Un cinese guarda un quadro del leader comunista Mao Zedong che dichiara la formazione della Repubblica Popolare Cinese nel 1949 |
Destra e sinistra: senza non c’è
più politica
Se non c’è più destra e sinistra, non c’è più la politica. Resta, allora, il pensiero
dominante – che oggi è quello dell’economia liberista e del capitalismo
finanziario – al di fuori del quale non è possibile andare. Il governo
della cosa pubblica si riduce ad amministrazione dell’esistente, al fare i
compiti a casa che ci detta l’Europa. La politica viene espulsa, in quanto
rissoso spazio inefficiente e dannoso. Ad essa subentra la tecnica dei presunti
esperti o dei professori, che decidono solo come percorrere strade già
tracciate. La democrazia stessa non serve più a nulla, additata ad elemento di
disturbo dei “mercati”, che assurgono come unico metro
valutativo dell’amministrazione tecnica.
La politica è lo spazio delle scelte, della possibilità di governare il cambiamento e
– per chi è di sinistra (io sono comunista!) – di trasformare la società.
La politica, il governo della cosa pubblica, non è il perseguimento del
“bene comune”. È un durissimo scontro di interessi – quasi sempre contrapposti
– tra le diverse componenti della società. Mettere una patrimoniale o aumentare
le tasse ai lavoratori dipendenti sono entrambe misure che fanno crescere le
entrate dello Stato, ma colpiscono soggetti sociali diversi. Bisogna scegliere.
In questi anni di crisi la scelta è sempre stata di far pagare i soggetti
sociali più deboli (lavoratori, disoccupati, precari, pensionanti) e di salvare
e aiutare le banche e i detentori di grandi redditi, rendite e capitali.
La sinistra è – dovrebbe essere – quella forza politica che sceglie di stare
dalla parte dei lavoratori, ovvero dei soggetti sociali (delle classi)
più deboli – più deboli poiché non dispongono del medesimo potere contrattuale
del datore di lavoro, perché non posseggono grandi mezzi d’informazione,
perché sono fuori dai palazzi che contano. La sinistra è – dovrebbe essere – la
parte politica che sceglie di redistribuire la ricchezza, ridurre gli
squilibri, perseguire la giustizia sociale, aumentare – non ridurre – i
diritti. Per fare ciò deve – dovrebbe – battersi contro le ingiustizie della
società, enormemente accresciute dopo decenni di neoliberismo.
Più in particolare i comunisti italiani: da Togliatti a Berlinguer
– sono quelli che hanno sempre cercato di trasformare la nostra società, per
rimuovere gli ostacoli che impediscono l’uguaglianza dei cittadini (come recita
la nostra Costituzione).
Le destre, per contro, sono il partito delle idee dominanti al servizio della classe
dominante. Sono le forze che difendono le élite al potere e, al
contempo, cercano di accrescere per esse gli spazi di potere politico,
economico e sociale. Nella politica del ‘900, della contrapposizione bipolare,
le destre – in Europa e in Italia – erano sulla difensiva, costrette a fare
concessioni per scongiurare il “pericolo rosso”. Negli ultimi vent’anni –
all’indomani della fine della prima Repubblica, non a caso coincidente con l’ascesa
di Berlusconi – sono passate all’attacco e hanno sostanzialmente
smantellato – una per una – tutte quelle “concessioni” che avevano fatto (dalla
scala mobile alle pensioni, dai diritti per i lavoratori allo stato sociale, e
così via, di controriforma in controriforma).
Nella foga della retorica nuovista si dice che destra e sinistra siano
distinzioni che non hanno più senso. I populismi fingono di attaccare l’una e
l’altra parte con l’argomento del “tanto sono tutti uguali”:
sono i migliori alleati (inconsapevoli?) delle destre, di coloro che, appunto,
difendono e fanno avanzare le idee dominanti. Perché criticando tutti eliminano
la possibilità di scegliere da che parte stare. Il nuovo finisce, così, per
essere funzionale al vecchio, a chi detiene le redini del potere nella società,
alle idee fallite del neoliberismo e del capitalismo finanziario.
Ciò non significa che la sinistra in Italia non sia stata e non sia esente
da errori. O che parte della sinistra non abbia assecondato in modo acritico il
pensiero dominante. Ricostruire la sinistra in Italia è il nostro cimento e in
essa tenere viva l’esperienza dei comunisti in Italia.
Si può uscire dalla crisi neoliberista da sinistra –
stando dalla parte del lavoro e dei diritti – o da destra, con la definitiva
vittoria dell’economia sulla politica, del privato sulla democrazia.
Commento di
Sergio Ghirardi:
Il suo idealismo (io sono comunista!) zoppica quanto il
suo manicheismo che riduce la politica alla logica binaria destra - sinistra.
Nessuno dubita ( almeno non io) che lei sia di sinistra e che sogni
sinceramente una società comunista. Solo che da Freud in poi (un borghese
terrorizzato dal movimento operaio ma che ha avuto alcune idee rivoluzionarie,
dall'inconscio al super io) i sogni vanno interpretati sia sul piano
individuale che su quello sociale.
Il vostro comunismo è stato storicamente
controrivoluzionario in Russia, in Ucraina, in Spagna ecc. Voi avete ereditato
dai bolscevichi il gusto di appropriarsi delle idee precedentemente combattute
(i bolscevichi sono stati ferocemente contro i soviet fino al 1917 per poi
recuperarli nella macabra caricatura autoritaria del PCUS e del suo Comitato
centrale).
Nel 68,
in particolare in Francia ma non meno in Italia, avete
combattuto il movimento delle occupazioni e il progetto di democrazia diretta
che le animava, tacciandolo di avventurismo e opponendogli l'elefantismo
burocratico di un PCF/PCI tronfiamente stalinisti. Via via i migliori comunisti
sono usciti dal partito dopo Budapest, altri, accompagnati dal santino di
Berlinguer, dopo Praga poi a ondate successive molti altri - dal Manifesto a
diversi altri gruppuscoli postsessantottini, ininfluenti ma non completamente
obnubilati dal clericalismo alla Peppone di cui Napolitano è un ultimo
sopravvissuto -, adepti ormai consci che la burocrazia pseudocomunista stava
diventando storicamente impraticabile.
Mentre i rivoluzionari della vita quotidiana denunciavano
lo scandalo di un vecchio mondo fondato sull'alienazione del lavoro salariato,
i più devoti hanno tuttavia trovato ancora il tempo di fare l'occhietto al
fascismo rosso maoista o all'invasione dell'Afganistan, ma riconosco che non so
esattamente quando la sua biografia l'ha svegliata dall'incubo spettacolare
dell'ideologia pseudocomunista per lanciarla verso il lavoro salariato di
comunista parlamentare fatto di opposizione ultraminoritaria ai Talk Show o di
partecipazione a governi capitalistici di centrosinistra, magari ancora nella
fede che la coscienza si porti dall'esterno.
La cultura dominante è sempre la cultura della classe
dominante di cui i burocrati fanno parte integrante, mentre in Italia e in
Europa la fine del comunismo ideologico non ha ancora prodotto e depositato la
critica teorica definitiva dell'ideologia comunista funzionale al vecchio mondo
in decomposizione e al capitalismo che lo domina.
LE RICORDO, in proposito CHE IL PENSATORE STORICO DELLA
TEORIA DEL PROLETARIATO - Karl Marx - AMAVA RIPETERE: "Una cosa è certa io
non sono marxista".
Viva dunque la dialettica, compagno, che va OLTRE I SOGNI
CHE POSSIAMO CONDIVIDERE, coscienti, però, che nella prassi storica i filosofi
dovranno decidersi in fretta a smettere di interpretare il mondo per cominciare
a cambiarlo a partire dalla vita quotidiana. Purtroppo siamo all'urgenza, e la
prego di non cogliere niente di personale nella mia critica di proletario che
si nega a un proletario che si afferma...
Credo sinceramente che la POLITICA, tra l’altro,
ricominci proprio dalla denuncia della falsa opposizione tra destra e sinistra
e dalla riapertura degli spazi per un'utopia concreta ANTIPRODUTTIVISTICA che
nessun burocrate, nessun prete, nessun consumista e, in sintesi, nessun
capitalista potrà eliminare senza eliminare al contempo l'umanità intera.