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Quirinale: appello alla pace, sì alla resistenza no alla guerra
Caro Beppe,
ci sono
momenti difficili e pericolosi nella storia di una nazione. Ieri, 20 aprile
2013, è stato uno di quelli. E’ in atto un cortocircuito che rischia le
peggiori derive, mentre le condizioni di un vero cambiamento si
stavano ponendo. Noi che militiamo altrove, ci abbiamo sperato e creduto,
abbiamo lavorato per questo e tu lo sai, bene noi ora siamo disperati delle
occasioni perdute fin qui, del malessere che ne sta ingrossandosi. Ma
anche no. Disperarsi mai: peggio vanno le cose, e più
bisogna mantenersi saldi. Saldi non significa rigidi, la rigidità amplifica i
conflitti ma ha preso piede proprio fra quelli che invece avrebbero dovuto
cercare le più agili e flessibili sfumature di convergenza. E non ne sono stati
capaci, ma si sono incaponiti come in uno scornamento fra cervi. Di questo ti
voglio parlare.
Non so se 4
persone si siano incontrate in un salotto con gli intenti che tu dici, ma certo
se tutti, fin dall’inizio, fossimo stati più ragionevoli, qui non ci saremmo
arrivati. E in quei tutti, ovviamente, ci metto anche il mio partito.
Perché non mi tiro fuori, beninteso: se scrivo a te non è per ricordarti le tue
responsabilità, né solo per riconoscere le nostre. E’ del fuoco che si rischia
di appiccare – chi attivamente e chi per cecità o inerzia – che ti voglio
parlare: per invocare acqua, perché stiamo soffocando e morendo di sete.
Non l’acqua
che spegne le fiamme della giusta indignazione: quella la capisco, non la
voglio sottovalutare anzi… Ma ci serve l’acqua che torni a ristorare la
capacità di ragionare, per saperci fermare sull’orlo prima delle guerre. Dobbiamo
farcela con altri metodi! Le responsabilità di tutti sono tante e
diverse, ma ora vorrei parlare del nostro non saperci fare mai acqua. L’acqua è
la più potente delle forze, perché la più dolce, quella che sa adattarsi a
tutte le forme, ma proprio per quello non resta mai prigioniera, trova sempre
una strada.
Hai toccato un
tristissimo tasto evocando una
marcia su Roma –
di questo non puoi non essere cosciente. Su questo anche Rodotà,
persona per bene in cui tu confidi, non è d’accordo con te. Manifestare,
reagire, va sempre bene: ma attento a cosa evochi! Ti chiedo di cercare strade
diverse.
Finché nel Pd
ci sono milioni di elettori e di iscritti capaci di indignarsi per le stesse
cose per cui voi vi indignate, non avete il diritto di liquidare questo
partito come un blocco unico, non avete il diritto di disprezzarne la
forza.
Parli spesso
di persone perbene, oneste, di buona volontà.. ma sembri dimenticare che allora
è alle persone per le loro qualità che bisogna guardare, e mai aizzare
tifoserie fra gruppi. Non è per questo che hai indicato Rodotà? Non è per
questo che nella rosa che avete votato vi era anche Prodi?
Adesso esiste
un diritto alla rabbia, ma anche un diritto più forte a non
cedere a guerre che possono portare solo nuove distruzioni.
Nel dopoguerra
l’Italia, le case e le anime degli italiani erano distrutti, ma il patrimonio
che tutti avevano in mano era proprio la coesione nel potere e volere guardare
finalmente avanti, sentendosi insieme: mentre oggi la divisione ci corrode da
dentro, è questa la più grande distruzione da combattere. Senza di questo, dove
andiamo?
Il M5S da solo
non può cambiare il Paese. E non possono i tanti che in altri partiti
vorrebbero farlo, ma sono disgregati, con tutta la loro dedizione cercano di
farlo ogni giorno, ma non hanno la forza di imporlo, perché la logica delle
tifoserie prevale. E’ necessaria una mobilitazione popolare che restituisca
dirompenza anche a valori di pace. Non mi appello certo ai “chi ha
dato ha dato ha dato…” eccetera. Ma serve una riconciliazione fra le persone
oneste, che includa tutti quelli che si impegnano anche nei partiti e gruppi
che non sono il tuo. Non solo le marce su Roma, ma anche il partito unico
sarebbe una cosa da non evocare mai.
Creare un
fronte più unitario e pacifico, per il cambiamento, è possibile! Ma è qualcosa
che è necessario costruire con un linguaggio e uno stile di rapporti diverso. E
in questo i toni tenuti finora non sono stati di aiuto, anzi.
Ti chiedo di
cambiare parole, scenari, evocazioni: facciamolo insieme. Dobbiamo essere
milioni a pensare in un modo nuovo, che includa la resistenza più
ferma, ma che ripudi ogni guerra fratricida, perché a vincere sarà
sempre il potente e a perdere il più indifeso.
Evoco
un’ultima volta le tue stesse parole per dire: in questo, non lasciatemi sola o
con quattro gatti. Anche io di più che dirti questo non posso fare: qui o si fa
la democrazia e la pace, o si muore come Paese.
Commento di Sergio Ghirardi :
Io non sono il seguace di nessuno se non
di me stesso e delle mie convinzioni, ma faccio parte della rivolta storica
contro il vecchio mondo ed è chiaro che non è stato Grillo a evocare la marcia
su Roma. Siete stati voi, politici e giornalisti, a fare l'amalgama. Se Lei non
vuole continuare a d avallare la strategia del confusionismo sia precisa su
questo punto.
La vera marcia su Roma fu un atto
fascista totalitario contro il movimento operaio che occupava le fabbriche.
Ieri il totalitarismo era dentro al palazzo non fuori.
Il commento è stato
iimmediatamente sottoposto alla censura dei moderatori del quotidiano, così
come un altro commento dello stesso tenore inviato a commento (sempre sul
Fatto) di un articolo dell’economista Gawronski dal titolo “La trappola
dell’estremismo”:
Dopo qualche ora entrambi
i commenti sono stati sdoganati. Ecco quello analogo a Gawronski:
Giusto
stigmatizzare l'estremismo ma distinguendolo bene dalla critica radicale la cui
pratica tende al superamento della società dello spettacolo. Il sistema usa lo
stesso metodo per confondere estremismo e radicalità e per evocare
perversamente la marcia su Roma quando dei cittadini traditi e manipolati osano
denunciare il sopruso ordito dal Porcellum e da eletti selezionati nello stesso
prosciutto.
La Marcia fascista su Roma del 22 fu un atto totalitario contro
la semidemocrazia esistente e contro il movimento operaio che occupava le
fabbriche in nome della sua emancipazione sociale.
La
confusione dei termini e dei concetti è un brodo di coltura essenziale del
totalitarismo imperante.