I conflitti come proprietà
Nils Christie
Archivio Primo Moroni
Introduzione
Pubblichiamo questo testo di Nils Christie a più di trent’anni dalla sua
uscita sulla rivista “The British Journal of Criminology”, perché la sua
rilettura aiuta a far luce su uno dei paradossi chiave delle politiche
securitarie che interessano oggi i Paesi appartenenti alla sfera egemonica
dell’Occidente neoliberale.
La teorizzazione della preminenza del diritto di proprietà sull’interesse
collettivo che si vorrebbe derivata dalle virtù progressive del capitalismo,
dalla volontà di tutela delle libertà individuali, e che produrrebbe effetti
benefici per la collettività grazie al meccanismo di autoregolamentazione della
concorrenza, o che più semplicemente tutela gli interessi delle grandi
accumulazioni industriali, si materializza in un corpo normativo che, allo
scopo di mantenersi imparziale, resta sempre su un piano di astrazione.
Nell’economia della proprietà privata il compito di fissare il discrimine tra
lecito e illecito è affidato innanzitutto al diritto. Questa costruzione ideale
si dota di un apparato di valori che tende sempre più a includere i bisogni o
le espressioni di contrasto nella sfera dei comportamenti criminosi. Il
processo di astrazione che accompagna lo sviluppo degli strumenti del diritto
penale non libera quest’ultimo (perché non può) dalla sua connotazione
classista ma, piuttosto, via via, lo allontana dalla percezione dei soggetti su
cui (e non con cui) tende a operare.
Quest’opera di spersonalizzazione della giustizia, generalmente, ed
erroneamente, identificata con la misura della sua imparzialità, avviene su
degli elementi ben precisi che caratterizzeranno, con tempistiche diverse,
tutti i Paesi europei e il Nord America: la funzione del tribunale, come strumento
regolatore dei disequilibri sociali, unita alla frantumazione delle identità
collettive, porta alla lettura in chiave criminale di tensioni un tempo
considerate facenti parte dell’ordinario vivere sociale e nel contempo
espropria del ruolo di protagonista i soggetti coinvolti. Tutto ciò è
necessario, si dice, affinché il registro utilizzato sia il medesimo per tutti
e la regola risulti quindi imparziale.
Per regolarsi, dice Christie, la società della proprietà espropria le persone
di quanto hanno di più prezioso: il conflitto.
I dispositivi per mezzo di cui tutto questo avviene si distinguono con
fatica in un quadro come quello attuale ove la spersonalizzazione delle regole
di convivenza si è radicata tanto ampiamente da trasformarsi in elemento esso
stesso di propaganda, generatore di consenso, da inevitabile e necessaria
forzatura che era. Christie identifica tre aspetti di questa trasformazione.
Prima di tutto il rito, le parti che prendono il posto dei soggetti, la cerimonia.
Il luogo fisico della giustizia, spersonalizzante e inospitale che, dice
Christie, sembra fatto più per appropriarsi di un conflitto che per superarlo.
Come secondo aspetto c’è il concetto di “vittima” del crimine.
Al posto di essere uno dei poli di un problema sociale, il crimine è la
rappresentazione di un pericolo, per le vittime e potenzialmente per chiunque.
È una percezione, quella del pericolo, che si dimostra molto pervasiva (e
persuasiva); e il concetto di pericolo ai governanti in genere piace perché
permette di effettuare qualche salto logico, di prendere qualche scorciatoia e
garantirsi (col consenso comune) gli strumenti necessari ad affrontare
l’“emergenza” di turno, quale che essa sia. Risulta abbastanza naturale, quindi, che attraverso la simbolizzazione della vittima possa
passare una ulteriore spersonalizzazione della norma che rende, questa sì, la
giustizia cieca (e non per questo più equa). È stato proprio poco dopo l’uscita
di questo articolo che ha avuto inizio in Italia il processo, che continua sino
ad oggi, di legittimazione di una durissima repressione dei conflitti sociali e
dei loro protagonisti, che invocava a propria giustificazione l’asprezza dello scontro ma
che in realtà non seguiva che una strada già segnata; parimenti è grazie alla
simbologia della vittimizzazione che vengono elaborate (e facilmente digerite)
le più razziste rappresentazioni, da quella dello zingaro che rapisce i bambini
a quella dell’immigrato criminale perché clandestino.
Poi, come terzo elemento, vi è la segmentazione, che ancor più che di
classe diviene intersoggettiva (Christie parla del ricostituirsi di una società
di casta). Ne deriva la frantumazione dei rapporti, incentivata dalla
microconflittualità indotta dalla precarizzazione del lavoro, e delle
esistenze. Questa separazione si spinge fino a realizzare forme di
allontanamento fisico tra le persone e alla costituzione di “zone franche” da
cui sia possibile estromettere il crimine, quasi fosse un corpo esterno, un
tumore sociale (la metafora del tumore nel paradigma della lotta alla
criminalità ben rappresenta l’idea del corpo estraneo, da isolare ed
eliminare). Non a caso nel suo articolo Christie cita di Oscar Newman, Defensible
Space. People and Design in the Violent City, un testo che sarà la base
dell’urbanistica securitaria, in cui si disegna una città di controllori
controllati avente come inevitabile corollario il presidio armato.
Tutti questi elementi, ancora in incubazione nel 1977, acquisteranno un
peso determinante negli scenari successivi, spesso passando inosservati e
permettendo alle teorie giustizialiste di mettere radici negli ambiti più
diversi e insospettabili.
La nostra speranza è che questo breve testo possa essere utilizzato per
ragionare sull’oggi, mentre patiamo un sistema di governo sociale criminogeno,
aiutandoci a riconoscerne più distintamente gli effetti nefasti grazie a uno
sguardo proveniente da lontano o, come questo, dal recente passato.
Archivio Primo Moroni,
18.1.2011
Nils Christie
(1). Professore
di Criminologia, Università di Oslo.
I conflitti come proprietà
(2). Conferenza
di fondazione del Centre for Criminological Studies, Università di Sheffield,
31 marzo 1976. Sono state ricevute osservazioni di rilievo sulle bozze
preliminari del manoscritto da parte di Vigdis Christie, Tove Stang Dhal e
Annika Snare.
“The British Journal of
Criminology”
Vol. 1, gennaio 1977, n. 1
Sommario
I conflitti sono qui considerati elementi importanti della società. Le società
altamente industrializzate non hanno troppi conflitti interni, ne hanno troppo
pochi. Noi dobbiamo organizzare dei sistemi sociali in modo che i conflitti
siano al tempo stesso alimentati e resi visibili, preoccupandoci anche del
fatto che non siano dei professionisti a monopolizzarne la gestione. Le vittime
del crimine in particolare hanno perduto i loro diritti a partecipare. Viene
quindi delineata una procedura giuridica che ristabilisca i diritti dei
partecipanti alla gestione dei propri conflitti.
Introduzione
Forse non ci dovrebbe essere alcuna criminologia. Forse noi dovremmo
abolire degli istituti, non aprirli. Forse le conseguenze sociali della
criminologia sono più dubbie di quanto ci piaccia pensare.
Io ritengo che lo siano. E ritengo che ciò abbia a che fare con il mio tema:
i conflitti come proprietà. Il mio sospetto è che la criminologia abbia in una
certa misura amplificato un processo in cui i conflitti sono stati tolti alle
parti direttamente coinvolte e in questo modo o sono scomparsi o sono diventati
proprietà di qualcun altro. Un esito, in entrambi i casi, deplorevole. I
conflitti dovrebbero essere usati, non solo lasciati alla loro erosione. E
dovrebbero essere usati, e diventare utili per chi è originariamente coinvolto
nel conflitto. I conflitti possono colpire gli individui tanto quanto i sistemi
sociali.
Questo è ciò che impariamo a scuola. E questo è il motivo per cui abbiamo
dei funzionari. Senza di loro la vendetta privata e le faide fiorirebbero. Lo
abbiamo imparato in modo così forte che abbiamo perso la traccia dell’altra
faccia della medaglia: la nostra società industrializzata su larga scala non è
una società con troppi conflitti interni. È una società che ne ha troppo pochi.
I conflitti possono uccidere, ma la loro scarsità può paralizzare. Utilizzerò questa
occasione per proporre una trattazione schematica di questa situazione. Non può
essere di più. Questa relazione rappresenta infatti l’inizio dello sviluppo di
alcune idee, e non il prodotto finale elaborato.
Il ventre legislativo
Sugli eventi e i non-eventi
Prendiamo un punto di partenza lontano. Spostiamoci in Tanzania.
Affrontiamo il nostro problema dal pendio soleggiato della provincia di
Arusha. Qui, all’interno di una casa relativamente ampia di un piccolissimo
villaggio, si è verificato un evento. La casa era gremita. C’erano la maggior
parte degli adulti del villaggio e parecchie persone che provenivano da quelli
adiacenti. Era un evento felice: un parlare veloce, scherzi, sorrisi, viva
attenzione, non una frase doveva andar persa. Era un circo, una
rappresentazione.
Era un processo.
Il conflitto questa volta era tra un uomo e una donna. Erano stati fidanzati.
Lui aveva speso molto nella relazione per un lungo periodo di tempo, finché lei
l’aveva rotta. Ora l’uomo rivoleva indietro ciò che aveva investito. Sull’oro,
l’argento e il denaro si decise facilmente, ma come fare con gli oggetti d’uso
già consumati e per le spese sostenute?
L’esito non è interessante per la nostra trattazione. Lo è invece la
struttura per la soluzione del conflitto. Dovrebbero essere in particolare ricordati
cinque elementi:
1. Le parti, gli ex amanti, erano al centro della stanza, e al centro dell’attenzione
di ognuno. Parlavano spesso ed erano ascoltati con grande attenzione.
2. Vicino a loro, c’erano parenti ed amici, anche loro partecipavano. Ma non
assumevano la direzione.
3. C’era anche la partecipazione da parte di tutti i presenti con brevi
domande, informazioni, o battute.
4. I giudici, tre segretari locali del partito, erano completamente inattivi.
Naturalmente non conoscevano i problemi del villaggio. Tutte le altre persone
nella stanza erano invece esperti. Erano esperti sia sulle norme che sugli
atti. Precisavano le norme e chiarivano ciò che era accaduto attraverso la
partecipazione a tutto il procedimento.
5. Nessun cronista riferiva. Tutti erano presenti.
La mia conoscenza personale di quanto avviene nei tribunali inglesi è molto
limitata. Ho qualche vago ricordo di tribunali minorili, in cui ho contato 15 o
20 persone presenti, soprattutto assistenti sociali che usavano la stanza per
il lavoro preparatorio o per piccole consultazioni. Un ragazzino o un giovane
doveva essere giudicato, ma fatta eccezione per il giudice, o forse era un
impiegato, nessuno sembrava prestare alcuna particolare attenzione. Il
ragazzino o il giovane era probabilmente assai confuso rispetto a chi era lì e a
fare cosa, un fatto confermato da un breve studio di Peter Scott (1959). Negli
Stati Uniti d’America Martha Baum (1968) ha fatto osservazioni simili.
Recentemente Bottoms e McClean (1976) hanno aggiunto un’altra importante
osservazione: “Esiste una verità spesso rivelata nella letteratura sul diritto
o negli studi sull’amministrazione della giustizia penale. È una verità che è
diventata evidente a tutti coloro che erano coinvolti in questo progetto di
ricerca quando hanno esaminato i casi che costituivano il nostro campione. La
verità è che nella maggior parte dei casi, il lavoro dei tribunali penali è monotono,
banale, mediocre e diviene in breve tempo noioso”.
Ma non vorrei insistere sul vostro sistema, vorrei concentrarmi invece sul
mio. E ve lo posso assicurare: quello che succede non è un evento. È una
negazione completa del processo in Tanzania. Ciò che è sorprendente in quasi
tutti i processi scandinavi è il grigiore, la monotonia, e la mancanza di qualsivoglia
dimostrazione di ascolto. I tribunali non sono centrali nella vita quotidiana
dei nostri cittadini, ma periferici in quattro modi fondamentali:
1. Sono collocati nei centri amministrativi delle città, al di fuori delle
zone abitate dalle persone comuni.
2. All’interno di questi centri, sono spesso concentrati in uno o due
grandi edifici di notevole complessità. Gli avvocati sovente si lamentano del
fatto che hanno bisogno di mesi per imparare a muoversi dentro questi edifici.
Non ci vuole molta fantasia per immaginare la situazione delle parti in causa o
del pubblico, quando vengono intrappolati in queste strutture. Uno studio
comparativo sull’architettura dei tribunali potrebbe diventare egualmente
rilevante per la sociologia del diritto, quanto lo è quello di Oscar Newman (1972)
sullo “spazio difendibile” per la criminologia. Ma anche senza alcuno studio,
sono convinto di poter dire che sia la condizione fisica sia il disegno
architettonico sono degli indicatori forti del fatto che in Scandinavia i
tribunali appartengono agli amministratori della legge.
3. Questa impressione si rafforza quando entrate nella stessa aula di
tribunale, se avete avuto abbastanza fortuna da trovare la strada per
arrivarci. Qui di nuovo, quello che sorprende è la collocazione periferica
delle parti coinvolte nel procedimento. Le parti sono rappresentate, e sono
questi rappresentanti e il giudice o i giudici, a esprimere la modesta attività
che viene messa in atto all’interno di queste aule. Le famose raffigurazioni
dei tribunali di Honoré Daumier valgono per la Scandinavia tanto quanto per la
Francia.
Ci sono alcune differenze. Nelle piccole città, o in campagna, i tribunali
sono più facilmente raggiungibili che nei centri più grandi. E al gradino più
basso del sistema giudiziario, nei cosiddetti collegi arbitrali, le parti sono
talvolta rappresentate dai loro esperti legali con minor pesantezza. Ma il
simbolo dell’intero sistema è la Corte Suprema in cui le parti direttamente
coinvolte non sono nemmeno presenti al loro processo.
4. Non ho ancora fatto alcuna distinzione tra conflitti civili e penali. Ma
non è un caso che quello della Tanzania fosse un processo civile. Una piena
partecipazione al proprio conflitto presuppone degli elementi del diritto
civile. L’elemento chiave in un procedimento penale è che un fatto accaduto tra
le parti vi si trasforma in un conflitto tra una delle parti e lo Stato. Così,
nel moderno processo penale sono successe due cose importanti. Primo, le parti
vengono rappresentate. Secondo, la parte che è rappresentata dallo Stato, cioè la
vittima, lo è in modo così totale che lei o lui nella maggior parte dei
procedimenti è spinta completamente fuori di scena, ridotta ad essere la
persona che dà solo il via all’intera faccenda. Lei o lui è una specie di perdente doppio; in primo luogo di
fronte al reo, ma in secondo luogo e spesso in un modo più mutilante, perché
privato dei diritti a una piena partecipazione in quello che avrebbe potuto
essere uno degli incontri rituali più importanti della sua vita. Nel rapporto con
lo Stato, la vittima ha perso il processo.
La corte
Ladri di professione
Come sappiamo, dietro a questo sviluppo ci sono molte ragioni onorevoli,
così come ce ne sono di disonorevoli. Quelle onorevoli hanno a che fare con il
bisogno di una riduzione del conflitto da parte dello Stato e certamente anche
con il desiderio di proteggere la vittima. È piuttosto evidente. Ciò vale anche
per la tentazione meno onorevole per lo Stato, l’imperatore o chiunque detenga
il potere, di usare il processo penale per ottenerne un utile personale. I rei
potrebbero pagare per le loro colpe. Le autorità hanno mostrato in passato una notevole
propensione, come rappresentanti della vittima, ad agire in qualità di
riceventi denaro o altra proprietà da parte del reo. Questi tempi sono passati;
il sistema di controllo del crimine non è fatto per il profitto. Ma non sono
ancora completamente passati. Ci sono, in tutta la loro banalità, molti
interessi in atto, la maggior parte dei quali hanno a che fare con la
professionalizzazione.
Gli avvocati sono particolarmente bravi nel privarci dei conflitti.
Sono formati per questo. Sono formati per prevenire e risolvere i conflitti.
Hanno continuamente a che fare con una subcultura che manifesta un accordo
sorprendentemente elevato sull’interpretazione di norme, e su quale tipo di
informazione possa essere accolta come rilevante in ogni caso. Molti di noi da
profani hanno fatto esperienza di quei tristi momenti di verità, in cui i
nostri avvocati ci dicono che i nostri argomenti migliori nella lotta contro il
nostro prossimo, sono privi di qualsivoglia rilevanza legale, e che, per amor
di Dio, dovremmo lasciarli perdere in tribunale. Invece loro ne tirano fuori altri
che noi potremmo ritenere irrilevanti o persino da non usare.
Il mio esempio preferito si è verificato proprio dopo la guerra. Uno degli
avvocati difensori di primissimo piano del mio Paese mi disse con orgoglio come
era appena riuscito a salvare un povero cliente, che era stato un
collaborazionista dei tedeschi. L’accusa aveva sostenuto che costui era stato
una figura chiave nell’organizzazione del movimento nazista. Era stato una
delle menti guida al suo interno. L’avvocato difensore, tuttavia, salvò il suo
cliente. E lo salvò mostrando alla giuria quanto questi fosse debole, privo di
capacità, quanto fosse evidentemente mancante, sia da un punto di vista sociale
che organizzativo. Il suo cliente semplicemente non poteva essere stato uno
degli organizzatori del collaborazionismo; non ne aveva le capacità. Ed aveva
vinto il processo. Il suo assistito ebbe una pena molto lieve, come figura di
scarsissimo peso. L’avvocato difensore concluse la sua storia dicendomi – con
un po’ di indignazione – che né l’accusato né sua moglie l’avevano mai
ringraziato e che in seguito non gli avevano più rivolto la parola.
I conflitti diventano proprietà degli avvocati. Ma gli avvocati non
nascondono che sono proprio i conflitti ciò che essi gestiscono.
E la struttura organizzativa dei tribunali sottolinea questo punto. L'identificazione
delle parti in causa, il giudice, la proibizione di una comunicazione diretta
nello svolgimento del processo, tutto ciò sottolinea il fatto che si tratta di
un’organizzazione per la gestione dei conflitti. Coloro che seguono un
trattamento personalizzato sono in una posizione diversa. Sono più interessati
a trasformare l’immagine del processo da quella di un conflitto a quella di un
non-conflitto.
Il modello fondamentale degli operatori non è quello di parti che si
oppongono, ma quello in cui una parte dev’essere aiutata in direzione di un
obiettivo generalmente accettato: il mantenimento o il ristabilimento della
salute. Non sono formati in un sistema in cui è importante che le parti possano
controllarsi a vicenda. Non esiste, nel processo ideale, niente da controllare,
perché c’è un unico obiettivo.
La specializzazione viene incoraggiata. Fa crescere la quantità di conoscenza
a disposizione, e la mancanza di controllo interno non ha alcun rilievo. Una
prospettiva di conflitto crea degli spiacevoli dubbi sulla adeguatezza dello
specialista per quel lavoro. Una prospettiva di non-conflitto è una
precondizione per definire il crimine come un legittimo obiettivo di
trattamento. Un modo per ridurre l’attenzione per il conflitto è quello di
ridurre l’attenzione per la vittima. Un altro è un’attenzione concentrata su
quegli aspetti del background criminale
che lo specialista è particolarmente competente a gestire.
Le imperfezioni biologiche sono molto adatte. E così pure le fragilità
caratteriali quando sono accertate molto lontano nel tempo – lontano dal
recente conflitto. Ciò vale anche per l’intera fila di variabili esplicative
che la criminologia potrebbe offrire. La criminologia ha funzionato, in larga
misura, come una scienza ausiliaria per i professionisti che operano
all’interno del sistema di controllo del crimine. Ci siamo concentrati sul reo,
e lo abbiamo trasformato in un oggetto di studio, di manipolazione e di
controllo.
Ci siamo aggregati a tutte quelle forze che hanno ridotto la vittima a una
nullità e il reo a una cosa. Questa critica forse è rilevante non solo per la
vecchia criminologia, ma anche per quella nuova.
Mentre la vecchia spiegava il crimine a partire dai difetti personali o da
handicap sociali, la nuova criminologia spiega il crimine come risultato di
ampi conflitti economici. La vecchia criminologia perde i conflitti, la nuova
li trasforma da conflitti interpersonali in conflitti di classe. E lo sono.
Sono conflitti di classe, anche. Ma, sottolineando questo aspetto, i conflitti
sono di nuovo portati via alle parti direttamente coinvolte. Così, in forma di
affermazione preliminare: i conflitti penali sono diventati proprietà di altre persone, innanzi tutto proprietà
degli avvocati, oppure è diventato interesse di altre persone dislocare i
conflitti lontano.
Ladri strutturali
Ma c’è qualcosa di più di una manipolazione professionale dei conflitti. I
mutamenti nella struttura sociale di base hanno operato nello stesso modo.
Ciò che ho in mente in modo particolare sono due tipi di segmentazione che
possono essere facilmente osservati nelle società altamente sviluppate.
In primo luogo, c’è il problema della segmentazione nello spazio.
Tutti i giorni noi agiamo come migranti che si spostano tra gruppi di
persone che non hanno bisogno di avere alcun legame, tranne quello
rappresentato dalla persona stessa che si muove. Spesso quindi, conosciamo i
nostri compagni di lavoro solo come compagni di lavoro, i nostri vicini solo
come vicini, le persone che attraversano la città con gli sci solo come persone
che attraversano la città con gli sci. Li conosciamo in quanto ruoli e non come
persone intere.
Questa situazione viene accentuata dal grado estremo di divisione del
lavoro con cui accettiamo di vivere. Solo gli esperti possono valutarsi l’un
l’altro grazie alla conoscenza personale. Fuori della specialità, dobbiamo
basarci su una considerazione generale della supposta importanza del lavoro.
Fatta eccezione per gli specialisti, non possiamo valutare quanto rilevante sia
qualcuno nel suo lavoro, ma soltanto quanto rilevante – nel senso di importante
– sia il suo ruolo. A causa di tutto ciò, abbiamo delle possibilità limitate di
capire il comportamento delle altre persone, avrà un rilievo limitato per noi.
I “ruolanti” vengono scambiati più facilmente di quanto lo siano le persone.
Il secondo tipo di segmentazione ha a che fare con ciò che vorrei definire
la nostra ricostituzione di una società di caste. Non sto parlando di una
società di classe, anche se ci sono delle evidenti tendenze pure in questa
direzione. Nel mio quadro, tuttavia, ritengo che gli aspetti di casta siano
ancora più importanti.
Ciò che ho in mente è la segregazione basata su caratteristiche biologiche come il sesso, il colore, gli
handicap fisici o il numero di anni trascorsi dalla nascita.
L’età è particolarmente importante.
È una caratteristica quasi perfettamente sincronizzata con una moderna
complessa società industrializzata. È una variabile continua in cui possiamo
introdurre tutti gli intervalli di cui abbiamo bisogno.
Possiamo dividere la popolazione in due: bambini e adulti, ma anche in
dieci: neonati, bambini in età prescolare, bambini in età scolare, teenager,
giovani, adulti, pre-pensionati, pensionati, anziani, vecchi.
E, ciò che è più importante, i punti di divisione possono essere spostati
in su e in giù sulla base delle necessità sociali. Il concetto di “teenager”
era particolarmente adeguato agli anni passati. Non si sarebbe diffuso se la
realtà sociale non fosse stata in sintonia con la parola. Oggi questo concetto
non è usato spesso nel mio Paese.
Non si esce dalla condizione di giovane a 19 anni. I giovani devono aspettare
anche di più prima che sia loro permesso di entrare nel mondo del lavoro. La
casta di coloro che sono fuori dal mondo del lavoro si è estesa a chi ha
superato anche di molto i vent’anni. Nel medesimo tempo, l’allontanamento dal
mondo del lavoro – se avete mai potuto entrarci, se non ne siete stati tenuti
del tutto fuori a causa della razza o delle caratteristiche sessuali – è anticipato
alla soglia dei sessant’anni. Nel mio piccolo Paese di quattro milioni di abitanti, abbiamo
800mila persone segregate all’interno del sistema educativo.
La accresciuta mancanza di lavoro ha portato immediatamente le autorità ad
aumentare la capacità di segregazione educativa.
Altri 600mila sono pensionati.
La segmentazione in base allo spazio e secondo le caratteristiche di casta
ha diverse conseguenze. Innanzi tutto, porta a una spersonalizzazione delle
relazioni nella vita sociale. Gli individui sono meno legati gli uni agli altri
in strette reti sociali che implichino un confronto con tutti i ruoli
significativi di altre persone significative.
Ciò produce una situazione in cui le informazioni reciproche sono limitate.
Noi sappiamo meno sulle altre persone, e abbiamo limitate possibilità sia di
capire sia di prevedere il loro comportamento. Se si produce un conflitto, noi
siamo meno in grado di farvi fronte. Non solo esistono dei professionisti,
capaci e desiderosi di rimuovere il conflitto, ma noi stessi siamo più
desiderosi di disfarcene.
In secondo luogo, la segmentazione porta alla distruzione di certi conflitti
ancor prima che avvengano. La spersonalizzazione e la mobilità all’interno
della società industriale fanno scomparire alcune condizioni essenziali per il
prodursi di conflitti vitali, cioè quelli tra parti reciprocamente molto
significative. Ciò che ho particolarmente in mente è il delitto contro l’onore
altrui, l’oltraggio o la diffamazione.
Tutti i Paesi scandinavi hanno registrato un calo drammatico in questa
fattispecie di reati. Secondo me, ciò non è avvenuto perché l’onore è ora più
rispettato, ma perché c’è meno onore da rispettare.
Le varie forme di segmentazione implicano relazioni seriali in cui gli esseri
umani significano meno gli uni per gli altri. Quando vengono colpiti, lo sono
solo parzialmente. E se attraversano dei guai, possono venirne fuori con più
facilità. E dopotutto, a chi importa? Nessuno mi conosce. Secondo il mio
parere, la diminuzione dei delitti di diffamazione e oltraggio è uno dei
sintomi più interessanti e negativi dei pericolosi sviluppi presenti
all’interno delle moderne società industrializzate. Questa diminuzione è chiaramente collegata alle condizioni
sociali che conducono a un aumento di altre forme di crimine portate
all’attenzione delle autorità. Un obiettivo importante per la prevenzione del
crimine è ricreare le condizioni sociali che portino a un aumento dei crimini
contro l’onore.
Una terza conseguenza della segmentazione basata sullo spazio e sull’età è
il fatto che certi conflitti vengono resi completamente invisibili, restando
quindi privi di una qualsivoglia soluzione onorevole.
Penso a conflitti che sono alle due estremità di un continuum. A un capo
abbiamo quelli ultra-privatizzati, quelli che si dànno contro individui chiusi
all’interno di uno dei segmenti: per esempio, una moglie bastonata o un bambino
percosso. Quanto più isolato è un segmento, tanto più la parte meno forte è
sola, esposta all’abuso. Il libro di
Kinberg, Inghe e Riemer (1943) sull’incesto in Svezia è al riguardo un
classico. Il loro assunto fondamentale era che l’isolamento sociale di certe categorie di lavoratori agricoli proletarizzati fosse la condizione
necessaria per questo tipo di crimine. La povertà significa che le parti
componenti il nucleo familiare diventano completamente dipendenti le une dalle
altre. L’isolamento significa che le parti più deboli della famiglia non hanno
una rete esterna cui possano appellarsi per essere aiutate. La forza fisica del
marito acquista un’importanza sproporzionata.
All’altra estremità del continuum abbiamo i crimini compiuti da grandi
organizzazioni economiche contro individui troppo deboli e ignoranti per essere
capaci persino di rendersi conto di essere stati vittimizzati. In entrambi i
casi l’obiettivo della prevenzione del crimine potrebbe essere quello di
ricreare condizioni sociali tali da rendere visibili e quindi gestibili i
conflitti.
Avvocati
I conflitti come proprietà
I conflitti sono portati via, messi da parte, fatti scomparire a poco a poco
oppure resi invisibili. È importante? Lo è davvero?
La maggior parte di noi sarebbe probabilmente d’accordo sul fatto che
dovremmo proteggere le invisibili vittime cui ho appena accennato. Molti
approverebbero l’idea secondo cui Stati, governi o altre autorità dovrebbero
smetterla di sottrarre beni e invece permettere alla povera vittima di ricevere
questo denaro. Io perlomeno sarei d’accordo con una decisione del genere.
Ma non voglio entrare adesso nel merito di questo problema.
Il risarcimento materiale non è ciò che ho in mente quando parlo di
“conflitti come proprietà”. È il conflitto in sé a rappresentare la proprietà
più interessante che viene portata via, e non i beni originariamente sottratti
alla vittima o ad essa restituiti. Nei nostri tipi di società i conflitti sono
più scarsi della proprietà stessa. E sono immensamente più preziosi.
Sono preziosi in diversi modi. Cominciamo dal livello sociale; fin qui ho
presentato alcuni frammenti di analisi utili a mettere a fuoco il problema. Le
società altamente industrializzate affrontano i problemi maggiori
nell’organizzare i propri membri in maniera tale che solo una quota accettabile
di loro partecipi del tutto ad ogni attività. La segmentazione in base all’età
e al sesso può essere considerata come un efficace metodo di segregazione. La
partecipazione è talmente rara che chi fa parte di una cerchia qualunque crea
forme di monopolio contro chi non ne fa parte, con riferimento, in particolare,
al lavoro.
In questa prospettiva, sarà facile vedere che i conflitti racchiudono un potenziale
di attività, di partecipazione. I moderni sistemi di controllo del crimine
rappresentano uno dei molti casi di opportunità perdute per coinvolgere i
cittadini in compiti che sono di rilevanza immediata per loro. Nostri in una
società di monopolisti del compito.
La vittima in questa situazione perde in modo pesantissimo.
Non solo ha sofferto, ha perduto in senso materiale o è rimasta ferita, fisicamente
oppure in altro modo. E non solo è lo Stato ad assumersene l’indennizzo. Ma
soprattutto la vittima ha perso la partecipazione al suo stesso processo. Le
luci della ribalta sono per il Tribunale, non per la vittima. È il Tribunale
che definisce le perdite, non la vittima. È il Tribunale che compare sui
giornali, molto raramente la vittima. È il Tribunale che dà una possibilità di
parlare al reo, e né il Tribunale né il reo sono particolarmente interessati a
proseguire la conversazione.
L’accusa è arcistufa da tempo. La vittima avrebbe preferito non esserci.
Forse è una persona che è stata spaventata a morte, presa dal panico o furiosa.
Ma non avrebbe voluto essere coinvolta. Quello avrebbe potuto essere uno dei
giorni più importanti della sua vita.
Qualcosa che le appartiene è stato portato via alla vittima [Per una relazione
preliminare sull’insoddisfazione della vittima, si veda Vennard (1976)].
Ma i grandi perdenti siamo noi, nella misura in cui la società siamo noi.
Questa perdita è soprattutto una perdita nelle opportunità di chiarificazione
normativa. È una perdita di possibilità pedagogiche, di opportunità per una
discussione continua su ciò che la legge del paese rappresenta. Quanto aveva
torto il ladro, quanto aveva ragione la vittima? Gli avvocati hanno studiato
ciò che è rilevante in un processo, questo è il sapere condiviso che hanno
appreso durante la loro formazione. Ma ciò significa che sono formati per
essere incapaci di lasciar decidere alle parti che cosa sia rilevante. Ciò significa
che è difficile realizzare quello che potremmo chiamare
un dibattito politico in tribunale. Quando la vittima è piccola e il reo
grande, in dimensione o potere, quanto è allora riprovevole il crimine? E che
dire del caso opposto, del piccolo ladro e del grande padrone di casa? Se il
reo ha una certa cultura, dovrebbe soffrire di più o di meno per le sue colpe?
O se è nero oppure giovane, se dall’altra parte c’è una compagnia
d’assicurazione, oppure se sua moglie l’ha appena lasciato, o se la sua azienda
fallisse qualora lui dovesse andare in galera, oppure se sua figlia perdesse il
fidanzato.
O se era ubriaco o triste o pazzo? Non c’è fine a tutto ciò.
E forse non ce ne dovrebbe essere. È possibile che la legge dei Barotse,
così come viene descritta da Max Gluckman (1955), sia uno strumento migliore di
chiarificazione normativa, suscettibile di permettere alle parti in conflitto
di inserirsi ogni volta nell’intera catena di vecchie accuse e discussioni.
Forse le decisioni sulla rilevanza e sul peso di ciò che viene considerato
rilevante dovrebbero essere tolte agli esperti di giurisprudenza, gli ideologi a capo dei sistemi di controllo del crimine, e
riportate nelle aule di tribunale, per essere affrontate liberamente.
Un’ulteriore perdita complessiva, sia per la vittima sia per la società in
generale, ha a che fare con il livello di ansietà e i fraintendimenti. Ciò che di nuovo ho in mente sono le possibilità di incontri
personalizzati. La vittima è a tal punto fuori dal processo che non ha alcuna
opportunità, mai, di arrivare a conoscere il reo. Noi la lasciamo fuori,
arrabbiata, forse umiliata a causa di un interrogatorio incrociato in
tribunale, senza alcun contatto umano con il reo. La vittima non ha
alternativa. Avrà bisogno di tutti gli stereotipi classici sul “criminale” per
mantenere il controllo sull’intera questione.
Ha bisogno di capire, ma è invece una non-persona in un’opera di Kafka.
Naturalmente se ne andrà più spaventata che mai, con il bisogno più forte che
mai di sentirsi dire che i criminali sono esseri non-umani.
Il reo rappresenta un caso più complicato. Non è necessaria una grande
introspezione per vedere che una diretta partecipazione della vittima potrebbe
veramente essere vissuta come dolorosa. La maggior parte di noi sfuggirebbe a
un confronto del genere. Questa è la prima reazione. Ma la seconda è
leggermente più positiva. Gli esseri umani hanno dei motivi per le loro azioni.
Se la situazione fosse strutturata in modo tale che le ragioni potessero
essere fornite – le ragioni così come le parti le vedono, e non solo la
selezione che gli avvocati hanno deciso di classificare come rilevante – la
situazione non sarebbe forse così umiliante. In particolare la situazione
potrebbe cambiare se tutto fosse strutturato in modo tale che la questione
centrale non fosse quella di riconoscere la propria colpa, ma di discutere in
maniera esauriente su ciò che si potrebbe fare per annullare l’atto. E ciò è esattamente quanto dovrebbe
accadere se la vittima fosse reintrodotta nel processo.
Le perdite della vittima saranno prese in seria considerazione.
Ciò porta a una naturale attenzione sul modo in cui potrebbero essere
alleggerite. Porta a una discussione sulla restituzione. Il reo ha la
possibilità di mutare la sua posizione: da ascoltatore di una discussione,
spesso profondamente incomprensibile, su quale grado di pena dovrebbe ricevere,
a partecipante di una discussione su come potrebbe rimettere a posto le cose.
Il reo ha perduto l’opportunità di chiarire se stesso a una persona il cui
parere su di lui potrebbe avere importanza.
Egli ha quindi perso di conseguenza anche una delle più importanti
possibilità di essere perdonato. Se lo confrontiamo con l’umiliazione subita in
un comune tribunale, vividamente descritta da Pat Carlen (1976) in un recente
saggio comparso sul “British Journal of Criminology”, questo non è chiaramente
un cattivo trattamento per il criminale.
Aggiungo che, secondo me, dovremmo farlo in modo del tutto indipendente dai
suoi desideri. Non stiamo discutendo di un controllo sanitario. Si tratta del
controllo del crimine. Se i criminali sono inizialmente scioccati dal pensiero
di un confronto stretto con la vittima, in particolare se nel territorio in
prossimità di una delle parti, che fare allora? In base a recenti conversazioni
su questi argomenti so che la maggior parte delle persone condannate sono
scioccate.
Dopotutto, preferiscono tenersi lontane dalla vittima, dai vicini, da chi
ascolta e forse anche dal loro processo a causa del linguaggio e dalla
possibile presenza di esperti in Scienze del comportamento.
Desiderano assolutamente sbarazzarsi della loro proprietà rispetto al
conflitto. Così la questione è piuttosto: vogliamo noi permettere che se ne
sbarazzino? Vogliamo dar loro questa facile via d’uscita?
Desidero essere del tutto esplicito su un punto: non sto sostenendo queste
idee a causa di qualche interesse particolare al trattamento o al miglioramento
della condizione dei criminali. Non sto basando il mio ragionamento sulla
convinzione che un incontro più personalizzato tra il reo e la vittima potrebbe
condurre a diminuire la recidiva. Forse sarebbe così. E io ritengo che lo
sarebbe.
Stando come sono attualmente le cose, il reo ha perduto l’opportunità di
partecipare a un confronto personale di natura realmente seria. Ha perduto l’opportunità di ricevere un tipo di biasimo
che gli sarebbe molto difficile neutralizzare. Tuttavia, io avrei sostenuto
questo modo di operare anche se fosse assolutamente certo che non avrebbe alcun
effetto sulla recidiva, forse persino se avesse un effetto negativo. L’avrei
fatto per altri, più generali vantaggi. E lasciatemi anche aggiungere: non c’è
molto da perdere. Come tutti oggi sappiamo, perlomeno quasi tutti, non siamo
stati capaci di inventare alcuna cura per il crimine. Fatta eccezione per la pena di morte,
la castrazione o l’ergastolo, nessuna misura ha dato prova di avere
un’efficacia minimamente superiore rispetto a qualunque altra misura. Noi
potremmo reagire altrettanto bene al crimine in base a quanto le parti
strettamente coinvolte ritengono essere giusto e in accordo con i valori
generali della società.
Con quest’ultima affermazione, come con la maggior parte delle altre che ho
fatto, io sollevo molti più problemi di quante siano le risposte. Le
affermazioni sulla politica relativa al crimine, in particolare da parte di
coloro che portano il peso della responsabilità, sono di solito piene di
risposte. È di domande che abbiamo bisogno.
La gravità del nostro tema ci rende molto pedanti e quindi ci rende più
difficile immaginare paradigmi diversi.
Tendo ad assumere la stessa posizione rispetto alla proprietà del criminale
sul proprio conflitto di quella assunta da John Locke rispetto ai diritti di
proprietà sulla propria vita. Non si ha il diritto di gettarla via. Cfr. C.B.
MacPherson (1962).
Tre avvocati in conversazione
Un tribunale orientato verso la vittima
Dietro al mio ragionamento c’è chiaramente un modello di tribunali di zona.
Ma questo ha caratteristiche specifiche, ed è soltanto di ciò che voglio
discutere in quanto segue.
Innanzitutto è un’organizzazione orientata verso la vittima, benché non
nella sua fase iniziale.
La prima fase sarà quella tradizionale, in cui viene stabilito se è vero
che la legge è stata violata, e se è stata quella particolare persona a
violarla.
Viene poi la seconda fase che in questi tribunali sarebbe della massima
importanza. Sarebbe la fase in cui la situazione della vittima dovrebbe essere
presa in considerazione, in cui ogni dettaglio riguardante ciò che è accaduto,
legalmente rilevante o non, verrebbe portato all’attenzione del tribunale. Qui
sarebbe di particolare importanza una considerazione dettagliata rispetto a ciò
che potrebbe essere fatto per la vittima, innanzi tutto da parte del reo, in
secondo luogo da parte dei vicini di zona, in terzo luogo dallo Stato. Il danno
potrebbe essere risarcito, la finestra riparata, la serratura sostituita, la
parete dipinta, la perdita di tempo, a causa del fatto che l’automobile è stata
rubata, risarcita con un lavoro di giardinaggio o lavando l’automobile per
dieci domeniche di fila?
O forse, una volta iniziata questa discussione, emergerebbe che il danno
non era così rilevante come appariva nei documenti scritti per impressionare le
compagnie assicurative? La sofferenza fisica potrebbe alleviarsi un po’ grazie
a qualche azione da parte del reo, compiuta per un certo numero di giorni, mesi
o anni? Ma, oltre a ciò, la comunità aveva impiegato tutte le risorse che
avrebbero potuto offrire un aiuto? Era assolutamente certo che l’ospedale locale
non avrebbe potuto far nulla? Che dire di un aiuto da parte del custode due
volte al giorno se il reo si fosse assunto il compito della pulizia del
sotterraneo ogni sabato? Nessuna di queste idee è sconosciuta o non
sperimentata, soprattutto non in Inghilterra. Ma noi abbiamo bisogno di una
organizzazione per la loro applicazione sistematica.
Solo dopo aver superato questa fase, e potrebbero volerci ore, forse
giorni, per concluderla, solo allora sarebbe arrivato il momento per una
eventuale decisione sulla punizione. La punizione diventa, allora, quella
sofferenza che il giudice ritiene necessario applicare in aggiunta a quelle
costruttive sofferenze non deliberate che il reo proverebbe con le sue azioni
restitutive nei confronti della vittima.
Forse nulla potrebbe essere fatto o nulla sarebbe fatto. Ma i vicini potrebbero
trovare intollerabile che nulla accadesse. I tribunali locali che non sono in
sintonia con i valori del territorio non sono tribunali locali. È proprio
questa la loro difficoltà, considerata dal punto di vista di un riformista
liberale.
Una quarta fase dev’essere aggiunta. È la fase dell’assistenza al reo. La
sua situazione generale, sociale e personale, è ormai ben nota al tribunale. La
discussione sulle possibilità da parte del reo di ristabilire la situazione
della vittima non può essere portata avanti senza dare nello stesso tempo
informazioni sulla sua stessa situazione.
Questa potrebbe aver presentato bisogni evidenti di un’azione sociale, educativa,
medica o religiosa – non per prevenire un ulteriore crimine, ma per
l’intrinseca necessità di affrontare tali bisogni. I tribunali sono delle
pubbliche arene, i bisogni sono resi visibili. È importante però che questa
fase venga dopo la sentenza. Altrimenti ci troveremmo di fronte a un riemergere
dell’intero spiegamento delle cosiddette “misure speciali” – trattamenti
obbligatori –, che sono molto spesso solo un eufemismo per una carcerazione
indeterminata.
Con queste quattro fasi, i tribunali rappresenterebbero un insieme di
elementi tratti dai tribunali civili e penali, con un forte accento però posto
sull’elemento civile.
Un tribunale orientato in senso popolare
La seconda principale caratteristica del modello di tribunale che ho in
mente è quella di essere un tribunale con un grado assai elevato di orientamento
popolare. Ciò è essenziale quando i conflitti sono considerati come una
proprietà da condividere. Questo vale per i conflitti come per tante buone
cose: non ce n’è una provvista illimitata. Ci si può prender cura dei
conflitti, possono essere protetti, accuditi. Ma ci sono dei limiti. Se ad
alcuni conflitti viene dato maggiore accesso alla trattazione, ad altri ne
viene dato meno. È semplicemente così.
La specializzazione nella soluzione dei conflitti è il nemico principale;
specializzazione che in un tempo adeguato – o non adeguato – conduce alla
professionalizzazione. Ciò accade quando gli specialisti ottengono sufficiente
potere per affermare che hanno acquisito capacità speciali, soprattutto
attraverso il corso di studi, capacità così elevate da non potere essere
gestite che da specialisti certificati.
Avendo chiarito chi è il nemico, siamo anche capaci di specificare il fine;
riduciamo al massimo la specializzazione e in particolare la nostra dipendenza
dai professionisti all’interno del sistema di controllo del crimine.
L’ideale è chiaro; dovrebbe essere un tribunale di eguali che rappresentano
se stessi. Quando sono capaci di trovare una soluzione tra di loro, non c’è
bisogno di giudici. Quando non sono capaci di farlo, i giudici dovrebbero
essere loro pari.
Forse il giudice potrebbe essere la persona più facile da sostituire, se
facessimo un serio tentativo di avvicinare maggiormente i nostri attuali
tribunali a questo modello di orientamento popolare. Noi abbiamo già dei
giudici popolari, in linea di principio, ma c’è una bella differenza rispetto
alla realtà. Ciò che abbiamo, sia in Inghilterra sia nel mio Paese, è una sorta
di non-specialisti specializzati. Innanzi tutto essi vengono utilizzati più
volte. In secondo luogo, alcuni vengono persino formati, partecipano a corsi
speciali oppure si recano in Paesi stranieri per apprendere a comportarsi come
un giudice popolare.
In terzo luogo, la maggior parte di loro rappresenta anche un campione
estremamente distorto della popolazione rispetto al sesso, all’età,
all’educazione, al reddito, alla classe sociale [(5) Per la documentazione più recente,
si veda Baldwin (1976)].e all’esperienza personale come penalisti. Io immagino un sistema in cui a
nessuno venga dato il diritto di prender parte a una soluzione del conflitto
più di alcune volte, dovendo quindi attendere finché tutti gli altri membri della
comunità abbiano fatto la stessa esperienza. Questo intendo per “giudici
veramente popolari”.
Gli avvocati dovrebbero essere ammessi in tribunale? In Norvegia abbiamo
un’antica legge che proibisce loro di entrare nei distretti rurali. Forse
dovrebbero essere ammessi nella prima fase, in cui si decide se l’uomo è
colpevole. Non ne sono sicuro. Gli esperti sono come il cancro per ogni corpo
popolare. È esattamente il modo in cui Ivan Illich descrive il sistema
educativo in generale. Ogni volta che la durata della scolarità obbligatoria in
una società aumenta, si riduce
anche la fiducia della gente in ciò che ognuno ha imparato e capito da solo.
Gli esperti comportamentali rappresentano lo stesso dilemma.
C’è un posto per loro in questo modello? Dovrebbe esserci qualche posto?
Nella fase 1 (decisioni sui fatti), certamente no. Nella fase 3 (decisioni
su una eventuale punizione), certamente no. È troppo ovvio per sprecarci su
delle parole. Abbiamo la dolorosa catena di errori a partire da Lombroso,
passando attraverso il movimento per la difesa sociale sino ai recenti
tentativi di sbarazzarsi di persone supposte pericolose in base alla
valutazione di chi sono e alla previsione di quando non saranno più pericolose.
Che queste idee muoiano, senza ulteriori commenti.
Il problema reale ha a che fare con la funzione di servizio degli esperti
comportamentali. Gli scienziati sociali possono essere percepiti come risposte
funzionali a un segmento della società. La maggior parte di noi ha perduto la
possibilità fisica di fare esperienza della totalità, sia a livello del sistema
sociale sia a livello della personalità individuale. Gli psicologi possono
essere considerati come degli storici dell’individuo; i sociologi hanno in gran
parte la stessa funzione per quanto riguarda il sistema sociale. Gli assistenti
sociali sono lubrificante per tutto il meccanismo, una sorta di consiglio di
sicurezza. Possiamo funzionare senza di loro, la vittima e il reo starebbero
peggio senza?
Forse. Ma sarebbe enormemente difficile far sì che un tribunale del genere
funzionasse se fossero tutti lì. Il nostro tema è il conflitto sociale. Chi non
è messo perlomeno un po’ in difficoltà nel gestire i conflitti sociali di
qualcheduno se viene a sapere che allo stesso tavolo c’è un esperto proprio di
questa materia? Non ho una risposta chiara, solo alcune forti sensazioni che
stanno dietro a una vaga conclusione: conviene che ci sia il minor numero
possibile di esperti comportamentali da affrontare. E se dobbiamo averne
qualcuno, che non sia, per amor di Dio, uno specialista del crimine e della risoluzione
del conflitto. Che ci sia permesso di avere esperti generici con una solida
base fuori dal sistema di controllo del crimine.
E ancora un ultimo punto che ha rilevanza sia per gli esperti comportamentali
sia per gli avvocati: se riteniamo che la loro presenza sia inevitabile in
certi casi o in certe fasi, cerchiamo però di far capire loro i problemi che
creano rispetto a un’ampia partecipazione sociale. Cerchiamo di far sì che si
percepiscano come persone che costituiscono una risorsa, rispondendo quando vengono
loro poste delle domande, ma non spadroneggiando, non mettendosi al centro.
Possono essere d’aiuto nel contestualizzare i conflitti, non nel dominarli.
Traduzione di Donatella Zazzi
Gente di giustizia
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Illustrazioni di Honoré Daumier
Archivio Primo Moroni
Via Conchetta 18 – 20136 Milano
tel. 0258105688
archiviomoroni@ecn.org
http://www.inventati.org/apm
http://www.inventati.org/apm/abolizionismo
fip APM, Milano, febbraio 2011