Da Genova, destinazione Nuovo Mondo 6) - P. Ranieri
Violenza, non-violenza, autonomia
"… sebbene la violenza non sia lecita, quando viene usata per autodifesa o a protezione degli indifesi essa è un atto di coraggio, di gran lunga migliore della codarda sottomissione.
Quest'ultima non reca beneficio a nessun uomo e nessuna donna. Nella violenza esistono molti gradi e varietà di coraggio. Ciascun uomo deve saperli giudicare da solo. Nessuno può farlo o ha il diritto di farlo al suo posto."
M.T.Gandhi, Teoria e pratica della non violenza, Einaudi, Torino,1973,p.22
“La morale non è che un freno a chi vuole attaccare il potere. Un freno costruito appositamente. Il suo obiettivo è di trasformare la vita in una somma di occasioni sprecate. Cerca di affogare i nostri desideri proprio in questi pregiudizi.
In realtà la vita quotidiana continua al margine di queste fantasie egocentriche. Ci sono continue attività illegali contro il nemico: furti a danni di imprese o supermercati, distruzione di macchinari da lavoro, sabotaggi vari, attacchi alla polizia ecc.. continuamente anche in questo momento in ogni angolo del mondo. Le rivolte non vengono dai libri né dalla mente di nessun illuminato, le rivolte nascono dell'esplosione di disobbedienza di coloro che hanno accumulato sufficiente rabbia da essere stufi delle proteste ufficiali.
Il cittadino progressista vede gli sfruttati come persone da organizzare e educare per fini rivendicativi. La mistificazione con la quale osserva le autorità lo spinge a vedere la gente come una massa di esseri incapaci di ogni reale iniziativa, eredita degli "illustri" del 18° secolo un’adorazione mistica per il razionalismo, la pianificazione e una fobia accesa contro la passione, i desideri e la rivolta dis-ordinata.”
anarcolista (Drunk Block)
lista libertari
“La non-violenza è anzitutto una radicale non-collaborazione culturale, una sottrazione di ruolo.”
Vincenzo Guagliardo Opera, agosto 2001
La distinzione fra violenza e non-violenza, che si presenta come assolutamente “obiettiva” nell’universo presente, non solo non esiste da sempre, ma è relativamente moderna. Trova radice infatti in una concezione già integralmente sociale, in cui le relazioni fra i due soggettive presuppongono un terzo, CHE GUARDA. Si è violenti (o non-violenti) a seconda di ciò che appare a questo testimone, a questo spettatore. Così, per la valutazione della quantità di violenza presente in un atto non si può mancare di riferirsi all’occhio di chi guarda, e al tempo che egli utilizza per la propria osservazione e per il conseguente giudizio.
Il prigioniero che strappa i legacci della camicia di forza, che sega le sbarre della cella, che abbatte le mura del carcere, che sabota gli ingranaggi della macchina cui è incatenato, rispetto all’aguzzino che quei legacci ha artisticamente annodato, che sbarre e muri ha pacificamente innalzato, che lo ricatta con il codice e la proprietà, appare certamente mille volte più violento, a condizione che ci si limiti a guardare la realtà un fotogramma per volta...
L’impressione è esattamente opposta, se, viceversa, tenendo conto di questo, si vuol guardare alle origini, alle cause di ciò che accade: questa ascesa alle cause, o , se si preferisce, questa ricerca delle radici, ai tempi del 68, fu tra le principali cause dello scatenarsi di un’insubordinazione mondiale scatenata dall’individuazione della violenza che stava celata dietro le leggi, le norme, le consuetudini, le usanze, le istituzioni. Nel momento in cui si riconquista la capacità, non solo di giudicare, ma di scegliere ciò che si giudica, in cui si agisce e non si risponde ai sondaggi, in cui si costruisce il mondo e non se ne acquistano dei frammenti prefabbricati, la questione della violenza cambia totalmente di segno. Ne è peraltro consapevole anche l’apparato di potere che, infatti, tende a considerare il blocco stradale che è pratica passiva come poche altre, come atto violento e tendenzialmente terroristico, giacché impedisce la circolazione. La discriminante quindi si situa sempre di più su violenza legittima, promanante dallo stato o in ogni modo autorizzata, e violenza illegittima, illegittima non perché violenta, ma violenta semplicemente perché illegittima. Se, quindi, per valutare ciò che è violento siamo costretti a proiettare il ragionamento nel futuro e contemporaneamente risalire al passato, occorre considerare che il mondo (quello che nel 1968 chiamavamo il "vecchio mondo" e nel frattempo si è tal punto invecchiato da non essere più nemmeno un mondo) ha dichiarato guerra agli esseri umani da molto, molto, tempo...
Come si fa a stabilire chi è stato davvero violento a Genova?
La camionetta che caricava i manifestanti? I manifestanti in piazza senza permesso e trasgredendo le leggi? I governi che hanno stabilito quelle leggi che distinguono fra violenti buoni e autorizzati («noi siamo sempre con le forze dell’ordine» dichiarano sia il governo – Berlusconi, sia l’opposizione - Violante) e violenti abusivi e malvagi? L’insopprimibile bestialità delle creature? La tirannia nefasta di un creatore che ci ha scaraventato in un mondo avaro e sterile e condannati a «lavorare col sudore della fronte”? Chi definisce che cos'é violenza? Le frontiere, i documenti d'identità, i permessi di soggiorno, le serrature, i titoli di proprietà, il denaro stesso, non sono realtà che impongono violentemente uno stato di cose? E’ violento il curdo che arriva illegalmente col gommone, o il finanziere che legalmente lo sperona? Questa seconda violenza, quella legale, avviene con la complicità di tutti, mentre della prima almeno ciascuno si fa carico direttamente.
Scaricare, come fanno tantissimi, la responsabilità di avere scatenato l’inferno sui primi distruttori in nero, quelli di piazza Paolo da Novi, deriva da un’illusione ipnotica, che è il prodotto di questa società degradata: che vi sia tuttavia una possibilità di esistere al di fuori della violenza, al riparo dai manganelli. Che il potere sia una belva che diviene pericolosa solo allorché provocato, ma che, per sua natura, adeguatamente placato, rispetterebbe l’esistenza privata. Dimenticando che la pretesa di manifestare contro i potenti, è già inaccettabile, o al massimo accettabile purché si manifesti alternando continui gesti di sottomissione e prove di obbedienza. In questo senso, il danno che procura la concertazione di orari e percorsi, modalità e limiti, con le forze di polizia, è infinitamente superiore alla positività del messaggio. In questo senso ogni manifestazione autorizzata, prima di tutto manifesta il diritto dello stato ad autorizzare, e quindi è, in quanto tale, un atto di partecipazione all’universo permesso. Quindi, risulta meno sorprendente, ad un’analisi più attenta, l’accusa rivolta alla polizia dal GSF, di non aver saputo proteggere la manifestazione dai violenti, e a quella rivolta ai violenti, di aver avuto, come principale bersaglio, le manifestazioni stesse. In questo senso anche l’accusa di essere anarchici rivolta ai violenti, trova fondamento anche aldilà delle elaborazioni teoriche dei singoli vandali, nell’approccio radicalmente nemico di ogni potere separato, di ogni diritto sociale, di ogni dovere individuale.
Ma non si può non ammettere che, per certi aspetti, il più violento è chi si proclama portavoce di chi non l’ha mai incaricato di questo, e che, forte di un tale titolo abusivo, perviene all’estremo vergognoso di recarsi ad omaggiare cadaveri eccellenti, sindaci, conduttori televisivi
Il coordinamento fra associazioni ha mostrato i propri limiti perché il più gran numero, a Genova, non apparteneva a nessuna associazione e molti le avevano tutte o quasi tutte in uggia. La pretesa di stabilire arbitrariamente un concetto come quello di non-violenza (inteso nella sua forma più loffia, cioé di compatibilità con le istituzioni) ha fatto sì che il coordinamento fra realtà dissimili che aveva funzionato bene a Seattle e così così a Praga, non é stato all'altezza - anche se in realtà le "piazze tematiche" erano state appunto un compromesso anche decente. Ma l'ipocrisia di fingere di non sapere che in alcune piazze le violenze erano preordinate e certe, ha fatto sì che il vantaggio di agire in varie forme e con diverse tecniche, sia andato in buona misura disperso (non del tutto, a piazza Manin venerdì, i mansueti hanno rapidamente convinto i BB che salivano dagli incendi di Marassi a non attaccare e in parte i due gruppi si sono coperti a vicenda, quando di lì a poco la polizia ha caricato). In realtà, perciò, i difetti "partitici" e "frontisti" erano già presenti nella disposizione originale del GSF.
Con l’occhio volto ai «grandi numeri», e ad una peculiare battaglia rivendicativa sul tema del «no profit» – settore da cui traevano sussistenza e visibilità un buon numero delle associazioni rappresentate, e, soprattutto, dei 16 «portavoce» (portavoce particolarissimi giacché furono ben poche le occasioni in cui essi si degnarono di prestare ascolto a quelle voci collettive che avrebbero dovuto «portare»), cui un certo livello di violenza, prima scatenata e poi imbrigliata, poteva pure fare comodo, essi da un aparte finsero che i BB non sarebbero venuti (perché ufficialmente inesistenti e sprovvisti di una piazza propria), dall’altra inviarono prima e durante gli scontri messaggi discreti alle autorità
Questo portò infine alla conclusione per cui ciascuna anima del movimento marciò divisa, esponendo tutti indistintamente al grossolano «i pacifisti buoni sono quelli morti» della polizia italiana. – Che una simile impostazione lasciasse spazio alle più ardite sperimentazioni soggettive fu subito evidente a tutti, anche e soprattutto perché il GSF aveva fissato un criterio di assoluta nonviolenza sulle persone e sulle cose; e, in conseguenza di ciò, dissuase, di fatto, i BB da una programmazione unitaria, simile a quella delle passate esperienze. D’altra parte, troppo diversi e incompatibili erano i soggetti che avrebbero dovuto materialmente condurre queste trattative.
La discriminante non violenta imposta dal GSF era ipocrita, forse due volte ipocrita.
Tutta la crisi di Seattle é stata causata dalla capacità che c'è stata di impedire fisicamente l'apertura dei lavori: senza quella azione di forza (in parte non violenta, in parte violenta - nei fatti la scelta dell'una o dell'altra tattica é relativa ai rapporti di forza sul territorio) le sane parole di tanta gente nessuno avrebbe saputo che venivano pronunciate (tranne te, tranne me, o Ermione...).
Ma credo che in un ottica di protesta "utile" che riesca a sensibilizzare l'opinione pubblica non necessariamente anarchica o antagonista (e questa "sensibilizzazione" serve se non vogliamo trovarci tra pochi anni in un 1984 orwelliano !) specialmente se in un contesto, con una forte copertura massmediatica che strumentalizza ogni atto, come quello delle società occidentali il metodo di azione non violento come metodo base per ogni azione credo diventi sempre più indispensabile..Non si tratta di essere "buoni" ma di avere efficacia delle proprie azioni....
Ma scusa, non vedi che proprio gli scontri hanno reso visibile tutto quanto? che proprio la violenza é stata efficace (in questo caso: se la violenza diviene a sua volta banale, routinaria, la sua capacità espressiva si riduce fino a zero) sul piano massmediatico? il potere teme di più la protesta non violenta ma proprio perché essa presuppone grandi numeri e grandi spostamenti sociali. Violenza e non violenza non sono antitetiche: c'è chi fa questo e non farebbe quello, chi viceversa, chi passa da una all'altra secondo le circostanze. E' evidente che questa é stata la modalità più caratteristica a Seattle, fra l'altro.
Tu sembri credere che l'opinione pubblica apprezzi gli sfigati che sfilano con i cartelli e detesti i violenti che rompono le vetrine e che quindi chi vuole ingraziarsela dovrebbe tacere le proprie passioni violente e fingersi pecorella (o piuttosto pecorone) per piacere alle damine dei giornali e delle TV? Non credi che sarebbe più efficace dire a tutti ciò che abbiamo nel cuore, senza tanti balletti e belletti per egemonizzare quei fessi della pubblica opinione? Non vedi quale disprezzo terzinternazionalista per le masse cela la tua idea di ricercare l'egemonia attraverso il rabbonimento degli estremisti?
E poi, quello che tralasci, é che io quelle frasi le ho scritte in risposta al sospetto avanzato da Andrew Bacelis, che i casseurs fossero prezzolati dal FBI o federali essi stessi. Una volta ancora non sono coloro che creano i disordini a voler dividere il movimento ma quei vigliacchi travestiti da non violenti per schivare le mazzate e meglio accedere ai microfoni della TV. La non violenza seria é tutta un'altra cosa e si propone di oltrepassare la violenza perché troppo poco radicale, e non perché troppo estremista
Le motivazioni del Riesame contro la scarcerazione dei teatranti austriaci «...Di connivenza, in senso giuridico, potrebbe parlarsi per i tanti che, scesi in piazza per manifestare pacificamente, hanno mantenuto un atteggiamento meramente passivo di fronte ai gruppi di devastatori, nemmeno troppo numerosi, che hanno agito indisturbati davanti ai loro occhi, pur avendo la possibilità di tentare di bloccarli...»
obiettivamente, é vero che noi manifestanti eravamo fuori legge, sia nelle intenzioni (violare la zona rossa, che era il proposito di TUTTI, era illegale) sia nella pratica (quella di chi devastava, e quella di chi lasciava devastare): ora uno (ad esempio io) può considerare meraviglioso essere dei fuorilegge, altri (ad esempio molti di Lilliput, che si sono autocriticati parecchio per essersi fatti coinvolgere
in una situazione profondamente illegale) lo può stimare terribile. Ma i fatti sono là: a centinaia di migliaia ci siamo battuti contro la legge e contro lo stato. Molti senza rendersene conto del tutto, nemmeno dopo, credendo di essersi battuti contro una prepotenza illecita dello stato, non comprendendo che é lo stato a stabilire ciò che é illecito e ciò che non lo é (notare bene che la zona rossa era stata ideata dal governo precedente che si era ampiamente illustrato a Napoli, a riprova del fatto che i governi cambiano, ma lo stato é sempre quello che é). In questo senso, le inchieste giudiziarie falsificano ipocritamnete il quadro, trasmettendo l'idea che non fosse lo stato ad opprimerci a Genova ma le sue forze deviate. Che esisterebbe uno stato giusto ed equo (che nessuno ha mai veduto in nessun luogo e in nessun momento, dammene atto) di cui lo stato reale sarebbe un'approssimazione imperfetta, esposta alle mille insufficienze umane. Che lo stato, in fin dei conti, promani da Dio. E così la legge: per cui, per i codici contingenti, saremmo noi fuorilegge e i poliziotti assassini i difensori della legge; ma per la legge eterna, per la vera giustizia, Carlo Giuliani, lanciando l'estintore, riaffermava e ricostituiva il diritto contro gli usurpatori. E perché questo? per la forza dei numeri: voi G8, noi sei miliardi. La maggioranza diviene così simile a Dio, principio primo delle ragioni del mondo. Di qui, come una condanna, ne segue che: male i poliziotti, servi degli usurpatori della maggioranza, ma soprattutto malissimo i vandali senza legge, coloro che hanno attaccato fin dal mattino del 20, senza attendere l'assalto della legge. Malissimo, perché loro, neri e reietti, sono la minoranza. I numeri li condannano.
-e non da chi la pratica per mascherare la propria impotenza e la propria viltà.
Molte dissociazioni dai violenti, sono risultate – prima e più ancora che infami, come a volte sono state definite con un eccesso di reattività – prove di un’incomprensione della portata della posta in gioco: «Non si tratta di irresponsabile massimalismo, ma di lucido pragmatismo: anche chi si volesse limitare alle mere riforme, unico orizzonte politico che la miopia dei "grandi leader" di movimento riesce a concepire, dovrebbe tenere a mente l'ammonimento di Marx secondo cui esse si possono ottenere <
Una peculiare battaglia rivendicativa sul tema del «no profit» – settore da cui traevano sussistenza e visibilità un buon numero delle associazioni rappresentate, e, soprattutto, dei 16 «portavoce» (portavoce particolarissimi giacché furono ben poche le occasioni in cui essi si degnarono di prestare ascolto a quelle voci collettive che avrebbero dovuto «portare»), cui un certo livello di violenza, prima scatenata e poi imbrigliata, poteva pure fare comodo.
Qui si nota come l’obiettivo non sia più neppure la violenza, ma proprio un’azione che non sia pura e semplice militanza, con coerenza meritevole di miglior causa, si propone una lotta noiosa per realizzare una società mediocre.
anche a quel 99% (che poi é meno rilevante, credo) i BB facciano un po' d'invidia. La gente non parteggia così tanto con gli sfigati, come vogliono far credere i giornali. Chi si batte per le proprie idee, trasmette l'impressione che quelle idee sono degne di battersi per esse. In questo momento penso che ciò che é urgente é appunto che un altro mondo é possibile, e che milioni di persone sono pronte a battersi per questa possibilità. Quindi occorre guardarsi non dal vero
pacifico che tale possibilità vuole affermare con le mani nude, ma con il
pacifista furbastro che mira non a fondare un altro mondo, ma a far carriera in QUESTO mondo. Sono questi personaggi che possono rendere odioso un movimento, con le loro furbizie e le loro viltà
rimane la questione della non-violenza organizzata. Diciamo subito che é fallace scegliere la non-violenza perché non si dispone della forza per fare azioni violente: la non-violenza per essere efficace presuppone grandi numeri, grande coesione, grande esperienza dei singoli. Un'azione violenta la si può fare in pochissimi, armati solo di buona volontà, e non richiede nessuna condizione particolare, e nemmeno
rapporti di forza assolutamente favorevoli. Basta che siano favorevoli in QUEL punto dove agisci. Come già notato, gli sbirri antisommossa hanno già mostrato i loro limiti quindici giorni fa a Napoli, dove qualche migliaio di ultras li ha dispersi per quei cagoni che sono.
Si è parlato e straparlato a lungo, prima, durante e dopo Genova, di violenti e nonviolenza. Innanzi tutto la questione viene sempre dibattuta in modo univoco. La non-violenza è agitata, in direzione di chi si solleva di fronte al potere, mai mettendo in questione il potere stesso.(....)Ma i poteri costituiti, altrimenti detto lo Stato, sono nati attraverso un processo di accumulo dei monopoli: la fiscalità, la moneta e la forza. La macchina statale è per definizione il luogo di massima concentrazione della forza, è l'istituto che si distingue da una banda qualsiasi perché può esercitarla in modo legittimo, attraverso la regola dell'autolimitazione.
Ma per i non-violenti italiani questa lezione non vale. Strano modo di rovesciare il segno di quella che pure è nata come forma radicalissima di lotta. Da momento di delegittimazione etica dei poteri costituiti, dei detentori del monopolio della forza legittima ("coercizione", indicano con un eufemismo i manuali di diritto), viene fatta diventare strumento di selezione, delegittimazione e criminalizzazione di coloro che si ribellano contro i poteri costituiti.
Vittorio Agnoletto, uno dei prendiparola più solerti e sponsorizzati da alcuni poteri mediatici forti, è uno dei maggiori campioni della caccia al diverso, al dissidente, in nome di quella che potremmo definire chiaramente come una forma di non-violenza autoritaria e ultraistituzionalizzata. Si è detto: "se pratichi la violenza, contro beni o contro terzi, mi fai violenza", ma una volta accettata, la stessa logica vale anche all'inverso "se mi imponi la tua non-violenza, mi fai violenza". Non credo che se ne esca, salvo un'accettazione reciproca di principio, che riconosca la pari legittimità delle due ipotesi e accetti il confronto, la sfida, sul terreno della competizione e persuasione degli argomenti e dell'azione. Unico luogo di verifica che può attribuire l'egemonia
In Italia, con un malizioso malinteso, viene chiamata non-violenza un tipo di cultura politica che si è costruita sul rifiuto e sulle ceneri della violenza politica dei movimenti sociali sovversivi degli anni 70 e sull'accettazione della legalità, altrimenti detta l'esercizio del "monopolio legittimo della forza" da parte dello Stato. In questo caso siamo di fronte al vero e proprio stupro semantico d'un termine e di una pratica che ha ben altra storia e ben altre pretese, e che da sempre è nemica dello Stato e della sua legalità.
Viene definita non-violenza la semplice acquiescenza all'ordine costituito, il che vuol dire piuttosto sottomissione o comunque subalternità, domesticazione nei confronti di chi esercita il monopolio legale della forza.
Babi Lista movimento
30 maggio 2002
Ciò che Adriano Sofri scrive « La premessa di ogni tentativo nonviolento sta in una difficile banalità: nel fare come se chiunque potesse essere persuaso della buona ragione delle idee per le quali ci si impegna. » potrebbe, in effetti, essere riconosciuto, non dai soli pacifisti, ma da tutti coloro i quali non aspirano a imporre le idee giuste, le parole vere, le condotte libere, ma piuttosto regalare libertà e verità al mondo.
i mansueti, che in una vita aliena dalla violenza scorgono non un semplice strumento ma il primo e principale contenuto della loro azione, percependo essi la violenza come costitutiva di ciò che oggi esiste, in quanto negazione dell’armonia cordiale fra i viventi (il più delle volte percepiti come creature: tale attitudine é in buona misura di fonte religiosa, gandhiana, buddista, francescana, tolstoiana, etc), per certi aspetti sono – al pari dei più veementi sovversivi (non a caso gli uni e gli altri praticano il medesimo strumento dei «gruppi d’affinità») – coscienti dell’esigenza di far attraversare ciascuno dalla medesima rivoluzione che si richiede al mondo.
Ma i suoi stessi sostenitori riconoscono che la parola «non violenza» viene sempre più spesso immiserita a sinonimo di comportamenti compatibili ed accettati dalle leggi vigenti, e «rischia di subire un degrado entropico», come lamenta Nanni Salio della rete Lilliput, coordinamento delle associazioni non violente presente nel GSF. E, nel medesimo ambito, si rincara: "nonviolenza" non deve più voler dire solamente "assenza di aggressività", "astenersi", "essere neutrali", ma anche "disobbedienza", "determinazione", "azione", "costruzione di altro".
il difetto della non-violenza sta nel fatto che - per funzionare - abbisogna necessariamente dell'apporto di molti mentre per strangolare un sindacalista con la tecnica dei thugs basta un laccio di seta e una volontà di ferro
Aggiungi che la non violenza per essere efficace presuppone il riferirsi ad un universo di valori in qualche modo comune: presuppone un'"opinione pubblica" libera e influente.
Non violenza è il nome che molti danno a ciò che è in realtà legalitarismo, rifiuto di fare violenza al sistema delle leggi: il legalitarismo impone che le riforme derivino dal potere costituito. Il legalitario è perciò obbligato a conquistare il potere, o quanto meno a guadagnare potere, rispetto a chi lo detiene. Ugualmente è OBBLIGATO a una violenta contesa di potere all’interno del movimento, per poterlo costringere a strumento di battaglia politica. Non solo non è sorprendente che i legalitari aggrediscano gli illegalisti, ma è inevitabile; perché la forza del legalitario non gli appartiene, consiste nella sua capacità di vendere sul mercato del potere i non legalitari, dopo averli ridotti all’impotenza
In nome del rischio oggettivo (indiscutibile, anche se sopravvalutato) che i violenti farebbero correre a coloro che violenti non sono, i nonviolenti si arrogano il diritto di additare senz’altro consegnare i primi alla polizia, gettando di passata fra l’altro un lampo sinistro sul tipo di società moralmente blindata e mortalmente appiattita che vorrebbero edificare. Ma si tratta di una motivazione del tutto fallace
Altri pensano invece che, a fronte della tendenza del presente sistema a distruggere tutto ciò che esiste di umano e di vivente, sarebbe semmai urgente non disporci a nostra volta a distruggere, ma piuttosto a costruire; e che questa sarebbe, oggi, la vera radicalità. Giova loro rammentare che questo sistema distrugge non già eliminando ciò che gli preesisteva, ma piuttosto attraverso la produzione di una concrezione mostruosa, quasi un cancro o un colesterolo, chiamata correntemente società, che ostruisce e avviluppa i flussi del vivente , mortificandoli, soffocandoli, pietrificandoli. E che quindi urge, per poter costruire, un'opera preventiva di desedimentazione, di scioglimento, di liberazione del futuro dalla costrizione del presente.
è comunque vero che il capitale si valorizza in grazia della distruzione (distrugge lui stesso ricchezza a più non posso) e in quest'ottica si potrebbero vedere tutte le distruzioni come inutili, se non addirittura dannose; ma va considerato che i motivi per cui si distrugge possono essere altri, ad esempio bonificare un'area.
Corso Torino e Corso Sardegna avrebbero ben potuto innalzare l'insegna "zona definanziarizzata": insegna simbolica finché si vuole, ma capace di rallegrare.
Risulta perciò che – in considerazione della natura distruttiva del capitalismo pervenuta ormai a livelli devastanti – ciò che urge è una “distruzione della distruzione” che non può perciò affermarsi né come un surplus di distruzione, quantitativamente e qualitativamente irrilevante (che cosa possono rappresentare un paio di blindati in fiamme, una dozzina di banche devastate, a fronte della settimanale distruzione equivalente nella zona degli stadi, della violenza stessa dei reparti antisommossa a Goteborg, Genova, Istanbul, e dei miliziani a Mazar-I-Sharif, ma ancor di più dei disastri di Tolosa, del Monte Bianco, del Gottardo, dell’attacco alle Twin Towers, ma soprattutto all’immensa demolizione operata trent’anni fa per erigere le Twin Towers?
ogni costruzione è anche una distruzione e viceversa: per costruire le torri gemelle erano stati distrutti edifici a decine; abbattendole si é costruito Ground Zero; ogni costruzione distrugge ciò che c'era prima, ogni distruzione costruisce uno spazio libero da ciò che c'era prima. In certo modo i BB hanno costruito una banca devastata, una macchina bruciata. provate a pensarci, é un buon esercizio dialettico. Quindi il punto é sempre ciò che si distrugge, facendo qualsiasi cosa; e ciò che si costruisce, facendo quella stessa cosa.
Nessuno riesce a competere con il processo mercantile sul terreno della distruzione, che è il terreno suo proprio: il processo mercantile è un processo attraverso il quale il mondo divora ed evacua sé stesso senza posa, e la passività sociale che impone una crescente contemplazione del prodotto del lavoro sociale, e un parallelo schiacciamento di ogni residuo uso dell’esistente, è il perfetto contraltare all’iperattività compulsiva e forsennata del processo di metabolizzazione dell’esistente da parte del valore in processo: la mazza del vandalo appare così come un ingenuo fai da te a fronte della palla d’acciaio e dell’esplosivo dei demolitori autorizzati), né come una pura e semplice attività di riproduzione sociale, che finirebbe per essere convertita in combustibile per l’attività metabolica del processo di valorizzazione. Deve perciò affermarsi non come “distruzione socialmente costruttiva” (come si ostina tuttora ad essere gran parte dell’attuale contestazione sociale9), ma come “costruzione socialmente distruttiva”, non come pratica ancora una volta costituente e legificante, ma decostituente e delegificante
Un movimento che si proponga la soppressione della società della merce e della passività, non può quindi che essere coerentemente e coscientemente antilegale, critica in ogni momento sia di ogni legge, sia di ogni trasgressione parziale. Molto più che commettere particolari atti illegali occorre volgersi alla negazione totale della legge, esplicita nell’agire libero, nella costruzione di situazioni, nella loro difesa attrezzata ed appassionata.
La violenza ha oggi cambiato campo, non perché i proletari assoluti del nuovo millennio debbano in qualche modo abdicare alla libertà di scegliere senza remore i modi del proprio agire, ma perché l’opera dell’attuale capitalismo si è fatta in tale misura violenta, da sussumere in sé ogni violenza, lasciando ai suoi avversari la possibilità – su tale terreno – unicamente del gesto, speculare, inefficace, spettacolare. Tutta la violenza disponibile appare già in vendita sui banchi del mercato spettacolare
che il funzionamento sociale presente non si regga, lo pensa
mezzo mondo, sia prima sia dopo Genova. A me pare che Genova abbia detto che non solo un altro mondo é possibile, ma che molti son pronti a battersi perché ciò accada. Questo é stato il frutto dell'ampio arco di azioni create a Genova, e in particolare del fatto che molti hanno spezzato la pace sociale, restituendo a ciascuno la propria parte nel discorso. Questo non è che sia opera dei BB soltanto, ma del fatto che il movimento comprendeva pure loro. Vorrei ricordarvi una volta ancora che la gente - fra cui la casalinga di Voghera - é molto più violenta di quel che sembrerebbe sentendo le cazzate buoniste dei telegiornali. A moltissimi la violenza piace, pare segno di forza, di convinzione, di soluzione radicale. Convinciamoci che la non-violenza arriva come superamento della violenza affrontata, e non come sua elisione. Se Genova fosse stata del tutto pacifica, nessuno l'avrebbe cagata, e questo era vero già per Seattle. Malgrado i trecentomila che poi non sarebbero stati trecentomila, perché tantissimi erano lì per fare casino: senza il casino sarebbero stati a casa. Quelli che sono a favore della non-violenza sarà ora che si rendano conto di dover sedurre e convincere la gente e non partire dal presupposto che la maggioranza è pacifista. Molti si comportano da pacifisti per paura, pochi sono non violenti davvero. chi si comporta da pacifista per paura, ma non lo é, appena smetterà di avere paura smetterà pure di essere pacifista. La paura non é una buona amica, é una padrona feroce
Rimane in ombra che la manifestazione violenta e la manifestazione non violenta hanno origini e storia completamente diverse: in sostanza non sono due cose simili in cui ci si comporta diversamente ma due cose totalmente distinte unite solo dai fenomeni superficiali di accadere in piazza e di coinvolgere un numero significativo di persone.
Proporrei di usare per la manifestazione nonviolenta il termine di dimostrazione. Si tratta, infatti, di un'azione simbolica con un programma esplicito e predefinito (spesso in maniera informale ma mai spontanea) che mira in prima istanza a dire (agli avversari, agli amici, a tutti - esistono varie possibilità) qualcosa che si reputa importante (per es.: lo sapete che siamo in tanti a non essere d'accordo? lo sapete che cosa pensiamo? lo sapete che su questa questione siamo uniti? etc). In più esiste spesso un intento sabotativo e in fin dei conti, simile in ciò alla tradizione dello sciopero: se non fate ciò che vi chiediamo, vi blocchiamo le strade, vi rompiamo il cazzo mortalmente, vi rendiamo la vita impossibile, etc.
Essenziale comunque nella dimostrazione nonviolenta é il rapporto mediato con l'oggetto del contendere: l'azione pubblica non ha il fine di cambiare di per sé nulla ma di incitare qualcuno ad operare i cambiamenti prospettati, oppure di costringere l'antagonista a sottomettersi, o ambedue le cose. Esistono sempre più spesso dimostrazioni analoghe alle prime ma di carattere violento: i meccanismi e gli intenti sono identici ma il comportamento in itinere è inteso a recare danno. Rimane però vero che si tratta di atti simbolici: caso tipico la giornata antiturca conclusa con l'infame operazione Girasole. Danneggiando la Turkish non si agisce direttamente per liberare Ocalan ma si minaccia la Turchia di fargliene passare di tutti i colori. Violenta o non violenta che sia la dimostrazione presuppone una regia accurata (ed é il caso pressoché generale, motivo per cui io non amo queste
dimostrazioni e, salvo che per incontrare qualche amico, non ci vado mai) oppure una capacità individuale di azione pubblica collettiva, capacità della quale a queste nostre latitudini si é perduta financo la memoria (personalmente ho veduto qualcosa di interessante in Chiapas e anche piazza Tien An Men mi è apparsa notevole da questo punto di vista). La manifestazione violenta, viceversa, può benissimo essere spontanea ed anzi é proprio in questi casi che produce i suoi esiti migliori. Essa mira regolarmente a un duplice fine: il primo é quello di esprimere uno stato d'animo (hanno condannato a morte un compagno in Spagna? corro al consolato spagnolo a strangolare il console e chiunque si metta sulla mia strada; il consolato è blindato peggio che Fort Knox? mi scaravento a dar fuoco all'Iberia e sulla via devasto tutto ciò che in qualche maniera rinnovella il mio furore) essenzialmente spaccando tutto (e tutto non è ancora abbastanza), il secondo quello di realizzare immediatamente un passaggio chiave del mio fine ultimo (già in passato ho citato la presa della Bastiglia, il carcere speciale della Parigi di quei tempi: potrei citare la cancellazione dell'ambasciata USA a Skopije), giungendo fin lì dove le mie forze lo consentono. Occorre dirvi che, sebbene le mie personali forze mi consentano ormai solo vandalismi adatti alla mezza età, a una situazione del genere accorrerei sempre di lieto animo? Benché questo tipo di manifestazione non ne necessiti, pur tuttavia una qualche forma di organizzazione e di regia può essere concepita, ma solo all'interno di un movimento sperimentato e nell'ambito di un dibattito collettivo leale, cosa non proprio frequente (gli anni 68-69 in vari paesi, il 77 in Italia hanno intravisto simili momenti, ma solo qualche volta). Io reputo la dimostrazione violenta (caso 1b), che è poi la più diffusa, sempre inutile e solitamente dannosa, perché isola da un sacco di gente che direbbe cose simili ma non ha voglia di sniffarsi il lacrimogeno o di prendere a cornate il bullone e il manganello (mentre in quell'ottica il numero é tutto), perché consolida dirigenze più o meno occulte, composte rigorosamente da teste di cazzo (perché se uno ha bramosia di potere e di successo il capitale si becca i migliori agli antagonisti lascia le scartine), perché, fondandosi su un programma estorsivo (ti costringerò a fare ciò che voglio) mira a rafforzare l'antagonista che é poi quello che deve davvero agire, perché in ultima analisi - mentre finge di voler esprimere qualcosa - spinge nel senso di una semplificazione del discorso che é l'opposto della radicalità (secondo Marx, andare alla radice delle questioni, non secondo Pannella).
La dimostrazione non violenta, funziona bene se c'é Gandhi o Martin Luther King, figure carismatiche ad alto tasso di religiosità, e se l'idea di riferimento é, a parole, condivisa dalla grande maggioranza e, nei fatti, disattesa: altrimenti tende a ridurre la manifestazione a una sorta di testimonianza (nel senso cattolico non in quello ancor più nefasto amato dai Buscetta e dai Peci) impotente e vittimistica. Ma può essere anche un modo per ascoltare insieme il battere del cuore: però in tale ottica é chiaro che la nonviolenza é irrinunciabile altrimenti chi agisce violentemente (oltre ad ottenere ben poco sul piano operativo) spezza l'incantesimo che é la sola forza di simili situazioni.
Resta il caso 2, che é il mio preferito. Ho premesso che é anche il più difficile da realizzare ma va detto, però, che: 1) non é indispensabile partire con la Bastiglia, si può incominciare che ne so? con il carcere di Chiavari; 2) si possono individuare temi meno impegnativi di quelli del carcere; 3) un buon passaggio é quello dell'occupazione di edifici sia per convertirli a proprio uso, sia per dissiparli semplicemente (quando ci furono le lotte contro il degradante governo Berlusconi sarebbe stato simpatico deviare verso la Standa e polverizzarla, locali, merci e liquidi: della cosa il vile gnomo si é reso perfettamente conto, infatti ha deciso di orientarsi integralmente sul virtuale; 4) allorché il rapporto sia molto favorevole, il che accade ogni qual volta si spiazzino gli sbirri, si può tralasciare o comunque ridurre al minimo la violenza, perché gli obiettivi immediati si realizzano senza incontrare ostacoli.
Piacere e libertà rimangono a fare la fila, mentre la noia recita il proprio ennesimo monologo.
Semmai, c'é da chiedersi - in situazioni come Genova - quale senso abbia commettere azioni di violenza, e a me non pare che ne abbia molto.
Argomenti a favore:
- terrorizzare le guardie (cosa validissima, ma a condizione di avere le capacità di farlo, cosa che mi pare incerta)
- evidenziare che non esiste un terreno comune con stato e padroni (cosa mille volte meglio dimostrabile in altra sede)
- fare un dispetto ai pecoroni scanii e agli agnoletti del GSF (ma é un obiettivo di portata davvero infima)
Argomenti contro:
- rischio di beccarsi un fracco di mazzate (cosa negativissima, che darebbe fiato a tutti i pacifisti, i trattativisti, le mamme, i parlamentari, i sindacalisti, i preti - per non parlare dei fastidi di chi le mazzate dovesse beccarsele in prima persona)
- aggravamento della tendenza di porre la questione insurrezionale come cosa specialistica, peculiare di combattenti stradali di lungo corso, inadatta alle persone normali, ai refrattari senza divisa
- ulteriore spettacolarizzazione di uno scontro già per molti versi spettacolare
- mancanza di chiarezza nel dibattito, per cui obiettivi possibili in astratto, quali l'assalto e la dissipazioni di edifici ostili (chiese, università, carceri, caserme, centri commerciali, fabbriche, sedi politiche o sindacali, consolati, e simili latrine) sono poco o punto verosimili in concreto
Guagliardo nota come la violenza attragga anche perché presuppone meno impegno, dà l'impressione di poter risolvere tutto, lasciandoci comodi al nostro posto; perché la violenza non solo è più adatta ad essere contemplata ma è essa stessa autocontemplativa, come dimostra molto bene la moda crescente fra gli holligans dello sport e della sommossa di crearsi le proprie cassette filmate in cui perpetuare le proprie gesta. Nella violenza sonnecchiano sempre il gesto e la sua immagine.necessità di sollevare il piede dal pedale della violenza: il proletariato, scrive bene Debord, può pervenire alla propria emancipazione solo in quanto classe della coscienza, come portatore di un progetto umano; occorre pensare a un disegno complessivo di "antiviolenza", che non sia solo rinuncia e desistenza mani alzate e preghiere, ma forza pacifica e comunicativa, disposta ad affrontare lo scontro ma nella consapevolezza che esso é strutturalmente difensivo, perché una vittoria possiamo coglierla solo sul piano della diserzione, dei kamikaze, dei top gun, dei robocop, di tutti questi personaggi da film che in realtà sono, sotto la divisa, null'altro che proletari come noi, come i morti delle Torri, obnubilati da un'identificazione forzata con le ragioni della morte individuale e collettiva. Il proletariato deve porsi visibilmente come partito della vita contro la morte
Barbaro era, per gli antichi greci, chi balbettava la “vera lingua”, il greco dell’agorà; e barbaro, altresì, era chi, in preda a incontenibile furore, distruggeva e devastava, come farebbe un bambino. Già allora sussisteva il dubbio che i due aspetti stessero fra loro in un rapporto causale, che si distruggesse perché non si riusciva a partecipare della parola comune.
Molta della distruzione operata dagli insorti nella storia, mostra questo medesimo limite, di ridursi a devastare per il fatto di non saper parlare. Non parlare, evidentemente, la lingua già corrente, dal momento che lo spazio pubblico è stato dissolto; ma inventare, istituire la parola libera, una volta che se ne abbia la possibilità, che oppressori e mentitori, poliziotti e specialisti della politica siano stati costretti a lasciare il campo. Lo si vedrà in tante rivoluzioni abortite, o rimaste addirittura allo stato virtuale: lo vedremo anche a Genova, dove la ritirata della polizia e l’inettitudine dei mediatori politici, aveva creato un ampio spazio nel quale sarebbe stato perfettamente possibile parlarsi e confrontarsi. Quel dibattito fra i partecipanti che gli specialisti avrebbero voluto nei giorni precedenti, fra militanti e leaderini, e cui i più coscienti fra i compagni (quelli che poi saranno additati con molta approssimazione come Black Block) avevano opportunamente disertato; quel dibattito si sarebbe perfettamente svolgere nella piazza stessa lontano dalla polizia ancora arroccata a difesa della città vuota e del vuoto simulacro di potere rappresentato dagli otto pagliacci globali, lontano dalla parola senza potere dei social forum. La parola è potere sulla propria vita, è direttamente esecutiva, quando si siano conseguite certe condizioni: il barbaro che non capisce la parola di chi decide, cui non viene permesso di decidere in quanto straniero al potere, potendo distruggere ogni cosa, invece che limitarsi ai simboli e agli arredi di una città abbandonata, potrebbe allora senz’altro dibattere l’uso possibile di quello spazio, e usare del proprio riconquistato potere, immediatamente praticare e sperimentare le proprie decisioni. Invece che marciare come falangi verso i simboli della zona rossa come proponevano gli uni, invece che rappresentare il martirio sulle grate come hanno fatto altri, invece che punzecchiare la città in coma col bastone e la fiaccola come hanno fatto altri ancora, occupare senz’altro degli edifici, farne luoghi di decisione e passare senz’altro al riorientamento del territorio, difesi dal proprio numero e dall’insipienza poliziesca
E’ precisamente il compiuto evaporare del mondo, quale misura dell’azione umana, ad averci condotti a scegliere la natura, e la più evanescente ed ingannevole di ogni natura, la natura umana, come riferimento comune. In tal modo, la fraternità si pone all’inizio, nell’oscurità dell’indistinto, e non alla fine del processo, nella luce del percorso compiuto insieme, come calore da non disperdere e non come fuoco da accendere. Il vivere si percepisce allora come entropia, come dispersione, come incessante dilapidarsi di un “patrimonio” originario; il nascere come condizione necessaria del morire. Per questa via il percorso della violenza rischia sempre di convertirsi in apocalisse necessaria ad un perpetuo ritorno all’humus: il suo fine pare essere quello di fondere da capo tutti gli elementi per ritornare al magma, non si capisce bene se per riprovare da capo, fidando in una migliore fortuna, o per contentarsi infine del calore naturale, fuori del quale si sarebbe scoperto non esistere altro che il gelo della solitudine. La costruzione alienata di un ambiente ostile, cui siamo stati costretti negli ultimi secoli, ha prodotto fra le sue conseguenze, una profonda sfiducia nella capacità umana di operare artifici, e di agire nel mondo da tali artifici edificato. L’oblio, tutt’altro che innocente, su chi ha operato le scelte e sui fini che lo hanno indirizzato, finisce per colpevolizzare “l’uomo”. Scrive precisamente Mario Lippolis riferendosi al declino successivo all’esplosione del 68, “nuovamente trascinati nella "massa" anonima prefabbricata, ma la debolezza specificamente nostra stava ora nel fatto che, come la volpe con l'uva, dichiaravamo di preferire alla luce, ormai declinante, il calore che -
spiega Hannah Arendt – ne è il sostituto preso i paria e che
«esercita un grande fascino su tutti coloro che si vergognano del mondo così
com'è al punto di voler rifugiarsi nell'invisibilità. E nell'invisibilità,
in quell'oscurità in cui, essendo nascosti, non si ha nemmeno più bisogno di
vedere il mondo visibile, solo il calore e la fraternità degli uomini
strettamente stipati gli uni contro gli altri possono compensare la
misteriosa irrealtà che contraddistingue le relazioni umane ogni volta che
esse si sviluppano nell'acosmia assoluta e senza essere collegate a un mondo
comune a tutti. E' facile, in un tale stato di assenza di mondo e di
irrealtà, concludere che l'elemento comune a tutti gli uomini non è il
mondo, ma la "natura umana" di questo o di quel tipo, a seconda dell'
interprete» (L'umanità nei tempi oscuri. Riflessioni su Lessing).
La violenza é un male nient'affatto necessario: ma é già in mezzo a noi. Per rimuoverla occorre smontare un sacco di reazioni automatiche, far crollare un sacco di impalcature. Non riesce ad essere un'operazione del tutto indolore.
occorre rendersi conto che per rifare un altro mondo, non occorre conquistare questo - come giustamente indicano gli zapatisti - ma è indispensabile disfarsene. La qual cosa va ben aldilà dell'incendio e della distruzione, ma per ora difficilmente può prescinderne. Chi ha delle idee in tal senso, si faccia innanzi, a condizione che tali idee non consistano nell'alzare le mani, inginocchiarsi, fuggire con le gambe a batticulo o fare una mozione in parlamento.
Siamo sempre lì: fra il piacere di creare e il piacere di distruggere, passa un'oscillazione che distrugge il potere separato. Abbiamo distrutto a Genova? Oscilliamo verso la creazione di relazioni e di passioni, e poi viceversa. Questo é ciò che sarebbe stato opportuno fare, piuttosto che voltarsi continuamente verso Genova in fiamme, e farsi di sale come la moglie di Lot...
La festa é appena incominciata