“Il lavoro della critica rivoluzionaria non
consiste certo nel portare la gente a credere che la rivoluzione sarebbe
diventata impossibile”.
G. Debord in : Jean-François Martos, Correspondance
avec Guy Debord, Le fin mot de l’Histoire, 1998
Quando
il popolo comincia a muoversi tra le rovine di un mondo che gli crolla addosso
per cercare davvero di uscirne (non avendo, del resto, altra scelta se non
morire), l’ultimo atto offensivo del Leviatano che lo opprime, consiste in una
critica parziale della situazione fatta da intellettuali che hanno
interiorizzato la logica gerarchica del potere e rivolgono la loro critica colpevolizzante
su chi lo subisce.
Che
gli agenti di questo meccanismo siano coscienti o incoscienti, in buona o mala
fede, poco importa: il Leviatano è un virus sociale che utilizza sistematicamente
la sua critica separata per trasformarla nel suo rinnovamento. Per sopravvivere
a se stesso, dalla sua nascita fino al suo ultimo modo di produzione – il
capitalismo –, il produttivismo rinnova incessantemente la corazza ideologica di
un suprematismo intellettuale destinato a diventare sociale. Così, da millenni,
risorge sempre dalle sue ceneri quel mostro bicefalo che è il connubio di Stato
e Mercato.
Nel
mondo della lotta di classe durata fino a ieri, la cultura dominante è sempre
stata quella della classe dominante; quindi, nei tempi moderni, quella della
borghesia. Questa classe è stata l’erede finale di un mondo del commercio dei
corpi e delle anime, della vita e della cose, della donna e della natura. I
suoi gestori e profittatori hanno chiamato il loro dominio civiltà, progresso, umanesimo e, ben più raramente, persino rivoluzione per nascondere la loro
natura di vampiri del sangue umano, del tempo e della gioia di vivere.
In
realtà, il potere è un virus sociale, un parassita portatore malsano delle
peggiori forme del conflitto tra individui, gruppi e popoli di un’umanità
divisa essenzialmente in due classi subalterne l’una all’altra: i dominanti e i
dominati. L’egoismo, che nelle società organiche era parzialmente controllato e
socializzato dall’intelligenza collettiva, si è trasformato, con il
produttivismo, in un’energia pestilenziale individualista che ha contrapposto
gruppi, generi, popoli e classi in una guerra senza fine.
Di
fronte alla classe borghese che ha incarnato la modernità del dominio sociale, si
è levato per secoli l’urlo di Munch del proletariato. Oggi, però, questa lotta
di classe plurimillenaria è stata superata dal nichilismo capitalista che ha
ridotto l’umanità a una sequela di caste[1] tutte
coinvolte nel culto delle rovine e nell’attesa della fine totemizzata come progresso e crescita economica senza fine. Nell’era
dello Stato democratico virtuale e del Mercato cibernetico, la cultura è diventata
un neoanalfabetismo totalitario che coinvolge tutti, a gradi diversi, nella
perdita di senso della realtà ridotta a spettacolo.
Il
rapporto tra la storia e la coscienza di classe si è trasformato nella
relazione conflittuale tra i teologi della fine della storia (proclamata da trans
umanisti di varie sette ideologiche spesso in conflitto tra loro, ma tutte accomunate
dalla perdita drastica di ogni intelligenza sensibile, perdita che coinvolge
ormai masse di zombi telefonizzati e computerizzati) e degli esseri umani tuttora
decisi a uscire dalla preistoria per realizzare la storia, rilevando la sfida
di una specie ancora vogliosa di non lasciarsi sopraffare né dai dominanti, né
dall’idiozia invasiva dei servitori volontari, né dalle sue stesse “avanguardie”
narcisiste e perverse.
È
questo un punto di agopuntura cruciale di una radicalità connessa al sorgere
spontaneo di una coscienza di specie che esprime, alla radice, il senso di un
vecchio slogan della saggezza collettiva rivoluzionaria: l’emancipazione del popolo e degli individui che lo compongono sarà
solo l’opera del popolo stesso e di quei liberi individui che autogestiscano la
loro vita quotidiana.
A partire da
questo assunto, si manifesta concretamente il possibile superamento dell’antica
coscienza di classe e insieme la sua realizzazione nella coscienza di specie di
un’umanità che si confronta alla storia in una realtà tragicamente nuova, in
cui il Leviatano, fragilizzato ma non domo, continua a imperversare contando sulla
debolezza e le contraddizioni dei suoi antagonisti.
Far risorgere
dalle sue ceneri ancora calde una nuova burocrazia, un nuovo clero tanto più intollerante
perché autoproclamatosi ideologicamente rivoluzionario, non è un fenomeno sconosciuto:
da sempre, un clero burocratico nuovo di zecca accompagna il rinnovarsi del potere
e il suo ordine nuovo. La sua vera natura gerarchica emerge sempre troppo
tardi, quando le rivoluzioni in corso si sono già adulterate in
controrivoluzioni.
Purtroppo,
temo di avere ragione nel diffidare, sulla scia di Wilhelm Reich, della
psicologia di massa di un fascismo caratteriale che si ripropone sempre come
rivoluzionario prima di potere imporre il suo dominio tramite una volontà di
potenza suprematista. E oggi, ancora una volta, ci risiamo. Il momento è
rivoluzionario. Il che non vuol dire che la rivoluzione sia in atto, ma che per
un soggetto dotato di una nuova coscienza di specie ci sono le situazioni per
praticarla, per discuterne democraticamente le modalità, per condividerla
fraternamente senza altri nemici di quelli che si proclamino tali difendendo il
sopruso e il dominio della morte sulla vita.
Quel
che è nuovo oggi, è una crescente diffidenza popolare verso tutte le gerarchie,
promettente sospetto che la catastrofica gestione dell’epidemia del coronavirus
da parte del potere ha fortemente accentuato. C’è oggettivamente nell’aria, in
questo passaggio dal confinamento al deconfinamento diventato una danza macabra
intorno al coronavirus, un’alternativa sociale radicale che preme per rompere
con l’universo concentrazionario del lavoro che rende liberi di lavorare.
O
si torna – non come prima, perché ciò è impossibile, ma molto peggio di prima –
nel ghetto consumistico, o s’infrangono le barriere dell’economia politica per
costruire un mondo fraterno attraverso una socialità autogestita da tutti per
il bene di tutti.
Ebbene,
se la servitù volontaria si aggira sempre in masse di adepti del sacrificio e
della reciproca tortura, un altro nemico subdolo rode tra le barricate virtuali,
facendoci la morale rivoluzionaria prima ancora che la rivoluzione cominci.
Gli
intellettuali delle avanguardie politiche autoproclamate sono spesso gli autori
di un primo passo verso l’abdicazione all’autonomia del popolo insorto con i
loro sermoni, le loro tattiche, le loro strategie di esperti in rivoluzione. Per
questo lancio l’allerta sulla peste emozionale che monta, portata anche da quanti,
in nome della rivoluzione o anche solo della critica della barbarie, ci fanno
la morale, ci rimproverano il peccato mortale e il male assoluto contro il
quale si pretendono i Savonarola del secolo. Il (bi)millenarismo rivoluzionario
è un sintomo della peste emozionale che critica le sue forme desuete per
rinnovarle.
Nello
specifico della situazione attuale, quelli che negano l’importanza, se non l’esistenza
della pandemia che ha fragilizzato il sistema rendendolo ancora più temibile,
sono dei dottrinari mistici in cerca, inconsciamente forse, del potere che
criticano. Ti giudicano, pesano il tuo coraggio o le tue supposte paure (come
se la paura, ben dosata e non invasiva, non fosse un elemento fondamentale dell’intelligenza
sensibile per trovare il coraggio necessario a reagire nelle difficoltà); nel
loro misticismo intellettuale, s’immaginano militanti, se non capi, di un’armata
rivoluzionaria che agita i loro sogni retorici, incubi aristocratici dove i più
intelligenti, i più coraggiosi, avranno il potere perché è giusto così.
Sento
questo magma montare, pestifero e cieco, in analfabeti invasati e in
intellettuali separati che preparano, senza saperlo né volerlo, le gerarchie di
un potere a venire. Come se il vecchio mondo non fosse già, essenzialmente, la
stessa cosa. Nessuna logica militare, militante, guerriera ci porterà in un
mondo nuovo. Il vecchio è in agguato dietro ogni suprematismo, fosse anche il
più ideologicamente libertario.
Io
detesto tutti gli dei e tutte le dee che hanno, però, il merito non
trascurabile di non esistere. Non ho nulla a che spartire, invece, con i
credenti del virus o dell’antivirus, del Cristo o dell’anticristo, della natura
sacralizzata o della denaturazione trans umanista, del patriarcato o del
matriarcato, perché tutti gli ideologi delle cause perse mi obbligano a proteggermi
dal loro irrazionalismo militante che nasconde una voglia inconscia di bruciare,
sgozzare, castrare, punire il miscredente, traditore della causa per paura o
eresia.
Io
amo i diseguali, femmine e maschi che non m’impongono nessuna uguaglianza
stabilita da loro e poi distillata come i dieci comandamenti durante qualche
lezione di radicalismo. Nella sua paranoia molteplice e variegata, quest’ultimo
non è nient’altro che l’ideologia della radicalità di cui dimentica
l’essenziale: creare le condizioni di un’uguaglianza dei diseguali che noi
tutti siamo. L’opposto, cioè di un’ennesima diseguaglianza sociale stridente
tra gli individui dissimulata dietro un’uguaglianza unicamente formale, imposta
da un’aristocrazia del denaro, della forza o del pensiero.
Con
il suo sapere scolastico, accademico o marginale, il radicalismo moralista degli
intellettuali e degli analfabeti fa parte di un’unica cultura dominante. Essa
riguarda tutte le caste di un mondo totalitario, dove persino i rivoltosi
finiscono per cadere nella trappola di dichiarare invisibili dei comitati che
dovrebbero al contrario restare ben visibili per essere costantemente criticati
e mandati affanculo quando è il caso.
Così,
dei filosofi prositus si svegliano un mattino nel loro confinamento dorato (non
credo un secondo che lo abbiano trasgredito davvero come, per coerenza,
imporrebbe il loro discorso) per spiegarci che il confinamento è il male
assoluto. Grazie dottore, ma quel che ci interessa è il bene relativo, la
nostra capacità di autogestire insieme l’emergenza, coltivando preziosamente la
libertà insieme al principio di precauzione che fa parte della solidarietà tra
esseri umani.
Da
bambino, mi raccontava mio padre che durante la guerra, invece di entrare nei
rifugi al suono della sirena d’allarme dei bombardamenti, usciva ogni tanto per
strada, sentendo e vedendo i bombardieri in cielo, prendendo qualche rischio
calcolato (per se e non per gli altri) per coltivare la libertà anche quando sembrava
diventare impossibile.
Confesso
che i moralisti rivoluzionari che indossano il radicalismo da salotto o da casa
editrice mi disturbano leggermente, proprio perché propongono qualche analisi critica
condivisibile, mescolata con delle idiozie evidenti e una carica insopportabile
di colpevolizzazione intellettuale. Mi disturba il loro tono saccente, da esperti
che parlano ai sempliciotti, da teologi che trasudano di lezioni cattedratiche,
da capi di un partito invisibile sempre pronti a darti i voti – con il rischio,
in prospettiva, di ritrovarsi dannati in inferno. Gli intellettuali separati mi
fanno capire che il cammino per l’abolizione di ogni suprematismo è ancora
lungo, ma continueremo a percorrerlo, con o senza di voi. Intellettuali, ancora
uno sforzo per diventare rivoluzionari.
Sergio
Ghirardi, 18 maggio 2020
[1] Tra queste spicca la fantomatica
“classe media” che non ha mai costituito una categoria economica. Oltre il
disprezzo verso i politici ormai diffuso in tutte le caste, essa dipende
piuttosto dal sentimento di stabilità e sicurezza che emanano dalla certezza ideologica
che le istituzioni fondamentali del sistema come la polizia, l'educazione, la
salute e persino le compagnie di credito siano fondamentalmente dalla parte dei
“cittadini”. Sentimento definitivamente indebolito dalla pandemia di
Coronavirus.
Pour la critique du radicalisme embourgeoisé
« Le travail de la critique révolutionnaire n’est assurément pas d’amener
les gens à croire que la révolution deviendrait impossible ».
G. Debord
dans : Jean-François Martos, Correspondance avec Guy Debord, Le fin
mot de l’Histoire, 1998
Quand le peuple commence à
bouger parmi les ruines d’un monde qui s’écroule sur lui afin de chercher
vraiment d’en sortir (en n’ayant, d’ailleurs d’autre choix que mourir), le
dernier acte offensif du Léviathan qui l’opprime consiste dans une critique
partielle de la situation faite par des intellectuels qui ont intériorisé la
logique hiérarchique du pouvoir et dirigent leur critique culpabilisant sur
ceux qui le subissent.
Que les agents de ce mécanisme
soient conscients ou inconscients, de bonne ou mauvaise foi, peu importe :
le Léviathan est un virus social qui utilise systématiquement sa critique
séparée pour la transformer dans son renouveau. Pour survivre à lui-même, de sa
naissance jusqu’à son dernier mode de production – le capitalisme –, le
productivisme renouvèle incessamment la carapace idéologique d’un suprématisme
intellectuel destiné à devenir social. Ainsi, depuis des millénaires, resurgit
toujours de ses cendres ce monstre bicéphale qui est l’union de l’Etat et du
Marché.
Dans le monde de la lutte des
classes qui a duré jusqu’à hier, la culture dominante a toujours été celle de
la classe dominante, donc, dans les temps modernes, celle de la bourgeoisie.
Cette classe a été l’héritière finale d’un monde du commerce des corps et des
esprits, de la vie et des choses, de la femme et de la nature. Ses gérants et
profiteurs ont appelé leur domination civilisation,
progrès, humanisme et parfois même révolution
pour cacher leur nature de vampires du sang humain, du temps et de la joie de
vivre.
Le pouvoir est, en réalité, un
virus social, un parasite porteur malsain des pires formes du conflit entre les
individus, les groupes et les peuples d’une humanité essentiellement divisée en
deux classes subalternes l’une à l’autre : les dominants et les dominés.
L’égoïsme qui dans les sociétés organiques était partiellement maîtrisé et
socialisé par l’intelligence collective, s’est transformé, avec le
productivisme, en une énergie pestilentielle et individualiste qui a opposé
groupes, genres, peuples et classes dans une guerre sans fin.
Face à la classe bourgeoise qui
a incarné la modernité de la domination sociale, s’est levé, pendant des
siècles, le cri de Munch du prolétariat. Aujourd’hui, toutefois, cette lutte
des classes plurimillénaire a été dépassée par le nihilisme capitaliste qui a
réduit l’humanité à une séquelle de castes[1] toutes
concernées par le culte des ruines et dans l’attente de la fin totemisée comme un progrès et une croissance
économique sans fin. A l’époque de l’Etat démocratique virtuel et du Marché
cybernétique, la culture est devenue un néo analphabétisme totalitaire qui
implique tous, à des degrés differents, dans la perte de sens de la réalité
réduite en spectacle.
Le rapport entre l’histoire et
la conscience de classe s’est transformé dans la relation conflictuelle entre
les théologiens de la fin de l’histoire (proclamée par des trans humanistes de
sectes idéologiques diverses, souvent en conflit entre elles, mais toutes réunies
par la perte drastique de la moindre intelligence sensible, perte qui concerne,
désormais, des masses de zombis téléphonisés
et digitalisés) et des êtres
humains toujours décidés à sortir de la préhistoire pour réaliser l’histoire, relevant
le défi d’une espèce encore désireuse de ne se laisser pas faire ni par les
dominants, ni par l’idiotie invasive des serviteurs volontaires, ni par ses
propres « avant-gardes » narcissiques et perverses.
Voilà un point d’acupuncture
crucial d’une radicalité liée au jaillissement spontané d’une conscience
d’espèce qui exprime, à la racine, le sens d’un vieux slogan de la sagesse
collective révolutionnaire : l’émancipation
du peuple et des individus qui le composent sera l’œuvre du peuple lui-même et
de ces libres individus autogérant leurs vies quotidiennes.
A partir de ce point, apparait concrètement
le dépassement possible de l’ancienne conscience de classe et, en même temps, sa
réalisation dans la conscience d’espèce d’une humanité qui se confronte à
l’histoire dans une réalité tragiquement nouvelle, où le Léviathan, fragilisé
mais pas vaincu, continue à sévir en comptant sur la faiblesse et les
contradictions de ses adversaires.
Faire ressurgir de ses cendres
encore chaudes une nouvelle bureaucratie, un nouveau clergé encore plus
intolérant car autoproclamé révolutionnaire de façon idéologique, n’est pas un
phénomène inconnu : depuis toujours, un clergé bureaucratique réinventé accompagne
le renouveau du pouvoir et son ordre nouveau. Sa vraie nature hiérarchique émerge
toujours trop tard, quand les révolutions en cours se sont déjà abimées en
contrerévolutions.
Hélas, je crains avoir raison
de me méfier, dans le sillage de Wilhelm Reich, de la psychologie de masse d’un
fascisme caractériel qui se presente toujours comme révolutionnaire avant de pouvoir
imposer sa domination par une volonté de puissance suprématiste. Et
aujourd’hui, une fois de plus, nous revoilà. Le moment est révolutionnaire. Ce
qui ne signifie pas qu’il y a une révolution en action, mais que pour un sujet doté
d’une nouvelle conscience d’espèce, il y a la situation pour la pratiquer, pour
en discuter démocratiquement les modalités, pour la partager fraternellement
sans autres ennemis que ceux qui se déclarent tels en défendant l’injustice et
la domination de la mort sur la vie.
Ce qui est nouveau aujourd’hui,
est une croissante méfiance populaire envers toutes les hiérarchies, suspicion prometteuse
que la catastrophique gestion de l’épidémie de coronavirus de la part du
pouvoir a fortement accentué. Il y a objectivement, dans l’air, pendant ce
passage du confinement au déconfinement devenu une danse macabre autour du
coronavirus, une radicale alternative sociale qui pousse à rompre avec
l’univers concentrationnaire du travail qui rend libres de travailler.
Ou on revient – non pas comme avant,
car cela est impossible, mais beaucoup pire qu’avant – dans le ghetto
consumériste, ou on brise les barrières de l’économie politique pour construire
un monde fraternel par une socialité autogérée par tous pour le bien de tous.
Or, si la servitude volontaire
traîne toujours chez des masses d’adeptes du sacrifice et de la torture
réciproque, un autre ennemi sournois rôde parmi les barricades virtuelles, en
nous faisant la morale révolutionnaire avant même que la révolution commence.
Les intellectuels des avant-gardes
politiques autoproclamées sont souvent les acteurs d’un premier pas vers
l’abdication à l’autonomie du peuple insurgé par leurs sermons, leurs
tactiques, leurs stratégies d’experts en révolution. Voilà pourquoi j’alerte à
propos de la peste émotionnelle qui monte, véhiculée aussi par ceux qui, au nom
de la révolution ou même uniquement de la critique de la barbarie, nous font la
morale, nous reprochent le péché mortel et le mal absolu contre lequel se
prétendent les Savonarole du siècle. Le (bi)millénarisme révolutionnaire est un
symptôme de la peste émotionnelle qui critique ses formes désuètes pour les
renouveler.
Dans la spécifique situation
actuelle, ceux qui nient l’importance, sinon l’existence, de la pandémie qui a
fragilisé le système en le rendant encore plus dangereux, sont des doctrinaires
mystiques en quête, inconsciemment peut-être, du pouvoir qu’ils critiquent. Ils
te jugent, ils pèsent ton courage ou tes peurs supposées (comme si la peur,
bien dosée et non pas invasive, ne serait un élément fondamental de
l’intelligence sensible pour trouver le courage nécessaire à réagir dans les difficultés) ;
dans leur mysticisme intellectuel, ils s’imaginent militants, sinon chefs,
d’une armée révolutionnaire qui agite leurs rêves rhétoriques, cauchemars aristocratiques
où les plus intelligents, les plus courageux auront le pouvoir car c’est bien
ainsi.
Je sens ce magma monter,
pestifère et aveugle, chez des analphabètes hantés et chez des intellectuels
séparés qui préparent, sans le savoir ni vouloir, les hiérarchies d’un pouvoir
à venir. Comme si le vieux monde ne serait pas, essentiellement, déjà la même
chose. Aucune logique militaire, militante ou guerrière ne nous amènera vers un
monde nouveau. Le vieux est aux aguets derrière tout suprématisme, fusse-t-il
le plus libertaire idéologiquement.
Je déteste tous les dieux et
toutes les déesses qui ont, néanmoins, le mérite appréciable de ne pas exister.
En revanche, je n’ai rien à faire avec les croyants du virus ou de l’antivirus,
du Christ ou de l’anti Christ, de la nature sacralisée ou de la dénaturation
transhumaniste, du patriarcat ou du matriarcat, parce que tous les idéologues
des causes perdues m’obligent à me protéger de leur irrationalisme militant qui
cache une envie inconsciente de brûler, d’égorger, de castrer, de punir le
mécréant, traître à la cause par peur ou hérésie.
J’aime les inégaux, femelles et
mâles qui ne m’imposent aucune egalité établie par eux et distillée ensuite comme
les dix commandements pendant quelques leçons de radicalisme. Dans sa paranoïa
multiple et variée, ce dernier n’est rien d’autre que l’idéologie de la
radicalité dont il oublie l’essentiel : créer les conditions d’une egalité
des inégaux. C'est-à-dire le contraire d’une inégalité sociale criante entre
les individus, dissimulée derrière une egalité uniquement formelle, imposée par
une aristocratie de l’argent, de la force ou de la pensée.
Avec son savoir scolastique,
académique ou marginal, le radicalisme moraliste des intellectuels et des
analphabètes participe d’une unique culture dominante. Celle-ci concerne toutes
les castes d’un monde totalitaire où même les révoltés tombent dans le piège de
déclarer invisibles des comités qui devraient, au contraire, rester toujours
bien visibles pour être librement critiqués et envoyés « affanculo »
s’il le faut.
Ainsi des philosophes prositus
se réveillent un matin dans leur confinement dorée (je ne crois pas un seconde
qu’ils l’aient véritablement transgressé comme, par cohérence, leur discours
les obligerait) pour nous expliquer que le confinement est le mal absolu. Merci
docteur, mais ce qui nous intéresse c’est le bien relatif, notre capacité
d’autogérer ensemble l’émergence, en cultivant précieusement la liberté avec le
principe de précaution qui fait partie de la solidarité entre les êtres humains.
Mon père me racontait, quand
j’étais un enfant : pendant la guerre, au lieu de rentrer dans les refuges
au son de la sirène d’alerte des bombardements, il se baladait parfois dans la
rue en entendant et voyant le avions bombardiers dans le ciel, en prenant
quelques risques calculés (pour soi et non pas pour les autres) afin de
cultiver la liberté même quand elle semblait devenir impossible.
J’avoue que les moralistes
révolutionnaires affublés d’un radicalisme de salon ou de maison d’édition me
dérangent légèrement, justement parce qu’ils proposent quelques analyses
critiques partageables mêlées à des idioties évidentes et à une charge insupportable
de culpabilisation intellectuelle. Me dérange leur ton savant, d’experts qui
parlent aux simplets, de théologiens qui transpirent de leçons ex cathedra, de
chefs d’un parti invisible toujours prêts à te noter – avec le risque, en
perspective, de se retrouver damnés en enfer. Les intellectuels séparés me font
comprendre que le chemin pour l’abolition de tout suprématisme est encore long,
mais on va poursuivre la voie, avec ou sans vous. Intellectuels, encore un
effort pour devenir des révolutionnaires.
Sergio Ghirardi, 18
mai 2020
[1]
Parmi elles, se démarque la fantomatique « classe moyenne » qui n’a
jamais constitué une catégorie économique. Au-delà du mépris envers les
politiciens, désormais répandu dans toutes les castes, elle tient d’avantage
d’un sentiment de stabilité et de sécurité émanant de la certitude idéologique
que les institutions fondamentales du système comme la police, l’éducation, la
santé et même les compagnies de crédit sont fondamentalement du côté des
« citoyens ». Sentiment
gravement
atteint par la pandemie du Coronavirus.