sabato 23 maggio 2020

Critica del radicalismo borghesotto






Il lavoro della critica rivoluzionaria non consiste certo nel portare la gente a credere che la rivoluzione sarebbe diventata impossibile”.
G. Debord in : Jean-François Martos, Correspondance avec Guy Debord, Le fin mot de l’Histoire, 1998
Quando il popolo comincia a muoversi tra le rovine di un mondo che gli crolla addosso per cercare davvero di uscirne (non avendo, del resto, altra scelta se non morire), l’ultimo atto offensivo del Leviatano che lo opprime, consiste in una critica parziale della situazione fatta da intellettuali che hanno interiorizzato la logica gerarchica del potere e rivolgono la loro critica colpevolizzante su chi lo subisce.
Che gli agenti di questo meccanismo siano coscienti o incoscienti, in buona o mala fede, poco importa: il Leviatano è un virus sociale che utilizza sistematicamente la sua critica separata per trasformarla nel suo rinnovamento. Per sopravvivere a se stesso, dalla sua nascita fino al suo ultimo modo di produzione – il capitalismo –, il produttivismo rinnova incessantemente la corazza ideologica di un suprematismo intellettuale destinato a diventare sociale. Così, da millenni, risorge sempre dalle sue ceneri quel mostro bicefalo che è il connubio di Stato e Mercato.
Nel mondo della lotta di classe durata fino a ieri, la cultura dominante è sempre stata quella della classe dominante; quindi, nei tempi moderni, quella della borghesia. Questa classe è stata l’erede finale di un mondo del commercio dei corpi e delle anime, della vita e della cose, della donna e della natura. I suoi gestori e profittatori hanno chiamato il loro dominio civiltà, progresso, umanesimo e, ben più raramente, persino rivoluzione per nascondere la loro natura di vampiri del sangue umano, del tempo e della gioia di vivere.
In realtà, il potere è un virus sociale, un parassita portatore malsano delle peggiori forme del conflitto tra individui, gruppi e popoli di un’umanità divisa essenzialmente in due classi subalterne l’una all’altra: i dominanti e i dominati. L’egoismo, che nelle società organiche era parzialmente controllato e socializzato dall’intelligenza collettiva, si è trasformato, con il produttivismo, in un’energia pestilenziale individualista che ha contrapposto gruppi, generi, popoli e classi in una guerra senza fine.
Di fronte alla classe borghese che ha incarnato la modernità del dominio sociale, si è levato per secoli l’urlo di Munch del proletariato. Oggi, però, questa lotta di classe plurimillenaria è stata superata dal nichilismo capitalista che ha ridotto l’umanità a una sequela di caste[1] tutte coinvolte nel culto delle rovine e nell’attesa della fine totemizzata come progresso e crescita economica senza fine. Nell’era dello Stato democratico virtuale e del Mercato cibernetico, la cultura è diventata un neoanalfabetismo totalitario che coinvolge tutti, a gradi diversi, nella perdita di senso della realtà ridotta a spettacolo.
Il rapporto tra la storia e la coscienza di classe si è trasformato nella relazione conflittuale tra i teologi della fine della storia (proclamata da trans umanisti di varie sette ideologiche spesso in conflitto tra loro, ma tutte accomunate dalla perdita drastica di ogni intelligenza sensibile, perdita che coinvolge ormai masse di zombi telefonizzati e computerizzati) e degli esseri umani tuttora decisi a uscire dalla preistoria per realizzare la storia, rilevando la sfida di una specie ancora vogliosa di non lasciarsi sopraffare né dai dominanti, né dall’idiozia invasiva dei servitori volontari, né dalle sue stesse “avanguardie” narcisiste e perverse.
È questo un punto di agopuntura cruciale di una radicalità connessa al sorgere spontaneo di una coscienza di specie che esprime, alla radice, il senso di un vecchio slogan della saggezza collettiva rivoluzionaria: l’emancipazione del popolo e degli individui che lo compongono sarà solo l’opera del popolo stesso e di quei liberi individui che autogestiscano la loro vita quotidiana.
A partire da questo assunto, si manifesta concretamente il possibile superamento dell’antica coscienza di classe e insieme la sua realizzazione nella coscienza di specie di un’umanità che si confronta alla storia in una realtà tragicamente nuova, in cui il Leviatano, fragilizzato ma non domo, continua a imperversare contando sulla debolezza e le contraddizioni dei suoi antagonisti.
Far risorgere dalle sue ceneri ancora calde una nuova burocrazia, un nuovo clero tanto più intollerante perché autoproclamatosi ideologicamente rivoluzionario, non è un fenomeno sconosciuto: da sempre, un clero burocratico nuovo di zecca accompagna il rinnovarsi del potere e il suo ordine nuovo. La sua vera natura gerarchica emerge sempre troppo tardi, quando le rivoluzioni in corso si sono già adulterate in controrivoluzioni.
Purtroppo, temo di avere ragione nel diffidare, sulla scia di Wilhelm Reich, della psicologia di massa di un fascismo caratteriale che si ripropone sempre come rivoluzionario prima di potere imporre il suo dominio tramite una volontà di potenza suprematista. E oggi, ancora una volta, ci risiamo. Il momento è rivoluzionario. Il che non vuol dire che la rivoluzione sia in atto, ma che per un soggetto dotato di una nuova coscienza di specie ci sono le situazioni per praticarla, per discuterne democraticamente le modalità, per condividerla fraternamente senza altri nemici di quelli che si proclamino tali difendendo il sopruso e il dominio della morte sulla vita.
Quel che è nuovo oggi, è una crescente diffidenza popolare verso tutte le gerarchie, promettente sospetto che la catastrofica gestione dell’epidemia del coronavirus da parte del potere ha fortemente accentuato. C’è oggettivamente nell’aria, in questo passaggio dal confinamento al deconfinamento diventato una danza macabra intorno al coronavirus, un’alternativa sociale radicale che preme per rompere con l’universo concentrazionario del lavoro che rende liberi di lavorare.
O si torna – non come prima, perché ciò è impossibile, ma molto peggio di prima – nel ghetto consumistico, o s’infrangono le barriere dell’economia politica per costruire un mondo fraterno attraverso una socialità autogestita da tutti per il bene di tutti.
Ebbene, se la servitù volontaria si aggira sempre in masse di adepti del sacrificio e della reciproca tortura, un altro nemico subdolo rode tra le barricate virtuali, facendoci la morale rivoluzionaria prima ancora che la rivoluzione cominci.
Gli intellettuali delle avanguardie politiche autoproclamate sono spesso gli autori di un primo passo verso l’abdicazione all’autonomia del popolo insorto con i loro sermoni, le loro tattiche, le loro strategie di esperti in rivoluzione. Per questo lancio l’allerta sulla peste emozionale che monta, portata anche da quanti, in nome della rivoluzione o anche solo della critica della barbarie, ci fanno la morale, ci rimproverano il peccato mortale e il male assoluto contro il quale si pretendono i Savonarola del secolo. Il (bi)millenarismo rivoluzionario è un sintomo della peste emozionale che critica le sue forme desuete per rinnovarle.
Nello specifico della situazione attuale, quelli che negano l’importanza, se non l’esistenza della pandemia che ha fragilizzato il sistema rendendolo ancora più temibile, sono dei dottrinari mistici in cerca, inconsciamente forse, del potere che criticano. Ti giudicano, pesano il tuo coraggio o le tue supposte paure (come se la paura, ben dosata e non invasiva, non fosse un elemento fondamentale dell’intelligenza sensibile per trovare il coraggio necessario a reagire nelle difficoltà); nel loro misticismo intellettuale, s’immaginano militanti, se non capi, di un’armata rivoluzionaria che agita i loro sogni retorici, incubi aristocratici dove i più intelligenti, i più coraggiosi, avranno il potere perché è giusto così.
Sento questo magma montare, pestifero e cieco, in analfabeti invasati e in intellettuali separati che preparano, senza saperlo né volerlo, le gerarchie di un potere a venire. Come se il vecchio mondo non fosse già, essenzialmente, la stessa cosa. Nessuna logica militare, militante, guerriera ci porterà in un mondo nuovo. Il vecchio è in agguato dietro ogni suprematismo, fosse anche il più ideologicamente libertario.
Io detesto tutti gli dei e tutte le dee che hanno, però, il merito non trascurabile di non esistere. Non ho nulla a che spartire, invece, con i credenti del virus o dell’antivirus, del Cristo o dell’anticristo, della natura sacralizzata o della denaturazione trans umanista, del patriarcato o del matriarcato, perché tutti gli ideologi delle cause perse mi obbligano a proteggermi dal loro irrazionalismo militante che nasconde una voglia inconscia di bruciare, sgozzare, castrare, punire il miscredente, traditore della causa per paura o eresia.
Io amo i diseguali, femmine e maschi che non m’impongono nessuna uguaglianza stabilita da loro e poi distillata come i dieci comandamenti durante qualche lezione di radicalismo. Nella sua paranoia molteplice e variegata, quest’ultimo non è nient’altro che l’ideologia della radicalità di cui dimentica l’essenziale: creare le condizioni di un’uguaglianza dei diseguali che noi tutti siamo. L’opposto, cioè di un’ennesima diseguaglianza sociale stridente tra gli individui dissimulata dietro un’uguaglianza unicamente formale, imposta da un’aristocrazia del denaro, della forza o del pensiero.
Con il suo sapere scolastico, accademico o marginale, il radicalismo moralista degli intellettuali e degli analfabeti fa parte di un’unica cultura dominante. Essa riguarda tutte le caste di un mondo totalitario, dove persino i rivoltosi finiscono per cadere nella trappola di dichiarare invisibili dei comitati che dovrebbero al contrario restare ben visibili per essere costantemente criticati e mandati affanculo quando è il caso.
Così, dei filosofi prositus si svegliano un mattino nel loro confinamento dorato (non credo un secondo che lo abbiano trasgredito davvero come, per coerenza, imporrebbe il loro discorso) per spiegarci che il confinamento è il male assoluto. Grazie dottore, ma quel che ci interessa è il bene relativo, la nostra capacità di autogestire insieme l’emergenza, coltivando preziosamente la libertà insieme al principio di precauzione che fa parte della solidarietà tra esseri umani.
Da bambino, mi raccontava mio padre che durante la guerra, invece di entrare nei rifugi al suono della sirena d’allarme dei bombardamenti, usciva ogni tanto per strada, sentendo e vedendo i bombardieri in cielo, prendendo qualche rischio calcolato (per se e non per gli altri) per coltivare la libertà anche quando sembrava diventare impossibile.
Confesso che i moralisti rivoluzionari che indossano il radicalismo da salotto o da casa editrice mi disturbano leggermente, proprio perché propongono qualche analisi critica condivisibile, mescolata con delle idiozie evidenti e una carica insopportabile di colpevolizzazione intellettuale. Mi disturba il loro tono saccente, da esperti che parlano ai sempliciotti, da teologi che trasudano di lezioni cattedratiche, da capi di un partito invisibile sempre pronti a darti i voti – con il rischio, in prospettiva, di ritrovarsi dannati in inferno. Gli intellettuali separati mi fanno capire che il cammino per l’abolizione di ogni suprematismo è ancora lungo, ma continueremo a percorrerlo, con o senza di voi. Intellettuali, ancora uno sforzo per diventare rivoluzionari.
Sergio Ghirardi, 18 maggio 2020


[1] Tra queste spicca la fantomatica “classe media” che non ha mai costituito una categoria economica. Oltre il disprezzo verso i politici ormai diffuso in tutte le caste, essa dipende piuttosto dal sentimento di stabilità e sicurezza che emanano dalla certezza ideologica che le istituzioni fondamentali del sistema come la polizia, l'educazione, la salute e persino le compagnie di credito siano fondamentalmente dalla parte dei “cittadini”. Sentimento definitivamente indebolito dalla pandemia di Coronavirus.


Pour la critique du radicalisme embourgeoisé

« Le travail de la critique révolutionnaire n’est assurément pas d’amener les gens à croire que la révolution deviendrait impossible ».
G. Debord dans : Jean-François Martos, Correspondance avec Guy Debord, Le fin mot de l’Histoire, 1998

Quand le peuple commence à bouger parmi les ruines d’un monde qui s’écroule sur lui afin de chercher vraiment d’en sortir (en n’ayant, d’ailleurs d’autre choix que mourir), le dernier acte offensif du Léviathan qui l’opprime consiste dans une critique partielle de la situation faite par des intellectuels qui ont intériorisé la logique hiérarchique du pouvoir et dirigent leur critique culpabilisant sur ceux qui le subissent.
Que les agents de ce mécanisme soient conscients ou inconscients, de bonne ou mauvaise foi, peu importe : le Léviathan est un virus social qui utilise systématiquement sa critique séparée pour la transformer dans son renouveau. Pour survivre à lui-même, de sa naissance jusqu’à son dernier mode de production – le capitalisme –, le productivisme renouvèle incessamment la carapace idéologique d’un suprématisme intellectuel destiné à devenir social. Ainsi, depuis des millénaires, resurgit toujours de ses cendres ce monstre bicéphale qui est l’union de l’Etat et du Marché.
Dans le monde de la lutte des classes qui a duré jusqu’à hier, la culture dominante a toujours été celle de la classe dominante, donc, dans les temps modernes, celle de la bourgeoisie. Cette classe a été l’héritière finale d’un monde du commerce des corps et des esprits, de la vie et des choses, de la femme et de la nature. Ses gérants et profiteurs ont appelé leur domination civilisation, progrès, humanisme et parfois même révolution pour cacher leur nature de vampires du sang humain, du temps et de la joie de vivre.
Le pouvoir est, en réalité, un virus social, un parasite porteur malsain des pires formes du conflit entre les individus, les groupes et les peuples d’une humanité essentiellement divisée en deux classes subalternes l’une à l’autre : les dominants et les dominés. L’égoïsme qui dans les sociétés organiques était partiellement maîtrisé et socialisé par l’intelligence collective, s’est transformé, avec le productivisme, en une énergie pestilentielle et individualiste qui a opposé groupes, genres, peuples et classes dans une guerre sans fin.
Face à la classe bourgeoise qui a incarné la modernité de la domination sociale, s’est levé, pendant des siècles, le cri de Munch du prolétariat. Aujourd’hui, toutefois, cette lutte des classes plurimillénaire a été dépassée par le nihilisme capitaliste qui a réduit l’humanité à une séquelle de castes[1] toutes concernées par le culte des ruines et dans l’attente de la fin totemisée comme un progrès et une croissance économique sans fin. A l’époque de l’Etat démocratique virtuel et du Marché cybernétique, la culture est devenue un néo analphabétisme totalitaire qui implique tous, à des degrés differents, dans la perte de sens de la réalité réduite en spectacle.
Le rapport entre l’histoire et la conscience de classe s’est transformé dans la relation conflictuelle entre les théologiens de la fin de l’histoire (proclamée par des trans humanistes de sectes idéologiques diverses, souvent en conflit entre elles, mais toutes réunies par la perte drastique de la moindre intelligence sensible, perte qui concerne, désormais, des masses de zombis téléphonisés et digitalisés) et des êtres humains toujours décidés à sortir de la préhistoire pour réaliser l’histoire, relevant le défi d’une espèce encore désireuse de ne se laisser pas faire ni par les dominants, ni par l’idiotie invasive des serviteurs volontaires, ni par ses propres « avant-gardes » narcissiques et perverses.
Voilà un point d’acupuncture crucial d’une radicalité liée au jaillissement spontané d’une conscience d’espèce qui exprime, à la racine, le sens d’un vieux slogan de la sagesse collective révolutionnaire : l’émancipation du peuple et des individus qui le composent sera l’œuvre du peuple lui-même et de ces libres individus autogérant leurs vies quotidiennes.
A partir de ce point, apparait concrètement le dépassement possible de l’ancienne conscience de classe et, en même temps, sa réalisation dans la conscience d’espèce d’une humanité qui se confronte à l’histoire dans une réalité tragiquement nouvelle, où le Léviathan, fragilisé mais pas vaincu, continue à sévir en comptant sur la faiblesse et les contradictions de ses adversaires.
Faire ressurgir de ses cendres encore chaudes une nouvelle bureaucratie, un nouveau clergé encore plus intolérant car autoproclamé révolutionnaire de façon idéologique, n’est pas un phénomène inconnu : depuis toujours, un clergé bureaucratique réinventé accompagne le renouveau du pouvoir et son ordre nouveau. Sa vraie nature hiérarchique émerge toujours trop tard, quand les révolutions en cours se sont déjà abimées en contrerévolutions.
Hélas, je crains avoir raison de me méfier, dans le sillage de Wilhelm Reich, de la psychologie de masse d’un fascisme caractériel qui se presente toujours comme révolutionnaire avant de pouvoir imposer sa domination par une volonté de puissance suprématiste. Et aujourd’hui, une fois de plus, nous revoilà. Le moment est révolutionnaire. Ce qui ne signifie pas qu’il y a une révolution en action, mais que pour un sujet doté d’une nouvelle conscience d’espèce, il y a la situation pour la pratiquer, pour en discuter démocratiquement les modalités, pour la partager fraternellement sans autres ennemis que ceux qui se déclarent tels en défendant l’injustice et la domination de la mort sur la vie.
Ce qui est nouveau aujourd’hui, est une croissante méfiance populaire envers toutes les hiérarchies, suspicion prometteuse que la catastrophique gestion de l’épidémie de coronavirus de la part du pouvoir a fortement accentué. Il y a objectivement, dans l’air, pendant ce passage du confinement au déconfinement devenu une danse macabre autour du coronavirus, une radicale alternative sociale qui pousse à rompre avec l’univers concentrationnaire du travail qui rend libres de travailler.
Ou on revient – non pas comme avant, car cela est impossible, mais beaucoup pire qu’avant – dans le ghetto consumériste, ou on brise les barrières de l’économie politique pour construire un monde fraternel par une socialité autogérée par tous pour le bien de tous.
Or, si la servitude volontaire traîne toujours chez des masses d’adeptes du sacrifice et de la torture réciproque, un autre ennemi sournois rôde parmi les barricades virtuelles, en nous faisant la morale révolutionnaire avant même que la révolution commence.
Les intellectuels des avant-gardes politiques autoproclamées sont souvent les acteurs d’un premier pas vers l’abdication à l’autonomie du peuple insurgé par leurs sermons, leurs tactiques, leurs stratégies d’experts en révolution. Voilà pourquoi j’alerte à propos de la peste émotionnelle qui monte, véhiculée aussi par ceux qui, au nom de la révolution ou même uniquement de la critique de la barbarie, nous font la morale, nous reprochent le péché mortel et le mal absolu contre lequel se prétendent les Savonarole du siècle. Le (bi)millénarisme révolutionnaire est un symptôme de la peste émotionnelle qui critique ses formes désuètes pour les renouveler.
Dans la spécifique situation actuelle, ceux qui nient l’importance, sinon l’existence, de la pandémie qui a fragilisé le système en le rendant encore plus dangereux, sont des doctrinaires mystiques en quête, inconsciemment peut-être, du pouvoir qu’ils critiquent. Ils te jugent, ils pèsent ton courage ou tes peurs supposées (comme si la peur, bien dosée et non pas invasive, ne serait un élément fondamental de l’intelligence sensible pour trouver le courage nécessaire à réagir dans les difficultés) ; dans leur mysticisme intellectuel, ils s’imaginent militants, sinon chefs, d’une armée révolutionnaire qui agite leurs rêves rhétoriques, cauchemars aristocratiques où les plus intelligents, les plus courageux auront le pouvoir car c’est bien ainsi.
Je sens ce magma monter, pestifère et aveugle, chez des analphabètes hantés et chez des intellectuels séparés qui préparent, sans le savoir ni vouloir, les hiérarchies d’un pouvoir à venir. Comme si le vieux monde ne serait pas, essentiellement, déjà la même chose. Aucune logique militaire, militante ou guerrière ne nous amènera vers un monde nouveau. Le vieux est aux aguets derrière tout suprématisme, fusse-t-il le plus libertaire idéologiquement.
Je déteste tous les dieux et toutes les déesses qui ont, néanmoins, le mérite appréciable de ne pas exister. En revanche, je n’ai rien à faire avec les croyants du virus ou de l’antivirus, du Christ ou de l’anti Christ, de la nature sacralisée ou de la dénaturation transhumaniste, du patriarcat ou du matriarcat, parce que tous les idéologues des causes perdues m’obligent à me protéger de leur irrationalisme militant qui cache une envie inconsciente de brûler, d’égorger, de castrer, de punir le mécréant, traître à la cause par peur ou hérésie.
J’aime les inégaux, femelles et mâles qui ne m’imposent aucune egalité établie par eux et distillée ensuite comme les dix commandements pendant quelques leçons de radicalisme. Dans sa paranoïa multiple et variée, ce dernier n’est rien d’autre que l’idéologie de la radicalité dont il oublie l’essentiel : créer les conditions d’une egalité des inégaux. C'est-à-dire le contraire d’une inégalité sociale criante entre les individus, dissimulée derrière une egalité uniquement formelle, imposée par une aristocratie de l’argent, de la force ou de la pensée.
Avec son savoir scolastique, académique ou marginal, le radicalisme moraliste des intellectuels et des analphabètes participe d’une unique culture dominante. Celle-ci concerne toutes les castes d’un monde totalitaire où même les révoltés tombent dans le piège de déclarer invisibles des comités qui devraient, au contraire, rester toujours bien visibles pour être librement critiqués et envoyés « affanculo » s’il le faut.
Ainsi des philosophes prositus se réveillent un matin dans leur confinement dorée (je ne crois pas un seconde qu’ils l’aient véritablement transgressé comme, par cohérence, leur discours les obligerait) pour nous expliquer que le confinement est le mal absolu. Merci docteur, mais ce qui nous intéresse c’est le bien relatif, notre capacité d’autogérer ensemble l’émergence, en cultivant précieusement la liberté avec le principe de précaution qui fait partie de la solidarité entre les êtres humains.
Mon père me racontait, quand j’étais un enfant : pendant la guerre, au lieu de rentrer dans les refuges au son de la sirène d’alerte des bombardements, il se baladait parfois dans la rue en entendant et voyant le avions bombardiers dans le ciel, en prenant quelques risques calculés (pour soi et non pas pour les autres) afin de cultiver la liberté même quand elle semblait devenir impossible.
J’avoue que les moralistes révolutionnaires affublés d’un radicalisme de salon ou de maison d’édition me dérangent légèrement, justement parce qu’ils proposent quelques analyses critiques partageables mêlées à des idioties évidentes et à une charge insupportable de culpabilisation intellectuelle. Me dérange leur ton savant, d’experts qui parlent aux simplets, de théologiens qui transpirent de leçons ex cathedra, de chefs d’un parti invisible toujours prêts à te noter – avec le risque, en perspective, de se retrouver damnés en enfer. Les intellectuels séparés me font comprendre que le chemin pour l’abolition de tout suprématisme est encore long, mais on va poursuivre la voie, avec ou sans vous. Intellectuels, encore un effort pour devenir des révolutionnaires.

Sergio Ghirardi, 18 mai 2020


[1] Parmi elles, se démarque la fantomatique « classe moyenne » qui n’a jamais constitué une catégorie économique. Au-delà du mépris envers les politiciens, désormais répandu dans toutes les castes, elle tient d’avantage d’un sentiment de stabilité et de sécurité émanant de la certitude idéologique que les institutions fondamentales du système comme la police, l’éducation, la santé et même les compagnies de crédit sont fondamentalement du côté des « citoyens ». Sentiment gravement atteint par la pandemie du Coronavirus.