è giusto così.
Sento questo magma montare, pestifero e cieco, in analfabeti invasati e in intellettuali separati che preparano, senza saperlo né volerlo, le gerarchie di un potere a venire. Come se il vecchio mondo non fosse già, essenzialmente, la stessa cosa. Nessuna logica militare, militante, guerriera ci porterà in un mondo nuovo. Il vecchio è in agguato dietro ogni suprematismo, fosse anche il più ideologicamente libertario.
Io detesto tutti gli dei e tutte le dee che hanno, però, il merito non trascurabile di non esistere. Non ho nulla a che spartire, invece, con i credenti del virus o dell’antivirus, del Cristo o dell’anticristo, della natura sacralizzata o della denaturazione trans umanista, del patriarcato o del matriarcato, perché tutti gli ideologi delle cause perse mi obbligano a proteggermi dal loro irrazionalismo militante che nasconde una voglia inconscia di bruciare, sgozzare, castrare, punire il miscredente, traditore della causa per paura o eresia.
Io amo i diseguali, femmine e maschi che non m’impongono nessuna uguaglianza stabilita da loro e poi distillata come i dieci comandamenti durante qualche lezione di radicalismo. Nella sua paranoia molteplice e variegata, quest’ultimo non è nient’altro che l’ideologia della radicalità di cui dimentica l’essenziale: creare le condizioni di un’uguaglianza dei diseguali che noi tutti siamo. L’opposto, cioè di un’ennesima diseguaglianza sociale stridente tra gli individui dissimulata dietro un’uguaglianza unicamente formale, imposta da un’aristocrazia del denaro, della forza o del pensiero.
Con il suo sapere scolastico, accademico o marginale, il radicalismo moralista degli intellettuali e degli analfabeti fa parte di un’unica cultura dominante. Essa riguarda tutte le caste di un mondo totalitario, dove persino i rivoltosi finiscono per cadere nella trappola di dichiarare invisibili dei comitati che dovrebbero al contrario restare ben visibili per essere costantemente criticati e mandati affanculo quando è il caso.
Così, dei filosofi prositus si svegliano un mattino nel loro confinamento dorato (non credo un secondo che lo abbiano trasgredito davvero come, per coerenza, imporrebbe il loro discorso) per spiegarci che il confinamento è il male assoluto. Grazie dottore, ma quel che ci interessa è il bene relativo, la nostra capacità di autogestire insieme l’emergenza, coltivando preziosamente la libertà insieme al principio di precauzione che fa parte della solidarietà tra esseri umani.
Da bambino, mi raccontava mio padre che durante la guerra, invece di entrare nei rifugi al suono della sirena d’allarme dei bombardamenti, usciva ogni tanto per strada, sentendo e vedendo i bombardieri in cielo, prendendo qualche rischio calcolato (per se e non per gli altri) per coltivare la libertà anche quando sembrava diventare impossibile.
Confesso che i moralisti rivoluzionari che indossano il radicalismo da salotto o da casa editrice mi disturbano leggermente, proprio perché propongono qualche analisi critica condivisibile, mescolata con delle idiozie evidenti e una carica insopportabile di colpevolizzazione intellettuale. Mi disturba il loro tono saccente, da esperti che parlano ai sempliciotti, da teologi che trasudano di lezioni cattedratiche, da capi di un partito invisibile sempre pronti a darti i voti – con il rischio, in prospettiva, di ritrovarsi dannati in inferno. Gli intellettuali separati mi fanno capire che il cammino per l’abolizione di ogni suprematismo è ancora lungo, ma continueremo a percorrerlo, con o senza di voi. Intellettuali, ancora uno sforzo per diventare rivoluzionari.
Sergio Ghirardi, 18 maggio 2020


[1] Tra queste spicca la fantomatica “classe media” che non ha mai costituito una categoria economica. Oltre il disprezzo verso i politici ormai diffuso in tutte le caste, essa dipende piuttosto dal sentimento di stabilità e sicurezza che emanano dalla certezza ideologica che le istituzioni fondamentali del sistema come la polizia, l'educazione, la salute e persino le compagnie di credito siano fondamentalmente dalla parte dei “cittadini”. Sentimento definitivamente indebolito dalla pandemia di Coronavirus.


Pour la critique du radicalisme embourgeoisé

« Le travail de la critique révolutionnaire n’est assurément pas d’amener les gens à croire que la révolution deviendrait impossible ».
G. Debord dans : Jean-François Martos, Correspondance avec Guy Debord, Le fin mot de l’Histoire, 1998

Quand le peuple commence à bouger parmi les ruines d’un monde qui s’écroule sur lui afin de chercher vraiment d’en sortir (en n’ayant, d’ailleurs d’autre choix que mourir), le dernier acte offensif du Léviathan qui l’opprime consiste dans une critique partielle de la situation faite par des intellectuels qui ont intériorisé la logique hiérarchique du pouvoir et dirigent leur critique culpabilisant sur ceux qui le subissent.
Que les agents de ce mécanisme soient conscients ou inconscients, de bonne ou mauvaise foi, peu importe : le Léviathan est un virus social qui utilise systématiquement sa critique séparée pour la transformer dans son renouveau. Pour survivre à lui-même, de sa naissance jusqu’à son dernier mode de production – le capitalisme –, le productivisme renouvèle incessamment la carapace idéologique d’un suprématisme intellectuel destiné à devenir social. Ainsi, depuis des millénaires, resurgit toujours de ses cendres ce monstre bicéphale qui est l’union de l’Etat et du Marché.
Dans le monde de la lutte des classes qui a duré jusqu’à hier, la culture dominante a toujours été celle de la classe dominante, donc, dans les temps modernes, celle de la bourgeoisie. Cette classe a été l’héritière finale d’un monde du commerce des corps et des esprits, de la vie et des choses, de la femme et de la nature. Ses gérants et profiteurs ont appelé leur domination civilisation, progrès, humanisme et parfois même révolution pour cacher leur nature de vampires du sang humain, du temps et de la joie de vivre.
Le pouvoir est, en réalité, un virus social, un parasite porteur malsain des pires formes du conflit entre les individus, les groupes et les peuples d’une humanité essentiellement divisée en deux classes subalternes l’une à l’autre : les dominants et les dominés. L’égoïsme qui dans les sociétés organiques était partiellement maîtrisé et socialisé par l’intelligence collective, s’est transformé, avec le productivisme, en une énergie pestilentielle et individualiste qui a opposé groupes, genres, peuples et classes dans une guerre sans fin.
Face à la classe bourgeoise qui a incarné la modernité de la domination sociale, s’est levé, pendant des siècles, le cri de Munch du prolétariat. Aujourd’hui, toutefois, cette lutte des classes plurimillénaire a été dépassée par le nihilisme capitaliste qui a réduit l’humanité à une séquelle de castes[1] toutes concernées par le culte des ruines et dans l’attente de la fin totemisée comme un progrès et une croissance économique sans fin. A l’époque de l’Etat démocratique virtuel et du Marché cybernétique, la culture est devenue un néo analphabétisme totalitaire qui implique tous, à des degrés differents, dans la perte de sens de la réalité réduite en spectacle.
Le rapport entre l’histoire et la conscience de classe s’est transformé dans la relation conflictuelle entre les théologiens de la fin de l’histoire (proclamée par des trans humanistes de sectes idéologiques diverses, souvent en conflit entre elles, mais toutes réunies par la perte drastique de la moindre intelligence sensible, perte qui concerne, désormais, des masses de zombis téléphonisés et digitalisés) et des êtres humains toujours décidés à sortir de la préhistoire pour réaliser l’histoire, relevant le défi d’une espèce encore désireuse de ne se laisser pas faire ni par les dominants, ni par l’idiotie invasive des serviteurs volontaires, ni par ses propres « avant-gardes » narcissiques et perverses.
Voilà un point d’acupuncture crucial d’une radicalité liée au jaillissement spontané d’une conscience d’espèce qui exprime, à la racine, le sens d’un vieux slogan de la sagesse collective révolutionnaire : l’émancipation du peuple et des individus qui le composent sera l’œuvre du peuple lui-même et de ces libres individus autogérant leurs vies quotidiennes.
A partir de ce point, apparait concrètement le dépassement possible de l’ancienne conscience de classe et, en même temps, sa réalisation dans la conscience d’espèce d’une humanité qui se confronte à l’histoire dans une réalité tragiquement nouvelle, où le Léviathan, fragilisé mais pas vaincu, continue à sévir en comptant sur la faiblesse et les contradictions de ses adversaires.
Faire ressurgir de ses cendres encore chaudes une nouvelle bureaucratie, un nouveau clergé encore plus intolérant car autoproclamé révolutionnaire de façon idéologique, n’est pas un phénomène inconnu : depuis toujours, un clergé bureaucratique réinventé accompagne le renouveau du pouvoir et son ordre nouveau. Sa vraie nature hiérarchique émerge toujours trop tard, quand les révolutions en cours se sont déjà abimées en contrerévolutions.
Hélas, je crains avoir raison de me méfier, dans le sillage de Wilhelm Reich, de la psychologie de masse d’un fascisme caractériel qui se presente toujours comme révolutionnaire avant de pouvoir imposer sa domination par une volonté de puissance suprématiste. Et aujourd’hui, une fois de plus, nous revoilà. Le moment est révolutionnaire. Ce qui ne signifie pas qu’il y a une révolution en action, mais que pour un sujet doté d’une nouvelle conscience d’espèce, il y a la situation pour la pratiquer, pour en discuter démocratiquement les modalités, pour la partager fraternellement sans autres ennemis que ceux qui se déclarent tels en défendant l’injustice et la domination de la mort sur la vie.
Ce qui est nouveau aujourd’hui, est une croissante méfiance populaire envers toutes les hiérarchies, suspicion prometteuse que la catastrophique gestion de l’épidémie de coronavirus de la part du pouvoir a fortement accentué. Il y a objectivement, dans l’air, pendant ce passage du confinement au déconfinement devenu une danse macabre autour du coronavirus, une radicale alternative sociale qui pousse à rompre avec l’univers concentrationnaire du travail qui rend libres de travailler.
Ou on revient – non pas comme avant, car cela est impossible, mais beaucoup pire qu’avant – dans le ghetto consumériste, ou on brise les barrières de l’économie politique pour construire un monde fraternel par une socialité autogérée par tous pour le bien de tous.
Or, si la servitude volontaire traîne toujours chez des masses d’adeptes du sacrifice et de la torture réciproque, un autre ennemi sournois rôde parmi les barricades virtuelles, en nous faisant la morale révolutionnaire avant même que la révolution commence.
Les intellectuels des avant-gardes politiques autoproclamées sont souvent les acteurs d’un premier pas vers l’abdication à l’autonomie du peuple insurgé par leurs sermons, leurs tactiques, leurs stratégies d’experts en révolution. Voilà pourquoi j’alerte à propos de la peste émotionnelle qui monte, véhiculée aussi par ceux qui, au nom de la révolution ou même uniquement de la critique de la barbarie, nous font la morale, nous reprochent le péché mortel et le mal absolu contre lequel se prétendent les Savonarole du siècle. Le (bi)millénarisme révolutionnaire est un symptôme de la peste émotionnelle qui critique ses formes désuètes pour les renouveler.
Dans la spécifique situation actuelle, ceux qui nient l’importance, sinon l’existence, de la pandémie qui a fragilisé le système en le rendant encore plus dangereux, sont des doctrinaires mystiques en quête, inconsciemment peut-être, du pouvoir qu’ils critiquent. Ils te jugent, ils pèsent ton courage ou tes peurs supposées (comme si la peur, bien dosée et non pas invasive, ne serait un élément fondamental de l’intelligence sensible pour trouver le courage nécessaire à réagir dans les difficultés) ; dans leur mysticisme intellectuel, ils s’imaginent militants, sinon chefs, d’une armée révolutionnaire qui agite leurs rêves rhétoriques, cauchemars aristocratiques où les plus intelligents, les plus courageux auront le pouvoir car c’est bien ainsi.
Je sens ce magma monter, pestifère et aveugle, chez des analphabètes hantés et chez des intellectuels séparés qui préparent, sans le savoir ni vouloir, les hiérarchies d’un pouvoir à venir. Comme si le vieux monde ne serait pas, essentiellement, déjà la même chose. Aucune logique militaire, militante ou guerrière ne nous amènera vers un monde nouveau. Le vieux est aux aguets derrière tout suprématisme, fusse-t-il le plus libertaire idéologiquement.
Je déteste tous les dieux et toutes les déesses qui ont, néanmoins, le mérite appréciable de ne pas exister. En revanche, je n’ai rien à faire avec les croyants du virus ou de l’antivirus, du Christ ou de l’anti Christ, de la nature sacralisée ou de la dénaturation transhumaniste, du patriarcat ou du matriarcat, parce que tous les idéologues des causes perdues m’obligent à me protéger de leur irrationalisme militant qui cache une envie inconsciente de brûler, d’égorger, de castrer, de punir le mécréant, traître à la cause par peur ou hérésie.
J’aime les inégaux, femelles et mâles qui ne m’imposent aucune egalité établie par eux et distillée ensuite comme les dix commandements pendant quelques leçons de radicalisme. Dans sa paranoïa multiple et variée, ce dernier n’est rien d’autre que l’idéologie de la radicalité dont il oublie l’essentiel : créer les conditions d’une egalité des inégaux. C'est-à-dire le contraire d’une inégalité sociale criante entre les individus, dissimulée derrière une egalité uniquement formelle, imposée par une aristocratie de l’argent, de la force ou de la pensée.
Avec son savoir scolastique, académique ou marginal, le radicalisme moraliste des intellectuels et des analphabètes participe d’une unique culture dominante. Celle-ci concerne toutes les castes d’un monde totalitaire où même les révoltés tombent dans le piège de déclarer invisibles des comités qui devraient, au contraire, rester toujours bien visibles pour être librement critiqués et envoyés « affanculo » s’il le faut.
Ainsi des philosophes prositus se réveillent un matin dans leur confinement dorée (je ne crois pas un seconde qu’ils l’aient véritablement transgressé comme, par cohérence, leur discours les obligerait) pour nous expliquer que le confinement est le mal absolu. Merci docteur, mais ce qui nous intéresse c’est le bien relatif, notre capacité d’autogérer ensemble l’émergence, en cultivant précieusement la liberté avec le principe de précaution qui fait partie de la solidarité entre les êtres humains.
Mon père me racontait, quand j’étais un enfant : pendant la guerre, au lieu de rentrer dans les refuges au son de la sirène d’alerte des bombardements, il se baladait parfois dans la rue en entendant et voyant le avions bombardiers dans le ciel, en prenant quelques risques calculés (pour soi et non pas pour les autres) afin de cultiver la liberté même quand elle semblait devenir impossible.
J’avoue que les moralistes révolutionnaires affublés d’un radicalisme de salon ou de maison d’édition me dérangent légèrement, justement parce qu’ils proposent quelques analyses critiques partageables mêlées à des idioties évidentes et à une charge insupportable de culpabilisation intellectuelle. Me dérange leur ton savant, d’experts qui parlent aux simplets, de théologiens qui transpirent de leçons ex cathedra, de chefs d’un parti invisible toujours prêts à te noter – avec le risque, en perspective, de se retrouver damnés en enfer. Les intellectuels séparés me font comprendre que le chemin pour l’abolition de tout suprématisme est encore long, mais on va poursuivre la voie, avec ou sans vous. Intellectuels, encore un effort pour devenir des révolutionnaires.

Sergio Ghirardi, 18 mai 2020


[1] Parmi elles, se démarque la fantomatique « classe moyenne » qui n’a jamais constitué une catégorie économique. Au-delà du mépris envers les politiciens, désormais répandu dans toutes les castes, elle tient d’avantage d’un sentiment de stabilité et de sécurité émanant de la certitude idéologique que les institutions fondamentales du système comme la police, l’éducation, la santé et même les compagnies de crédit sont fondamentalement du côté des « citoyens ». Sentiment gravement atteint par la pandemie du Coronavirus.