domenica 10 maggio 2020

Quaderni nomadi dal confino - 7. Critica del lavoro forzato





7. Critica del lavoro forzato
L’appropriazione è soprattutto privativa per chi ne è escluso, ma non garantisce, a termine, nessun avere davvero soddisfacente e ancor meno il sentimento soggettivo di essere autenticamente se stessi. Il potere logora chi non ce l’ha, è vero, ma chi ce l’ha fa lo stesso una vita di merda, come Andreotti e i suoi amici mafiosi. La proprietà che prima era semplicemente un furto è diventata un gadget dall’obsolescenza programmata dell’essere umano.
Sia ben chiaro, una volta per tutte, che la critica del lavoro forzato non è mai stata la critica della produzione, ma quella dell’ideologia che l’ha dominata e alienata: il produttivismo di cui il capitalismo è la fase terminale.
L’insieme delle attività vitali necessarie, piacevoli o faticose, ripetitive o creative, diventa lavoro se si trasforma in una tortura coatta; un’attività è un lavoro se prende la forma di un debito verso la società da pagarsi con la fatica e/o la noia imposte da altri. I dominanti si arrogano sempre il diritto di un potere gerarchico qualunque sui lavoratori di ogni sorta, dall’agricoltura all’industria, dallo schiavo al salariato, dall’imprenditore al disoccupato, dalla donna di casa alla donna in carriera, dalla prostituzione al servaggio.
La tirannia del produttivismo ha fatto emergere prepotente la prospettiva di rifiutare il sopruso del lavoro forzato che da schiavitù si è evoluto in servaggio, poi in salariato. Contro quest’ultima forma moderna di sfruttamento dell’uomo e della donna, dall’infanzia alla vecchiaia, sono insorti, durante due secoli, i proletari del lavoro industriale, senza riuscire a vincere il loro asservimento al produttivismo capitalista. Ho già costatato in precedenza che la loro coscienza di classe ha fallito nel suo compito storico di critica e superamento della schiavitù salariata. Non resta, oggi, che convertirla in una coscienza di specie riguardante tutti gli esseri umani che decidono di esserlo, per un’autogestione generalizzata della vita quotidiana che non ammetta più per nessuno il lavoro forzato che è la natura stessa del lavoro – come l’etimologia della parola in questione ricorda da sempre agli smemorati, praticamente in tutte le lingue[1].
Il cortocircuito improvviso provocato oggi dal coronavirus ha mescolato il blocco claustrofobico della libertà di movimento con quello della liberazione da una buona porzione del lavoro forzato abituale. Se la costrizione è certamente spiacevole e l’uso che ne fa il potere molto pericoloso, essa permette, però, di rendersi conto, nei fatti, che non è il lavoro che manca per essere felici, ma la possibilità di muoversi liberamente, di mescolare attività e tempo libero, di provare, cioè, a vivere davvero negli spazi sottratti all’alienazione e alla reificazione dei ghetti produttivisti che ci irreggimentano da millenni.
Certo, ci saranno sempre i refrattari fobici di questa evidenza, quelli che devono giustificare a se stessi di aver perso la loro vita a guadagnarsela, quelli che dicono, con tono beato, di amare il loro lavoro perché non distinguono il privilegio simpatico e apprezzabile di poter fare quel che si ama, dall’obbligo noioso e alla lunga pesante, di farlo per guadagnarsi il diritto alla sopravvivenza. Come dubitare della sincerità di un individuo che si prostituisce se afferma che ama il proprio lavoro? Chi non ama fare l’amore liberamente, a parte un individuo sessuofobico? Un conto, però, è far l’amore per piacere e affinità reciproche, un altro vendere il proprio corpo per lucro a chi non si ama. Sì, magari sarà un po’ meno opprimente che riprodurre all’infinito una portiera di automobile alla catena di montaggio, ma è certo che una vita orgastica non ha niente a che vedere con tutto questo.
È meglio lasciar correre le inutili discussioni senza fine tra gli innamorati del lavoro indefesso e gli amanti del tempo libero, troppo occupati a vivere per trovare il tempo di lavorare. Problemi della servitù volontaria che solo una libertà cosciente potrà risolvere nei fatti, permettendo fourieristicamente a ciascuno di far quel che ama (o crede di amare), senza obblighi né ricatti economici.
Oggi la grande novità inaspettata è che il destino programmato per la specie da parte del capitalismo mondializzato, nella sua fase terminale di malattia mortale per la specie umana, è stato sconvolto da un piccolo virus biologico che ha reso fragili i progetti del virus sociale che è il produttivismo. La sua apparizione ha reso evidente che lottare con accanimento contro di lui senza proteggersi altrettanto dall’altra peste, sarebbe un errore fatale per gli esseri umani perché la società cibernetica utilizzerà il coronavirus in modo virale proponendoci di inoculare la sua alienazione come un vaccino obbligatorio che non salva noi ma i suoi profitti.
Ci dobbiamo proteggere da tutte le alienazioni presenti e future come di ogni virus. Evitando di fare della natura una dea che la snaturerebbe ancora di più, è un fatto che essa ci avverte pragmaticamente del pericolo implicito nell’atteggiamento di volerla dominare, di allontanarsi da essa quando non ne siamo che un’infima parte alla mercede del minimo virus. Dobbiamo ripartire da questa consapevolezza, se non vogliamo morire prima del tempo, individualmente, ma anche collettivamente.


Sergio Ghirardi, Decameron - il ritorno  7  (continua)




[1] Quante volte si dovrà ripetere che il latino trepalium (da cui deriva travail in francese e trabajo in spagnolo) è uno strumento di tortura? Il labor latino da cui deriva l’italiano lavoro indica la parte sfiancante dell’attività agricola che ha spinto i primi signori produttivisti a procurarsi degli schiavi di entrambi i sessi.






Cahiers nomades du confinement

7. Critique du travail forcéL’appropriation est surtout privative pour ceux qui en sont exclus, mais elle ne garantit, à terme, aucun avoir vraiment satisfaisant et encore moins le sentiment subjectif d’être authentiquement soi même. Le pouvoir use ceux qui ne l’ont pas, certes, mais celui qui le détient vit aussi une vie minable, comme Andreotti et ses amis mafieux. La propriété qui auparavant était simplement un vol, est devenue un gadget de l’obsolescence programmée de l’être humain.Que ce soit clair une fois pour toutes : la critique du travail forcé n’a jamais été la critique de la production, mais celle de l’idéologie qui l’a dominée et aliénée – le productivisme dont le capitalisme est la phase terminale.L’ensemble des activités vitales nécessaires, agréables ou pénibles, répétitives ou créatives, devient un travail s’il se transforme en une torture subie ; une activité est un travail si elle prend la forme d’une dette envers la société qu’on paye par la fatigue et/ou l’ennui imposés par d’autres. Les dominants s’arrogent toujours le droit d’un pouvoir hiérarchique quelconque sur les travailleurs de toute sorte, de l’agriculture à l’industrie, de l’esclave au salarié, de l’entrepreneur au chômeur, de la femme au foyer à la femme en carrière, de la prostitution au servage.La tyrannie du productivisme a fait surgir puissamment la perspective de refuser l’abus de pouvoir du travail forcé qui a évolué d’esclavage en servage, puis en salariat. Contre cette dernière forme moderne d’exploitation de l’homme et de la femme, de l’enfance à la vieillesse, se sont révoltés, pendant des siècles, les prolétaires du travail industriel, sans arriver à vaincre leur asservissement au productivisme capitaliste. J’ai déjà mentionné plus haut que leur conscience de classe a raté son but historique de critique et dépassement de l’esclavage salarial. Il ne reste, aujourd’hui, que convertir cette conscience vaincue en une conscience d’espèce concernant tous les humains qui décident de l’être, pour une autogestion généralisée de la vie quotidienne n’admettant plus pour personne le travail forcé qui est la nature même du travail – ce que l’étymologie du mot rappelle aux amnésiques, pratiquement en toutes les langues[1].
Le soudain court-circuit provoqué aujourd’hui par le coronavirus a mélangé le blocage claustrophobe de la liberté de mouvement avec celui de la liberation d’une bonne portion du travail forcé habituel. Si la contrainte est certainement désagréable et l’utilisation qu’en fait le pouvoir très dangereuse, elle permet, néanmoins, de se rendre compte, dans les faits, que ce n’est pas le travail qui manque pour être heureux, mais la possibilité de bouger librement, de mélanger activité et temps libre, c’est à dire, d’essayer de vivre vraiment dans les espaces soustraits à l’aliénation et à la réification des ghettos productivistes qui nous encasernent depuis des millénaires.Certes, il y aura toujours des réfractaires phobiques de cette évidence, ceux qui doivent justifier à eux-mêmes d’avoir perdu leur vie à la gagner, ceux qui disent, d’un ton béat, qu’ils aiment leur travail car ils ne font pas la distinction entre le privilège sympathique et appréciable de pouvoir faire ce qu’on aime et l’obligation embêtante de le faire pour gagner le droit à la survie. Comment douter de la sincérité d’un individu qui se prostitue, quand il affirme qu’il aime son travail ? Qui n’aime pas faire l’amour librement, à part un individu sexophobe ? Une chose, toutefois, est faire l’amour pour le plaisir et par affinités réciproques, un autre vendre son corps pour un profit à quelqu'un qu’on n’aime pas. Oui, c’est peut-être un peu moins oppressant que reproduire à l’infini la portière d’une voiture à la chaine, mais c’est certain qu’une vie orgastique n’a rien à voire avec tout ça.Mieux vaut laisser filer les inutiles discussions sans fin entre les amoureux du travail éreintant et les amants du temps libre, trop occupés à vivre pour trouver le temps de travailler. Problemes de la servitude volontaire que seule une liberté éveillée pourra résoudre concrètement, en laissant libre chacun, à la manière de Fourier, de faire ce qu’il aime (ou il croit aimer), sans obligations ni chantages économiques.
Aujourd’hui la grande nouveauté inattendue est que le destin programmé pour l’espèce par le capitalisme mondialisé, dans sa phase terminale de maladie mortelle pour l’espèce humaine, a été bouleversé par un petit virus biologique qui a rendu fragiles les projets du virus social qu’est le productivisme. Son apparition a rendu évident que lutter avec acharnement contre lui sans se protéger autant de l’autre peste, ce serait une erreur fatale pour les êtres humains car la societé cybernétique va inéluctablement utiliser le coronavirus de façon virale en proposant de nous inoculer son aliénation comme un vaccin obligatoire qui ne sauve pas nous, mais ses profits. On doit se protéger de toutes les aliénations présentes et futures autant que de tous les virus. En évitant de faire de la nature une déesse qui la dénaturerait encore plus, c’est un fait qu’elle nous alerte pragmatiquement du danger implicite dans l’attitude de vouloir la dominer, de s’éloigner d’elle alors que nous n’en sommes qu’une infime partie à la merci du moindre virus. On doit repartir de cette pensée, si l’on ne veut pas mourir avant le temps, individuellement, mais collectivement aussi. 

(A suivre) 



Sergio Ghirardi, Décaméron - le retour 7   

[1] Combien de fois on doit répéter que trepalium (dont dérive travail et trabajo en espagnol) est, en latin, un instrument de torture ? Et lavoro, en italien, du latin labor, indique la partie éreintante de l’activité agricole qui a poussé les premiers seigneurs productivistes à se pourvoir d’esclaves de deux sexes.