Come ho già avuto
occasione di scrivere, i referendum previsti dall’art. 75 della
Costituzione italiana hanno segnato alcune fondamentali e positive tappe della
nostra Repubblica, suggellando con il loro svolgimento alcune conquiste
irrinunciabili, come l’allontanamento dell’odiosa monarchia,
l’ottenimento del divorzio, quello dell’aborto e da ultimo il fragoroso no alla
privatizzazione dell’acqua pubblica (su cui la Corte costituzionale ha
richiamato di recente l’attenzione vanificando almeno per il momento il
tentativo in cui si sono prodotti vari personaggi da Aledanno a Napolitano junior
di eludere la volontà popolare), al nucleare e al cosiddetto legittimo
impedimento, uno dei tanti penosi stratagemmi con i quali Berlusconi ha provato
e continua a provare a sfuggire alla giustizia che prima o poi avrà la sua
pelle e quella dei suoi complici.
Le proposte di referendum depositate di recente da Antonio
di Pietro e dall’IdV segnano però un ulteriore passaggio nella storia
democratica del nostro Paese, quella, per intenderci che si svolge su di un
piano esattamente contrapposto alle costanti trame delle caste e dei gruppi di
potere. Si tratta infatti di utilizzare l’istituto referendario per
respingere un insidioso attacco ai diritti delle lavoratrici e dei lavoratori del
nostro Paese, restaurando l’art. 18 che, nonostante il disaccordo della
cultura giuridica democratica, un composito schieramento sorretto dal diabolico trio
ABC ha voluto cancellare di recente, nella demenziale convinzione che i veri
problemi dell’economia italiana sarebbero costituiti da un’ipotetica eccessiva
garanzia dei posti di lavoro. Gli altri quesiti contestualmente presentati
riguardano la libertà di contrattazione, eliminata dell’art.8 del
decreto-legge n.138 del 2011 e la soppressione totale del finanziamento
pubblico ai partiti e della diaria dei parlamentari, in un’ottica di
risanamento morale della sfera politica esattamente opposta a quella
dei furbetti ABC che in questi giorni si sono attribuiti, con la faccia tosta
che li contraddistingue, nuove prebende.
Come ha spiegato in modo convincente il responsabile lavoro dell’IdV, Maurizio
Zipponi, in un’intervista rilasciata al Manifesto del 4
agosto, l’impresa, consistente nel raccogliere almeno 700.000 firme tra
l’inizio di ottobre e la fine di dicembre, è aperta a chiunque voglia
effettivamente battersi per i diritti del lavoro, primi fra tutti i sindacati,
come la Fiom, ma
anche l’Usb ed altri, che lo hanno fatto in questi ultimi mesi, contrastando
l’attacco senza precedenti portato da Monti, Fornero e co. al salario, alle
pensioni, all’occupazione e ai diritti civili nelle fabbriche e nei luoghi di
lavoro.
Ci sono in effetti a ben vedere dei precedenti, come il referendum
a favore della scala mobile, respinto al tempo del governo del cleptomane
Craxi, o quelli promossi da Democrazia proletaria ancora prima contro la
sterilizzazione della contingenza sulla liquidazione e per l’estensione dello
statuto dei lavoratori alle piccole aziende. Ma per la fase di crisi acuta che
sta vivendo attualmente il nostro Paese i referendum promossi
dall’Italia dei valori assumono davvero una portata dirimente. Fra due
concezioni del mondo: quella secondo la quale colpevoli della crisi
sono lavoratori e cittadini che “vivono al di sopra dei propri mezzi” e quella
alternativa secondo la quale invece la crisi è il risultato della
deregolamentazione spinta della sfera finanziaria, del gigantesco spostamento
di reddito dal lavoro verso la rendita finanziaria e i profitti, e delle
politiche recessive che sono state messe in piedi per trovare un’illusoria
soluzione a quanto determinato dai primi due fattori ora elencati.
Per chi si ostina, in nome di una concezione per la verità alquanto
aristocratica e astrusa di sinistra, a negare tale etichetta a una forza come
l’Italia dei valori, può essere un’occasione di riflessione e di uscita da
schemi identitari sterili e perdenti. Oggi è di sinistra chi si batte per
l’affermazione del lavoro, per la difesa del reddito della grande maggioranza
dei cittadini, ridotti in molti casi alla povertà, per la liquidazione dei
privilegi e per l’estensione delle garanzie giuridiche. E da qui
occorre ripartire, liberandosi di scorie ed opportunisti.
Le lotte operaie che si stanno svolgendo un po’ ovunque nel Paese, dalla
Sardegna (Alcoa) a Taranto (Ilva) alla Fiat dell’antinazionale Marchionne,
dimostrano che esiste ancora una massa di gente che si ostina a non inchinarsi
di fronte ai folli progetti di privatizzazione, svendita e miseria portati
avanti dal signor Monti e dalla casta. Che c’è un’alternativa al suicidio
individuale e colettivo. Ad esse si uniranno quelle dei giovani per la difesa
della scuola e dell’università, della cultura e della ricerca e per il salario
garantito. L’autunno, ci si può scommettere, sarà caldo. E
referendario. Occorre costruire, nel fuoco di questa lotta, una nuova forza politica che sappia realmente trasformare
l’Italia, superando ogni logica di micropotere e parrocchia, purtroppo diffusa
anche a sinistra.
Commento di Sergio Ghirardi:
E' comprensibile l'esigenza di una rimessa in discussione
della situazione attuale da parte di una "nuova forza politica ", la
quale deve forse trovare, però, il coraggio di abbandonare le boe ideologiche
costituite da parole sgonfie di senso, annichilite dal tempo della sconfitta
storica del movimento operaio e dall'alienazione sociale che lo ha contraddistinto.
Quando il concetto di sinistra è nato, agli albori del
parlamentarismo, includeva in un unico calderone riformismo e rivoluzione
sociale. Fino al primo dopoguerra postfascista - limitiamoci all'Italia ma lo
stesso vale a livello internazionale - la sinistra variava ampiamente sulle
strategie, ma aveva come sbocco ultimo l'abbandono e il superamento del
capitalismo. Oggi tutto quel che (in un bailamme ideologico senza limiti) si
definisce di sinistra - dai cinici professionisti della politica agli ingenui
tifosi da blog - ha zittito ogni sentimento radicale mentre ogni razionalità
utopica è scomparsa. Estremismo ideologico e intima sottomissione al diktat
produttivista uniscono gli schiavi proletarizzati di un pianeta in perdizione
in preda a una guerra incivile sempre meno larvata.
Allora, forse, senza scadere nel nominalismo, "la
nuova forza politica " che da mezzo secolo si sforza di emergere tra
metamorfosi contorte e confuse, sistematicamente recuperata e inquinata da
ideologi vari, deve ripartire dalla base, dalla vita quotidiana, da una
democrazia consiliare assolutamente critica dello spettacolo sociale tanto di
sinistra (spettacolo concentrato, statalista e produttivista - pseudocomunismi
e socialismi vari, autoritari e corrotti) che di destra (spettacolo diffuso
liberale, consumista e culturalmente fascista - la "civiltà
occidentale" con tutti i suoi stati uniti canaglia esportatori armati
della corruzione pseudodemocratica di destracentrosinistra : ABC docet).
La questione non è dire o fare qualcosa di sinistra ma
diventare i soggetti di un nuovo internazionalismo che includa tutti i dannati
della terra decisi al rovesciamento di prospettiva che da mezzo secolo lo
spettacolo dominante imbastiglia per far durare il totalitarismo economicista.