6.
Virus e Fake News: uno spettacolo nello spettacolo
Oltre i morti che
provoca e quelli che gli sono attribuiti per sdoganare le pesanti
responsabilità della “civiltà” in molte patologie cancerogene e cardiovascolari,
il coronavirus, ha creato dei morti in attesa: dei confinati e forse anche
qualche succubo entusiasta. Molto più spesso, però, si è trattato di auto
confinati, coscienti di mancare crudelmente di informazioni affidabili
nell’universo paranoico delle fake news
che vanno di moda e delle anti fake news
altrettanto improbabili.
Contaminati
dall’anglo-americano della novlingua cibernetica, si tratta di prendere
posizione e decidere i propri comportamenti pratici senza farsi condizionare
dalla disinformazione diffusa: quella di Stato e quella dell’anti Stato. Si
tratta del rifiuto radicale di essere le pecore docili di qualunque ovile:
refrattari a trottare al passo della menzogna televisiva, ma anche a galoppare
nel vaneggiamento di chi smonta per partito preso ogni notizia ufficiale senza
arrivare a criticare l’essenziale. Rischiamo di sprofondare nel giorno dopo[1] per sempre se i nostri gruppi
d’affinità umana non si rivolteranno tutti insieme contro il dominio, a partire
da una coscienza di specie condivisa.
Tempi duri per chi
cerca la verità e non odora a naso le menzogne di Stato come si sniffa della
cocaina. L’artificialità della situazione spettacolare provoca imbarazzo e
fastidio tanto di fronte alla sottomissione che applaude il potere quanto nei
confronti dell’intellettualismo paranoico che fa sembrare assai poco credibili,
per non dire deliranti, quanti invitano a uscire per strada, incuranti di un
virus di cui non si sa nulla o ben poco[2].
Purtroppo, da qualche
tempo, la teoria del complotto è un omaggio involontario all’onnipotenza
presunta del potere, descritto come l’unico soggetto della storia. Come non
vedere che la fede nell’apparizione sistematica della Madonna del complotto funziona da pseudo vaccino psicologico per
rimuovere la paura del virus e del resto?
Certo, gli uomini di
potere sono capaci di tutto, l’hanno ampiamente dimostrato in molteplici
occasioni e dovunque, ma non tutto quel che accade è sotto il loro controllo.
Crederlo è una forma paranoica di contemplativismo quanto la convinzione che
sostiene a priori l’innocenza della catena di comando è un’espressione della
servitù volontaria. Detto questo, è evidente che tutto quel che accade è
studiato e manipolato da spin doctors
e da fini strateghi per garantire un’idonea continuità al Leviatano
produttivista. Machiavelli ha brillantemente descritto questo funzionamento del
potere qualche secolo fa, senza essere né complottista né prositu.
L'auto confinamento è,
nella situazione concreta che attraversiamo, ben più grave a causa della
gestione fallimentare della società che per la pericolosità intrinseca del coronavirus,
un atto responsabile di cui è ancora difficile valutare l’efficacia e le
conseguenze per noi; non implica, però, di per sé, alcuna sottomissione al
potere. Per il quale, per contro, la pratica del confinamento degli schiavi del
lavoro che rende liberi, si traduce in una sperimentazione di controllo delle
masse che comporta, però, anche i rischi potenziali di una rivolta a venire.
Difficile stabilire quanto
gli Stati reagiscano alla situazione per approfondire definitivamente il loro
dominio, quanto per paura di perderlo, ma è soprattutto nelle reazioni al
deconfinamento in preparazione che si misurerà il tasso di schiavitù interiorizzato
dai confinati di oggi.
Il virus è
oggettivamente una complicazione per il buon funzionamento dello spettacolo
sociale che impegna tutte le sue forze per riportare al campo di concentramento
produttivista gli schiavi che è stato costretto a chiudere in casa. Sta a noi,
con l’appoggio della coscienza di specie che cresce, trasformare una vacanza
coatta, imprevista e claustrofobica, in una grande, definitiva evasione
collettiva dal lager quotidiano.
Il condizionamento che
c’imprigiona è solo momentaneamente interrotto e si prepara a tornare, più
forte di prima. “Noi siamo noi e voi non
siete un cazzo” risuona alle orecchie come un’eco impercettibile ma
perfettamente udibile tra un inchino e l’altro, al suono del piffero della
demagogia: “Voi siete il popolo sovrano,
i soggetti della democrazia, i cittadini re”.
Magicamente (si fa per
dire, che lo spettacolo se fosse una magia, sarebbe una magia nera, come le
camicie di alcuni dei suoi adepti d’origine), l’abitudine di ubbidire si è
mutata in sciopero generale senza parole d'ordine altre che “salviamo la
pelle”. Uno sciopero selvaggio imposto e strettamente basico, di sopravvivenza
immediata, che noi possiamo trasformare in un’azione sociale riflettuta, di
grande respiro, poetica e radicale, arricchendola di una nuova coscienza di
specie.
In questi giorni
difficili, abbiamo la prova concreta che chi non lavora mangia lo stesso, anche
se per molti la situazione è molto difficile in una società disumana. Per i più
poveri lo era già e la mimesi della solidarietà contagia positivamente anche certi che prima avrebbero rubato al
prossimo persino le caramelle già succhiate.
L’aiuto reciproco può
già risolvere i casi più gravi e si potrà continuare così e anche meglio, per
il bene di tutti, cambiando radicalmente i criteri con cui il cibo, i beni di
prima necessità, ma anche i piaceri della vita sono prodotti e distribuiti alla
popolazione. Bisogna mettere in atto una critica radicale dell’economia
politica.
Solo un altro mondo
possibile può salvarci dal vecchio che crolla. Ecco la rivoluzione che può
cambiare davvero la situazione; non, certo, una vetrina in frantumi da prendere
in selfie con il rischio di finire poi in guardina tenendo in tasca la prova
del “crimine” (com’è successo a Genova nel 2001 e a Parigi di recente).
Lo spettro della
penuria riaffiora tra le righe del discorso del potere come una minaccia
larvata che i suoi emissari si affrettano immediatamente a negare. Diventerà
reale se si continuerà con gli stessi valori di sempre e lo è già da tempo per
chi si trova sullo scalino più basso della scala sociale. Laddove la
solidarietà e l’aiuto reciproco hanno rotto – per un istante da prolungare
idealmente all’infinito – il filo spinato della società dei consumi e
dell’appropriazione privativa, si vede concretamente che il cibo – e tutto il
resto veramente utile da produrre – è sufficiente per tutti e lo resterà se ci
organizzeremo solidalmente a questo fine, rifiutando d’impiegarci come schiavi
ad accumulare le ricchezze comuni a vantaggio di qualcuno.
Sergio
Ghirardi, Decameron - il ritorno 6 (continua)
[1] Vedere l’articolo di Joël Garaud,
Dietro di noi, il giorno dopo, testo
apparso su “Lundi matin” e presto su
Barravento.
[2] Altra cosa è l’ipotesi di un
comportamento autonomo nella gestione del quotidiano che presuppone, però, la
capacità di testare i pazienti e l’abbondanza dei mezzi di protezione. In una
società liberamente autogestita, il rispetto del principio di precauzione non
impedirebbe, a priori, i movimenti ma li razionalizzerebbe. Ciò richiede, però,
una coscienza di specie non ancora abbastanza sviluppata, anche se in alcuni
paesi (sto pensando alla Svezia e forse alla Germania, ma non ne so molto) si
sono visti segnali e risultati interessanti in proposito.
Cahiers nomades du confinement
6.
Virus et fake news : un spectacle dans le spectacle
Au-delà des morts qu’il provoque et de ceux qui lui sont attribués afin de dédouaner les lourdes responsabilités de la « civilisation » dans plusieurs pathologies cancérigènes et cardiovasculaires, le coronavirus a crée des morts en sursis : des confinés et peut-être aussi quelques succubes enthousiastes. Le plus souvent, néanmoins il a été question d’auto confinés, conscients de manquer cruellement d’informations fiables dans l’univers paranoïaque des fake news et des anti fake news improbables aussi.
Contaminés par l’anglo-américain de la novlangue cybernétique, il est question de prendre position et décider de ses comportements pratiques sans se laisser conditionner par la désinformation répandue : celle de l’Etat et celle de l’anti Etat. Il est question du refus radical d’être les brebis dociles de n’importe quel bercail : réfractaires à trotter au pas du mensonge télévisuel, mais aussi à galoper dans les divagations de ceux qui démontent par parti pris toute nouvelle officielle sans arriver à critiquer l’essentiel. Nous risquons l’effondrement dans le jour d’après[1] pour toujours, si nos groupes d’affinité humaine ne se révoltent pas, tous ensemble, contre la domination, à partir d’une conscience d’espèce partagée.
Les temps sont difficiles pour celui qui cherche la vérité et ne renifle pas les mensonges d’Etat comme on renifle de la coke. L’artificialité de la situation spectaculaire provoque l’embarras et l’agacement autant face à la soumission qui applaudit le pouvoir que face à l’intellectualisme paranoïaque qui rend assez peu crédibles, pour ne pas dire délirants, ceux qui invitent à descendre dans la rue, nonchalants d’un virus dont on ne sait rien ou très peu[2].
Hélas, depuis un certain temps, la théorie du complot est un hommage involontaire à la toute puissance présumée du pouvoir, imaginé comme le seul sujet de l’histoire. Comment ne pas voir que la foi dans l’apparition systématique de la Madone du complot fonctionne comme un pseudo vaccin psychologique pour refouler la peur du virus et du reste ?
Certes, les hommes de pouvoir sont capables de tout, ils l’ont largement démontré dans des multiples occasions et partout, mais tout ce qui se passe n’est pas sous leur contrôle. Le croire est une forme paranoïaque de contemplativisme autant que la croyance qui soutient a priori l’innocence de la chaine de commandement est une servitude volontaire. Cela dit, il est évident que tout ce qui se passe est étudié et manipulé par des spin doctors et des fins stratèges afin de garantir une continuité sans faille au Léviathan productiviste. Machiavel a décrit brillement ce fonctionnement du pouvoir, il y a quelques siècles, sans être ni complotiste ni prositu.
L’auto confinement est, dans la situation concrète qu’on
traverse, bien plus grave à cause de la gestion défaillante de la société que
pour la dangerosité intrinsèque du coronavirus, un acte responsable dont il est
encore difficile d’évaluer l’efficacité et les conséquences pour nous ; il
n’implique, toutefois, en soi, aucune soumission au pouvoir. Pour lequel, en
revanche, la pratique du confinement des esclaves du travail qui rend libres,
est une expérimentation de contrôle des masses comportant, néanmoins, aussi les
risques potentiels d’une révolte à venir.
Difficile d’établir combien les Etats réagissent à la
situation pour exercer l’approfondissement de leur domination et combien par
peur de la perdre, mais c’est surtout dans les réactions au déconfinement qui
va suivre qu’on mesurera le taux d’esclavage intériorisé par les confinés
d’aujourd’hui.
Le virus est une objective complication pour le bon fonctionnement du spectacle social qui emploie toutes ses forces pour ramener au camp de concentration productiviste les esclaves qu’il a été obligé d’enfermer à la maison. C’est à nous, avec le soutien de la conscience d’espèce qui monte, de transformer une vacance subie, imprévue et claustrophobe en une grande, définitive évasion collective du camp quotidien.
Le conditionnement qui nous emprisonne a subi une interruption momentanée, mais il est prêt à revenir, plus fort qu’avant. « Nous sommes nous, et vous êtes des cons », résonne aux oreilles comme un écho chouchouté mais parfaitement audible entre une courbette et l’autre, au son du fifre de la démagogie : « Vous êtes le peuple souverain, les sujets de la démocratie, les citoyens rois ».
Par magie (façon de parler car si le spectacle était une magie, il serait une magie noir, comme les chemises de certains de ses adeptes d’origine), l’habitude à obéir s’est traduite en une grève générale sans autres mots d’ordre que « sauvons notre peau ». Une grève sauvage imposée et étroitement basique, de survie immédiate, que nous pouvons transformer en une action sociale réfléchie, de longue haleine, poétique et radicale, en l’enrichissant d’une nouvelle conscience d’espèce.
Pendant ces jours difficiles, nous avons la preuve concrète que qui ne travaille pas arrive également à manger, même si pour beaucoup la situation est très difficile dans une société inhumaine. Pour les plus pauvres elle l’était déjà, et le mimétisme de la solidarité produit une contagion positive sur certains qui auparavant auraient volé même les bonbons déjà sucés à leur prochain.
L’entraide peut déjà résoudre les cas les plus graves et on pourra continuer ainsi et même mieux, pour le bien de tous, en changeant radicalement les critères de production et de distribution à la population de la nourriture, des biens de première nécessité, mais aussi des agréments de la vie. Il faut mettre en œuvre une critique radicale de l’économie politique.
Seul un autre monde possible peut nous sauver du vieux qui s’écroule. Voilà la révolution qui peut véritablement changer la donne ; certainement pas une vitrine brisée et immortalisée par selfie, avec le risque de se retrouver plus tard en garde à vue, gardant dans sa poche la preuve du « crime » (comme cela s’est passé à Gênes en 2001 et récemment à Paris).
Le spectre de la pénurie remonte entre les lignes du discours du pouvoir comme une menace larvée que ses émissaires se pressent immédiatement de nier. Elle deviendra réelle si on continuera avec les mêmes valeurs de toujours, mais elle est déjà là depuis un moment pour ceux qui sont sur la marche la plus basse de l’échelle sociale. Là où la solidarité et l’entraide ont rompu – pendant un moment à prolonger idéalement à l’infini – les barbelés de la société de consommation et de l’appropriation privative, on voit concrètement que la nourriture – et tout le reste vraiment utile à produire – est suffisant pour tous et va le rester si on s’organise solidairement à cette fin, en refusant de s’employer comme des esclaves pour accumuler la richesse commune à l’avantage de quelqu’un.
Sergio Ghirardi, Décaméron – le retour 6
[1] Voir l’article de Joël Garaud, Derrière nous le jour d’après, texte paru sur« Lundi matin » et bientôt sur
Barravento.
[2] Une autre chose est l’hypothèse d’un comportement autonome dans la
gestion du quotidien qui présuppose, néanmoins, la capacité de tester les
patients et l’abondance des moyens de protection. Dans une société librement
autogérée, le respect du principe de précaution n’empêcherait pas, à priori,
les mouvements, tout en les rationalisant. Toutefois, cela requiert une
conscience d’espèce pas encore assez développée, même si dans certains pays (je
pense à la Suède et peut-être à l’Allemagne, mais j’en sais très peu) on a vu
des signes et des résultats intéressants à ce propos.