Brevissimo
abbozzo di un modo d’uso in evoluzione critica permanente. È così che la
rivoluzione, già in corso che si voglia o no, con o senza il coronavirus,
diventerà davvero permanente e non divorerà più i suoi figli, né nessun altro
in suo nome.
Noi
dobbiamo utilizzare anche le loro parole per dar loro il nostro senso.
La
loro democrazia non è la nostra. Il loro cittadino non siamo noi. La loro
libertà formale, concessa in cambio di un lavoro forzato generalizzato che sa
di filo spinato e di mirador digitali[1], non è
la nostra libertà di produrre i beni necessari al godimento immediato della
vita quotidiana senza torturarci nel compierlo. Il loro produttivismo non è la
nostra capacità di produrre il necessario per vivere felici. La loro libertà
concentrazionaria ci impedisce la libertà di agire nella prospettiva di un
futuro differente e decisamente più piacevole. Ecco perché anche il loro
progresso non è il nostro.
Non
vogliamo essere eletti nelle loro strutture di potere di Stato. Noi non saremo
i sindaci delle loro città, ma i signori, tutti uguali in diritto, delle
assemblee legislative dei nostri comuni, centri abitati e villaggi federati.
Lo
Stato non siamo noi. Noi siamo la struttura sociale della comunità reale che
dall’ambito locale più intimo, irradia la sua umanità naturale sui quartieri, i
villaggi, le città, le province, le regioni, la nazione e via di seguito, fino
ai continenti, per coinvolgere, un giorno, l’intero pianeta.
Poiché
lo Stato – patriarcale e produttivista – e le sue emanazioni sono al di fuori
della nostra pacifica rivoluzione sociale (senza armi, se non saremo aggrediti
nella nostra autonomia, nella nostra libertà di intraprendere un progetto
comune, nella nostra libertà di cittadini della terra-madre acratica – che non
è una dea, ma la nostra placenta, il nostro liquido amniotico, il nostro oceano
vitale), noi rivendichiamo il diritto di organizzarci in modo autonomo dallo
Stato che ci dirige. Non vogliamo occupare il suo posto, non vogliamo
sopprimerlo né indebolirlo (crollerà da solo, per mancanza di schiavi e penuria
di schiavisti); vogliamo funzionare tra di noi senza attaccarlo, ma anche senza
subire il suo governo imposto. Non vogliamo dunque l’indipendenza, ma praticare
l’autonomia locale dovunque i cittadini l’abbiano scelta democraticamente.
Non
siamo un potere che si cerca come fanno tutti i partiti politici. Noi siamo una
semplice espressione della federazione di assemblee sovrane decisa da liberi
individui sociali che condividono concretamente un luogo (coscienti di far
parte di un territorio sociale ben più vasto di un quartiere, di un villaggio,
di una città o anche di una regione e una nazione che potrebbero un giorno
allargare fino al mondo intero il nostro progetto comune che non esclude né
implica di forza nessuno).
Noi
non siamo, per il momento, che un esperimento comunalista che si cerca, una
potenziale organizzazione comune di un quotidiano autogestito da quelli che lo
vivono con la loro affettività (solidarietà, fraternità, amicizia, amore e più
se affinità... inclusa l’eventualità di un’indifferenza reciproca che ci può
allontanare senza opporci l’un l’altro). Ci confronteremo ai problemi da
risolvere con la voglia comune di godere della vita senza danneggiare nessuno.
Non vogliamo tutto per noi, ma non accettiamo neppure il tutto, o anche il
troppo, per gli altri. Siamo, infatti, sempre meno commossi dalle statue di un potere
che ci rispetta sempre come morti per la patria, mai come esseri viventi per la
libertà, parola la cui prima espressione arcaica, in sumero antico, fu amargi: ritorno alla madre.
I
nostri gruppi d’affinità si formano spontaneamente, come nella vita quotidiana,
in quella vita in cui ogni storia d’amore è fragile, incerta. Ecco perché li
regoliamo per mezzo di qualche semplice codice di funzionamento. Perché la
nostra comunità è un’unione libera e non un matrimonio sacro.
Noi
agiamo insieme se l’affinità lo permette, dandoci dello spazio e dell’autonomia
se le intenzioni, i desideri e le volontà divergono. Ognuna e ognuno di noi
considera i desideri altrui che non condivide una parte preziosa della libertà
da difendere e sostenere in una fattibilità mai imposta a colei, a colui o a
coloro che non condividono la stessa idea.
A
partire da tutto questo, e da tutto quello che gli si aggiungerà grazie
all’apporto inesauribile dell’intelligenza collettiva, noi fondiamo oggi la libera
comune di ....
(Aggiungere il nome della Comune e del luogo
in cui questa decisione d’autonomia sociale e d’autogestione della vita
quotidiana è presa dall’assemblea in riunione plenaria).
[1]
Dalle torri di guardia dei campi di concentramento allo smartphone il passo non era breve, ma è
stato fatto e il passo dell’oca non è ancora finito.
ANTIMANIFESTE pour une DEMOCRATIE
DIRECTE
Très bref ébauche d’un mode d’emploi en évolution critique permanente. C’est ainsi que
la révolution, déjà en cours qu’on le veuille ou pas, avec ou sans le
coronavirus, deviendra effectivement permanente et ne bouffera plus ses enfants,
ni personne d’autre, au nom d’elle-même.
Nous devons utiliser leurs mots
aussi pour leur donner notre sens.
Leur démocratie n’est pas la
notre. Leur citoyen ce n’est pas nous. Leur liberté formelle, octroyée en
échange d’un travail forcé généralisé qui sent les barbelées et les miradors
digitaux, ce n’est pas notre liberté de produire les biens nécessaires à la
jouissance immédiate de la vie quotidienne sans nous torturer à la tâche. Leur
productivisme ce n’est pas notre capacité de produire le nécessaire pour vivre
heureux. Leur liberté concentrationnaire nous empêche le loisir d’agir dans la
perspective d’un futur different et bien plus agréable. Voilà pourquoi même
leur progrès n’est pas le notre.
Nous ne voulons pas être élus
dans leurs structures du pouvoir d’Etat. Nous ne serons pas les maires de leurs
villes, mais les maîtres, tous égaux en droit, des assemblées législatives de
nos communes, cités et villages fédérés.
L’Etat ce n’est pas nous. Nous
sommes la structure sociale de la communauté réelle qui, du local le plus
intime, irradie son humanité naturelle sur les quartiers, les villages, les
arrondissements, les villes, les régions, la nation et ainsi de suite, jusqu’aux
continents, pour attendre, un jour, la planète entière.
Puisque l’Etat – patriarcal et productiviste
– et ses descendances sont en dehors de notre révolution sociale pacifique (sans
armes, si nous ne sommes pas agressés dans notre autonomie, dans notre liberté
d’entreprendre un projet commun, dans notre liberté de citoyens de la
terre-mère acratique – qui n’est pas une déesse, mais notre placenta, notre
liquide amniotique, notre océan vital), nous revendiquons le droit de nous
organiser de façon autonome de l’Etat qui nous dirige. On ne veut pas sa place,
on ne veut pas le tuer, ni l’affaiblir (il s’effondra tout seul, faute
d’esclaves et pénurie d’esclavagistes) ; nous voulons fonctionner entre
nous sans l’attaquer, mais aussi sans subir sa gouvernance imposée. Nous ne voulons
donc pas l’indépendance, nous allons pratiquer l’autonomie locale partout où les
citoyens la choisissent démocratiquement.
Nous ne sommes pas un pouvoir
qui se cherche comme le font tous les partis politiques. Nous sommes une simple
expression de la fédération d’assemblées souveraines décidée par des libres
individus sociaux qui partagent concrètement un lieu (conscients de faire
partie d’un territoire social bien plus vaste d’un quartier, d’un village,
d’une ville ou même d’une région et une nation qui pourraient un jour élargir
librement jusqu’au monde entier notre projet commun qui n’exclut personne, ni
l’implique de force). Nous ne sommes, pour l’instant, qu’une communalité qui se
cherche, une potentielle organisation commune d’un quotidien autogéré par ceux
qui le vivent avec leur affectivité (solidarité, fraternité, amitié, amour et
plus si affinité … en y incluant l’éventuelle indifférence réciproque qui peut
nous éloigner sans nous opposer). Nous allons nous confronter aux problemes à
résoudre avec l’envie commune de jouir de la vie sans endommager personne. Nous
ne voulons pas tout pour nous, nous n’acceptons pas non plus le tout, ni le
trop, pour les autres. Car nous sommes de moins en moins émus par les statues
d’un pouvoir étatique patriarcal qui nous respecte toujours comme morts pour la
patrie, jamais comme vivants pour la liberté, mot dont la première expression
archaïque, en Sumer ancien, fut amargi :
retour à la mère.
Nos groupes d’affinité se
forment spontanément, comme dans le quotidien, comme dans la vie où toute
histoire d’amour est fragile, incertaine. Voilà pourquoi on les régule par
quelques simples codes de fonctionnement. Car notre communauté est une union
libre et non pas un mariage sacré.
Nous agissons ensemble si
l’affinité le permet, en nous donnant de l’espace et de l’autonomie si les
propos, les désirs et les volontés divergent. Chacune et chacun de nous considère
les désirs d’autrui qu’il ne partage pas, une partie précieuse de la liberté à
défendre et soutenir dans une faisabilité jamais imposable à celle, celui ou
ceux qui ne partagent pas le même avis.
A partir de tout ça, et de
beaucoup plus encore qui s’y ajoutera par l’apport inépuisable de
l’intelligence collective, nous fondons aujourd’hui la libre commune de …….
(Ajouter le nom de la commune et du lieu où cette décision d’autonomie
sociale et d’autogestion de la vie quotidienne est prise par l’assemblée en
réunion plénière)