domenica 10 maggio 2020

Quaderni nomadi dal confino - 5. Lo spettacolo denudato dal virus




5. Lo spettacolo denudato dal virus
Da qualche mese, la pubblicità della merce – i maggiordomi più nauseabondi osano chiamare questa rogna “consigli per gli acquisti” – è diventata risibile, insostenibile. Per chi sente in pericolo la vita, diventa inudibile l’elogio dell’effetto lassativo di una pillola che aiuta a defecare, ma anche la vacanza ai Caraibi in periodo di confinamento, o l’amore di una mamma che rende felici i suoi pargoli comprando loro un nuovo telefonino che li spia rendendoli idioti.
Lo stesso si può dire, in generale, della propaganda politica, della disinformazione mediatica e delle relazioni falsificate tra gli individui. La facilità con cui, in ambito spettacolare, si manipola ogni comunicazione, diventa difficile, se non impossibile da perseguire nella situazione ansiogena della pandemia.
Le menzogne anche minime diventano stravaganti, si amplificano di fronte a vittime sempre meno consenzienti perché rinchiuse nel loro quotidiano senza fughe possibili, sprovviste di un qualunque metadone per supplire all’assuefazione alla droga consumistica.
In un tale contesto, non resta che ridiventare sensibili alla vita. Anche per questo tornano a essere commoventi dei comportamenti umani considerati stupidi dalla cultura produttivista che ha infettato la natura umana.
Chi ha imparato la morale della competizione sociale – essere dei vincenti, crescere sempre di più a danno degli altri – riscopre, di fronte alla frattura incolmabile della morte che si avvicina pericolosamente, i valori autentici di una vita naufragata in una sopravvivenza senza altro scopo se non guadagnare e far guadagnare più soldi.
Il virus è intimamente incompatibile con lo spettacolo, anche se ci si adopera con lena per recuperarlo. Una malattia è incompatibile con l’altra, ma lo spettacolo che ha invaso il mondo non può accorgersene e cerca di reintegrare anche il virus nella sua strutturale assenza di autenticità. Ci prova per presunzione, abitudine e riflesso condizionato, ma anche perché non ha scelta, ottenendo l’effetto contrario: più il re si copre della sua presunta regalità, più si mostra disperatamente nudo.
È questo meccanismo che da mesi ha reso grottesca e inefficace, per non dire disastrosa, tutta la comunicazione statale sul coronavirus. Ciò è particolarmente vero in Francia, ma in ogni nazione, lo spettacolo parla alla sopravvivenza coatta, senza poter integrare la vita e la morte che hanno invaso la scena. Si contano i morti come le pecore per riuscire ad addormentarsi mentre la messa mediatica che applaude il personale curante ogni sera alle otto, diventa patetica.
Il comportamento del personale medico è un atto gratuito, dunque quasi inconcepibile in una società produttivista avanzata. Pur se facilitato dall’abitudine di essere gli spettatori di una vita assente, l’applauso rivolto a chi mette consapevolmente a rischio la propria vita per gli altri, provoca un certo imbarazzo palpabile nel teatro della riconoscenza spettacolare.
Nell’attuale situazione molte persone si sono dedicate al servizio degli altri secondo un’economia del dono, per un’intrinseca umanità che non ha prezzo e che non vuole averlo. Hanno ricevuto in cambio degli applausi al posto delle maschere di protezione, prima introvabili, poi oggetto di un macabro balletto commerciale[1].
I miserabili signori della società dei consumi hanno aggiunto agli applausi sceneggiati ogni sera dai canali di disinformazione continua, l’elemosina di un premio graziosamente concesso agli “eroi”. Qualche spicciolo volgare a chi aveva chiesto per mesi, senza risposta se non la violenza di Stato, che si restituisse agli ospedali il denaro necessario per renderli operativi dopo che la logica produttivista del Just in Time[2] li aveva privati dell’essenziale, riducendo gli ospedali a supermercati della malattia resa redditizia come qualunque altra merce.
L’applauso evoca sempre l’artificialità di un sentimento anche quando, in uno spettacolo, si applaude una performance di buona qualità; in questo caso, però, esso conserva una parte di autenticità e di senso. Di fronte alla voce di un Pavarotti, alla chitarra di un Paco de Lucía, lo spettatore, o piuttosto l’ascoltatore, grato del godimento provato, può ringraziare simbolicamente del dono ricevuto (dimenticando il prezzo del biglietto) con un gesto di plauso spontaneo a chi ha reso possibile il dono.
Lo spettacolo sociale è un altro paio di maniche: esso vende il disco di Pavarotti o di Paco de Lucía nella sua versione digitale; una merce senz’anima e senza soffio vitale che riproduce dei suoni piacevoli, ma non restituisce il dialogo emotivo con gli esecutori.
Applaudire un disco è dell’ordine della patologia. Eppure, l’alienazione spettacolare ha ormai toccato la riva dell’assurdo: l’applauso postumo alle vittime di attentati, ai cadaveri celebri, a quanti, essendo morti, non hanno più nessuna possibilità di intendere il messaggio. In realtà, nella società dello spettacolo, si applaude sempre e solo se stessi – i morti viventi – per alleviare il proprio sentimento di assenza, ma con un visibile imbarazzo negli occhi.


Sergio Ghirardi, Decameron - il ritorno  5  (continua)



[1] In Francia, fino a ieri, come ho detto, le maschere erano ufficialmente sconsigliate come “inutili” dagli esperti di Stato al fine di dissimulare la loro mancanza colpevole. Diventeranno, ora necessarie, vuoi obbligatorie in vista del deconfinamento. Come dare fiducia a “uomini di scienza” politicizzati al punto di prendersi gioco, per opportunismo, del principio di non contraddizione? In seguito a questo imbroglio, magicamente, i supermercati hanno costituito degli stock di milioni di esemplari di queste derrate fino a ieri introvabili e le vendono ora, in offerta speciale di pacchi di cinquanta maschere usa e getta. Per averle, però,  è obbligatorio prenotarle via Internet e sorbirsi i cookie mercantili più osceni, senza alcuna certezza che la prenotazione vada in porto. Secondo i metodi subdolamente totalitari del mondo virtuale, s’impone della pubblicità mercantile attraverso il ricatto sul principio di precauzione e sull’obbligo in vista di portare le maschere. Ancora un’operazione dei dealer di merce la cui perversità e cinismo danno il  vomito.
[2] (JIT) Politica industriale della gestione delle scorte, inventata dalla Toyota e ormai diffusa ovunque, che tende a eliminarle il più possibile, com’è successo con le maschere di protezione per il coronavirus.






Cahiers nomades du confinement


5. Le spectacle dénudé par le virus

Depuis quelques mois, la publicité de la marchandise – les majordomes les plus nauséabonds osent appeler cette gale « conseils pour les achats » – est devenue risible, insoutenable. Qui ressent un danger pour sa vie, ne peut pas écouter l’éloge de l’effet laxatif d’une pilule qui aide à déféquer, pas plus que la proposition d’une vacance aux Caraïbes en plein confinement, ni l’amour d’une mère qui fait le bonheur de ses petits en leur achetant un nouveau portable qui les espionne en faisant d’eux des idiots.
On peut dire la même chose, en général, de la propagande politique, de la désinformation médiatique et des relations faussées entre les individus. La facilité avec laquelle, dans le contexte du spectacle, on manipule toute communication, devient difficile, sinon impossible à poursuivre dans la situation anxiogène de la pandémie.
Le mensonges les plus infimes deviennent saugrenues, s’amplifient face à des victimes de moins en moins consentantes car enfermées dans un quotidien sans fuite possible, dépourvues de la moindre méthadone pour compenser le manque de drogue consumériste.
Dans ce contexte, il ne reste que redevenir sensible à la vie. Pour cela aussi redeviennent émouvants des comportements humains considérés stupides par la culture productiviste qui a infecté la nature humaine.
Celui qui a appris la morale de la compétition sociale – être des gagnants, s’adonner toujours plus à la croissance au détriment des autres – redécouvre, face à la fracture impossible à combler de la mort qui s’approche dangereusement, les valeurs authentiques d’une vie naufragée dans une survie sans autre issu que gagner et faire gagner plus d’argent.
Le virus est intimement incompatible avec le spectacle, même si on cherche de le récupérer d’arrache-pied. Une maladie est incompatible avec l’autre, mais le spectacle qui a envahi le monde ne peut pas se n’apercevoir et il cherche de réintégrer même le virus dans son absence d’authenticité structurelle. Il essaie par présomption, par habitude, par reflexe conditionné, mais aussi parce qu’il n’a pas le choix, en obtenant l’effet contraire : plus le roi s’affuble de sa posture régale, plus il se montre désespérément nu.
Depuis des mois, ce mécanisme a rendu grotesque et inefficace, pour ne pas dire désastreuse, toute la communication étatiste sur le coronavirus. Cela est particulièrement vrai en France, mais en chaque nation, le spectacle parle à la survie forcée, sans pouvoir intégrer la vie et la mort qui ont envahi la scène. On compte les morts comme les moutons pour arriver à s’endormir alors que la messe médiatique qui applaudit chaque soir à huit heure le personnel soignant, devient pathétique.
Le comportement du personnel médical est un acte gratuit, donc presque inconcevable dans une société productiviste avancée. Même facilité par l’habitude d’être les spectateurs d’une vie absente, l’applaudissement envers ceux qui risquent consciemment leur vie pour les autres, provoque un certain embarras palpable dans le théâtre de la reconnaissance spectaculaire.
Dans la situation actuelle, beaucoup de gens se sont dédiés au service des autres selon une économie du don, par une intrinsèque humanité qui n’a pas de prix et qui ne veut pas n’avoir. Ils ont reçu en échange des applaudissements à la place des masques de protection, d’abord introuvables, puis devenues l’objet d’un macabre ballet marchand[1].
Les misérables seigneurs de la société de consommation ont ajouté aux applaudissements mis en scène chaque soir par les chaines de désinformation continue, l’aumône d’une prime gracieusement octroyée aux « héros ». Quelques vulgaires sous pour qui avait demandé, pendant des mois, sans autre réponse que la violence de l’Etat, qu’on restitue aux hôpitaux l’argent nécessaire pour leur permettre de fonctionner, après que la logique productiviste du flux tendu[2] les avait privés de l’essentiel, en réduisant les hôpitaux à des supermarchés de la maladie rendue rentable comme toute autre marchandise.
L’applaudissement évoque toujours l’artificialité d’un sentiment même quand on applaudit, dans un spectacle, une performance d’une bonne qualité ; dans ce cas, toutefois, il conserve une partie d’authenticité et de sens. Face à la voix d’un Pavarotti, à la guitare d’un Paco de Lucía, le spectateur, ou plutôt celui qui écoute, reconnaissant de la jouissance éprouvée, peut remercier symboliquement du don reçu (en oubliant le prix du billet) par un geste spontané de félicitation envers celui qui a rendu possible le don.
Le spectacle social est toute autre chose : il vend le disque de Pavarotti ou de Paco de Lucía dans sa version digitale ; une marchandise sans âme et sans souffle vital qui reproduit des sons agréables, mais ne restitue pas le dialogue émotionnel avec les exécuteurs.
L’applaudissement à un disque est de l’ordre du pathologique, mais l’aliénation spectaculaire a touché, désormais, la rive de l’absurde : l’applaudissement posthume aux victimes d’attentats, aux cadavres célèbres, à ceux qui, étant morts, n’ont plus aucune chance d’entendre le message. En fait, dans la société du spectacle, on applaudit seulement et toujours soi même – les morts-vivants – pour soulager son propre sentiment d’absence, mais avec un visible embarras dans les yeux.
 
 
(A suivre)
 
 
Sergio  Ghirardi, Décaméron – le retour 5 







[1] En France, jusqu’à hier, on l’a dit, les masques étaient officiellement déconseillés comme « inutiles»  par les experts d’Etat afin de cacher leur manque coupable. Elles vont maintenant devenir nécessaires, voire obligatoires en vue du déconfinement. Comment faire confiance à des « hommes de science » politisés au point de bafouer, par opportunisme, le principe de non contradiction ? A la suite de cet imbroglio, magiquement, les supermarchés ont constitué des stocks de million d’exemplaires de ces denrées encore hier introuvables et les vendent, maintenant, en offre spéciale de paquets de 50 masques à usage unique. Pour les avoir, toutefois, il faut passer par Internet et subir l’exercice habituel des cookies marchands les plus obscènes, sans aucune certitude que la réservation réussisse. Selon les méthodes sournoisement totalitaires du monde virtuel, on impose de la pub marchande par le chantage au principe de précaution et à l’obligation en vue de porter des masques. Encore une opération des dealers de marchandise dont la perversité et le cynisme sont à vomir.
[2] (JIT) De l’anglais Just In Time, politique industrielle de la gestion des escortes inventée par Toyota et désormais appliquée partout en éliminant les escortes le plus possible. C’est les cas des masques de protection du coronavirus.