domenica 16 ottobre 2011

Da Genova, destinazione Nuovo Mondo 1) - P. Ranieri

comincia qui la pubblicazione a rate di un testo incompiuto e inedito dedicato al G8 di Genova 2001 che oggi appare utile per comprendere e discutere ciò che accadeva anche ieri a Roma
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Aggiungere una voce all'uguaglianza

alla fiducia che si può cambiare

per quanto duro è prendere coscienza

d’essere al mondo e non saper che fare

Fare di tutto il mondo un carnevale

dove ci s'abbandona con languore

dove diverso è il senso dell'uguale

e in ogni gesto il vecchio mondo muore

Da quella prima locomotiva

E dal primo sciopero operaio

nel paese dove sono nato

la città del mare e dell'acciaio

(Roberto Ballerini “La prima locomotiva”)

Qualche decennio fa, quando ancora partivano i transatlantici da Ponte dei Mille, in tutte le agenzie di viaggio si poteva vedere affisso un grande manifesto, nello stile già datato di Dudovich: sopra una composizione di prore, flutti e tricolori, campeggiava una grande scritta “Da Genova, destinazione Nuovo Mondo”.

Questo libro era stato inizialmente concepito come un “instant-book”.

Forse, di questo proposito originario i lettori più attenti sapranno rinvenire traccia in alcuni contributi.

Tuttavia, per quanto si possa essere convinti della necessità di uscire dalla morsa della contemporaneità, della tempestività, risulterà a tutta prima difficile ammettere la possibilità di un istante talmente esteso e, per così dire, indefinito.

Nostro obiettivo, nel raccogliere documenti, testimonianze e analisi, pareva, allora, quello di contribuire alla verità di quanto a Genova era appena accaduto, smentendo così le falsificazioni degli spacciatori di memoria prefabbricata. La battaglia fra la falsificazione e la verità, che ha sempre accompagnato la storia dei tentativi di azione libera e di vera e propria liberazione umana, per la prima volta era principiata in assoluta contemporaneità con gli eventi cui si riferiva. L’azione esplicita sulla strada e l’opera di esplicitazione della sua coscienza, dire la verità e agire direttamente, dovevano divenire un unico processo. La pressione dei meccanismi di alienazione e di falsificazione – pervenuti a un grado di capillarità mai conosciuto prima – imponeva un grado di radicalità ugualmente efficace. Come era prevedibile, la capacità di distinguere il senso degli eventi mentre li si andava costruendo, non sempre è stata pari a quanto sarebbe stato desiderabile. Pur tuttavia l’autenticità ha saputo trovare i propri strumenti, inventandoli, o riprendendoli dalla storia ormai lunga dell’emancipazione umana.

Per vari motivi, l’istante è passato.

Il primo, e non il meno nobile, è senza dubbio la pigrizia dei partecipi del progetto, e prima di tutto mia personale: una pigrizia composta uniformemente di un’inerzia del corpo come pure di una difficoltà e quasi di una ripugnanza di farsi carico fino in fondo della costruzione di un’opera, e di condurla a compimento. Ma anche di una cauta attenzione di fronte alla difficile decifrazione di segnali complessi e suggestivi, ma anche tali da appiattirsi muti e indecifrabili a fronte di qualsiasi volontaristica semplificazione. Si può dire che, poiché i posti di chi aveva capito tutto subito, erano già occupati, ci si è dovuti rassegnare a prendere del tempo per una riflessione a partire da una prospettiva più ampia.

Un ben più duro colpo al miraggio di poter suonare il tamburo dell’attualità, lo ha inferto l’accelerazione forzata che l’11 settembre ha imposto alla percezione della realtà, contribuendo a precipitarci tutti in una sequenza di storia premasticata e confezionata dove più o meno tutti, inclusi gli infelici kamikaze, appaiono spettatori. E gli unici che non sono stati spettatori ma artefici del proprio destino, i passeggeri ribelli del quarto aereo (che poi forse non è stato il quarto, o forse non sono nemmeno mai esistiti), vengono lasciati da tutti all’oblio della loro sorte disgraziata. Con le torri, una polvere di passività – non meno mefitica della polvere d’amianto che in pochi anni finirà per uccidere più newyorkesi del crollo vero e proprio – si è sparsa per il mondo, restituendo fiato a tutti i mediatori e a tutti i prevaricatori: la speranza levatasi da Genova, di una ripresa dell’agire storico, non poteva essere ricacciata indietro e schiacciata con maggiore potenza. L’occasione di riprendere il destino precisamente dove l’avevamo lasciato, la sera del 21 luglio, è andata perduta sotto le pire giganti di Manhattan. Anche se viene da chiedersi: a quali vertici di distruzione dovranno pervenire, la prossima volta, per costringere a un nuovo arresto il corso della libertà?

Così, la forza dei nostri nemici e un concorso infausto di circostanze – ma lo sfruttamento compiuto delle circostanze è sempre appannaggio di chi ha saputo imporre il terreno che meglio gli conveniva - ci hanno ridotto una volta ancora a renderci custodi della storia e della memoria. Anche se raramente una circostanza si é presentata più propizia.

Perché un evento partecipi della costruzione della storia, occorre che sia memorabile, e non permetta ritorni al passato: che costituisca uno spartiacque oggettivo fra il passato e il futuro.

In quale misura i tre giorni di Genova hanno presentato queste caratteristiche? E se le hanno presentate, qual è il segno che essi hanno apportato alla storia, tale da arricchire e modificare la nostra percezione dei tempi?

Diciamo subito che, per chi era lì, e forse anche per molti che hanno seguito i fatti da lontano, queste giornate potranno assai difficilmente essere scordate o confuse con altre simili, che pure tanti avevano già vissuto e auspicabilmente vivranno in futuro. Una grande città interamente attraversata dal fuoco del non ripetitivo, del non ciclico, del non commerciale, del gratuito, dell’inventato, è cosa non riconducibile agevolmente agli equilibri della contemplazione sociale, e di sicuro gli organizzatori sono pentiti d’averla posta a nostra disposizione, in questo stato di sospensione non già dello stato di diritto, come si lagnano i cani da grembo della querimonia rispettosa, ma della quotidianità coatta e ottusa. Serrati i negozi, sbarrate le strade, pattugliato il territorio, interdetti gli spostamenti, genovesi di nascita e d’elezione si sono ritrovati ad interrogarsi su tutto ciò che è percepito regolarmente come indiscutibile, come naturale. Si sono interrogati e non l’hanno trovato buono. Una buona metà degli abitanti si era allontanata, proprio per l’orrore che ispirava loro il confronto con la nudità dei luoghi della loro sopravvivenza, spogliati della loro ripetitività ipnotica e rassicurante; gli altri, quelli che erano rimasti e i tanti chiamati e attratti lì da ogni continente, hanno, in mille modi differenti, manifestato quel misto di fascinazione e disgusto che ispirano i cadaveri abbandonati. Il cadavere, in questo caso, della sopravvivenza sociale, esibita nella sua infinita miseria e vanità. A Genova erano convenuti individui mossi da intenti diversi, non sempre dichiarati e nemmeno sempre pienamente consapevoli: chi per protestare sotto le finestre dei potenti, chi per chiedere loro ascolto, chi per chiedere ascolto al mondo, chi per pregare, chi per prendersi qualche rivincita, chi per reclutare e ingrossare le fila del suo partito/organizzazione, chi per fare "comunicazione", chi per distruggere ciò che gli premeva fosse distrutto, chi per vedere se si riusciva a far volgere gli eventi e le situazioni in qualcosa di piacevole e affascinante, chi per “ esserci” in quel che prometteva di convertirsi nell’evento mediatico dell’anno, chi per veder passare magari Agnoletto, Casarini, Susan George o Manu Chao, o – magari – le vere star fatte baluginare (verranno? Non verranno? Si limiteranno a una presenza? O suoneranno qualcuno dei loro pezzi fiammeggianti eppure oscuri?) dai media, neri come la notte, erotici come un sogno, oscuri come un verso, i grandi, i mitici, gli impareggiabili Black Block. Incerti fra la possibilità di dare sostanza alle passioni di così tanti, e quella di poter contemplare sé stessi sul palcoscenico più illuminato del momento, a centinaia di migliaia la chimera di Genova ci chiamava.

Così, a decine e – l’ultimo giorno – a centinaia di migliaia ci si è ritrovati alla deriva, avendo come unici riferimenti i battaglioni catafratti della non-vita nelle mille divise che il delirio burocratico nazionale mette a disposizione per la repressione, il variopinto bazar delle ideologie antiglobali, col suo mix di “qualcosa di vecchio, qualcosa di nuovo, qualcosa di rosso” che si direbbe tratto da un giornale di consigli per la moderna massaia: e le pietre, i vetri, i metalli della città inerte. Con tali materiali, davvero poveri, ciascuno ha ricostruito l’ambiente di questi tre giorni. E la diversità e la contraddittorietà dei ricordi la dice lunga sia sulla natura essenzialmente soggettiva di questa esperienza, sia sull’insufficienza di una costruzione collettiva, sia sul parallelo fallimento di una ricomposizione autoritaria della memoria consentita.

In questo senso, e anche questo libro partecipa del medesimo disegno, la memoria e la coscienza hanno assunto forma non lineare ma reticolare, si sono dimostrate incomprimibili alla semplificazione ideologica, malgrado l’immensità degli sforzi operati dai mentitori per conseguire il loro intento. Questa novità, che speriamo la storia a venire venga a confermare e a radicalizzare, deve moltissimo al complesso di sistemi informativi e di discussione in tempo reale, che internet e le radio hanno messo a disposizione. Questa presa diretta ha consentito che, da una parte, i fatti, a distanza di poche settimane, fossero già pacificamente di pubblico dominio, in forma tutto sommato veritiera: questo ha costretto i falsificatori in agguato a ridurre il proprio raggio d’azione al solo terreno delle interpretazioni. Non è poco. E non è poco neppure che questo movimento, mentre ancora si sfilava, o ci si batteva, o si cercava la salvezza, abbia da subito principiato a pensarsi e a dirsi, estraendo teoria da ogni pratica, e viceversa. Molti interventi che citiamo e cui facciamo riferimento, aldilà del loro specifico contenuto, che magari risente ancora di analisi e di argomenti appesantiti da decenni o magari secoli di teoria sovversiva, sono importanti soprattutto per il fatto di essere stati diffusi contemporaneamente agli eventi cui si riferivano.

Se procediamo verso un movimento senza capi, lo dobbiamo anche alla crescente possibilità, per ciascuno, di confrontare pubblicamente il senso di ciò che fa, mentre lo sta facendo, di affrontare in prima persona «una nuova narrazione del mondo»…

A Genova la teoria e la prassi si sono incontrate e rispecchiate: per scoprirsi, indubbiamente, insufficienti entrambe.

Eppure, chi era lì, e ha potuto vedere Genova bella come mai l’aveva veduta, come chi, da lontano, ha saputo trarsi d’impaccio nel labirinto dei media, ha percepito, con emozione ed angoscia, il riaffacciarsi del tempo storico.

Genova è stata, in questo senso, la prima grande sommossa “situazionista”. Il suo limite, il limite che ne ha permesso la parziale sterilizzazione, si situa precisamente nel fatto che questa situazione è stata tuttavia ricevuta, colta al volo (e, per molti aspetti, “acquistata”) già confezionata, e non costruita autonomamente e coscientemente. E, come rileva Sergio Ghirardi, “ In situazioni casuali si incontrano degli individui separati che si muovono a caso. Le loro emozioni divergenti si neutralizzano, mantenendo il loro solido ambiente di noia”.

In quel momento della scrittura in cui un tempo si cercava l'esplicazione, io voglio ormai che ci si trovi il regolamento dei conti: se questo libro avrà un senso, esso lo potrà trovare unicamente al di fuori del campo della lettura e della scrittura. Il suo successo non si misurerà sui borderò delle case editrici sulle pagine di critica dei giornali e tanto meno nei talk show del pensiero predigerito. Ma per le strade, quelle di Genova, da cui ha preso le mosse, e quelle simili di ogni altra città del mondo,

Così, queste parole che Vaneigem scriveva alla vigilia del primo grande tentativo collettivo di fuoruscita dalla vita quotidiana, e che allora parevano riferirsi solo a individui impazienti e isolati, oggi risultano ben diversamente attuali.

“Sono i miei gesti incompiuti quelli che vengono a ossessionarmi, e non l'avvenire della razza umana, né lo stato del mondo nell'anno 2000, né il futuro condizionale, né gli orsetti lavatori dell'astratto. Se scrivo non è, come si dice, "per gli altri", né per esorcizzare me stesso contro i loro fantasmi! Io annodo i capi delle parole uno dopo l'altro per poter uscire dal pozzo dell'isolamento, dal quale bisognerà bene che gli altri mi tirino fuori. Io scrivo per impazienza e con impazienza. Per vivere senza tempo morto. Degli altri non voglio sapere nulla che a tutta prima non concerna me stesso. Bisogna che essi si salvino da me come io mi salvo da loro. Il nostro progetto è comune. E' escluso che il progetto dell'uomo totale possa mai basarsi su una riduzione apportata all'individuo. Non esiste castrazione più o meno valida. La violenza apolitica delle giovani generazioni, il loro disprezzo per i reparti a prezzo unico della cultura, dell'arte, dell'ideologia ne sono la conferma nei fatti: la realizzazione individuale sarà l'opera del "ciascuno per sé" collettivamente inteso. E in maniera radicale.“ "