Mentre i tifosi si scannano a colpi di
tastiera e gli ultimi patetici capi esercitano una supremazia sempre più
ridicola, la breccia finalmente positivamente aperta nella liturgia repressiva
del parlamentarismo invita a mettere a fuoco i passi da fare.
Il movimento spontaneo d’emancipazione
canalizzatosi in buona parte nel M5s, spinto ancora confusamente dalla sua
anarchica deriva di libertà verso il cambiamento, ha come obiettivo minimo e insostituibile
la creazione di un governo di democrazia reale.
Così come i vari Occupy tentano di
riprendersi il mondo altrove, anche gli italiani, sopravvissuti a una guerra
economica dichiarata senza il loro consenso, si stanno occupando, con corpi strappati
alla disperazione e volontà di vivere, a riprendersi gli spazi vitali confiscati
dalla società dello spettacolo produttivistica.
Tutto resta assolutamente in bilico, incerto,
come un corpo su un precipizio che vede oltre il guado un mondo nuovo apparire;
tuttavia, contro l’inondazione dell’alienazione capitalistica, uno tsunami
inarrestabile si propone finalmente un superamento epocale come ultima spes e prima ricostruzione del
senso della vita.
Alla fine dei privilegi sociali contro
i quali si erano sollevati il popolo e la borghesia rivoluzionaria del
diciottesimo secolo, si è sostituita oggi l’abrogazione necessaria dei
privilegi di casta dei servitori volontari della società spettacolare-mercantile. Alla dissoluzione
dell’Ancien Régime autocratico avvenuta due secoli fa, si è sostituita oggi la
dissoluzione del parlamentarismo burocratico in nome di un’autogestione
generalizzata della vita quotidiana.
Per andare concretamente in questo
senso, però, bisogna costruire la struttura capace di restituire agli individui
la loro capacità autonoma di organizzare la vita sociale e solo una drastica rilocalizzazione
della politica renderà ciò possibile.
Lo Stato è la trappola secolare in cui
il potere ha costituito il suo impero miltinazionale globalizzato. Altro che
Stato con le palle, qui si tratta di ritornare al Comune e alle assemblee
comunali in cui i cittadini reali decidano finalmente dei problemi reali per
collegare le strutture delle comunità locali con la rete planetaria di un’umanità
finalmente fraterna e solidale. Lo Stato non è più nulla, sta a noi essere
tutto!
La politica deve tornare a essere
organizzazione della convivialità e non dello sfruttamento. Tutti devono poter
fare politica, cioè decidere della propria vita su tutti gli aspetti che li
riguardano. Non è un obbligo. È un diritto primario al quale si può liberamente
rinunciare, ma dal quale non si può essere rimossi con nessuna formula di
rappresentatività autonomizzata e gerarchizzante. Nessuno deve essere eletto se
non per trasmettere a un più gran numero le volontà dei propri elettori locali.
Ogni decisione personale deve restare tale ma nulla vieta di delegare
puntualmente a degli individui di fiducia - perché sempre sfiduciabili - la
planetarizzazione progressiva delle questioni e delle soluzioni più generali.
Qui s’innescano le lamentazioni
interessate e ideologiche dei servitori volontari addomesticati: siamo troppi
per una democrazia diretta!
Come se ognuno dovesse decidere sempre
di tutto in prima persona per essere libero e autonomo!
Passando progressivamente dal locale
al planetario, la democrazia diretta s’avvale evidentemente di deleghe e di
tecniche come la rete per rendere possibile il suo funzionamento. Si tratta da
un lato di mantenere un controllo collettivo esemplare sui comportamenti di
ogni delegato e dall’altro di ridurre il più possibile gli argomenti di
discussione lasciando la libertà di scelte diversificate la più ampia
possibile. Tutto è da discutere, niente è vietato a priori né obbligato finché
non diventa una necessità comune riconosciuta.
Niente Stato dunque, questo vampiro dittatoriale
che succhia il sangue dei suoi presunti sovrani popolari in loro nome, ma
comunità d’intenti e massima diversità di realizzazioni.
Solo quando un contrasto crea un
blocco del funzionamento collettivo si pone il problema della pratica
democratica e, dal Comune alle Nazioni Unite riumanizzate, si dovrà cercare e
trovare l’armonizzazione necessaria e la soddisfazione sufficiente e solidale.
I problemi non mancheranno certo, ma saranno quelli di uomini liberi e non di
schiavi alienati, depressi e vendicativi.
Sono consapevolmente convinto che una
volta superato il blocco orgastico e la paura della libertà dominanti, la
pratica della teoria diventerà molto più facile. Convinzione da verificare,
naturalmente, con tutta la diffidenza cui c’invita il principio di precauzione,
ma di fronte alla catastrofe in atto non ci sono da perdere che le proprie
catene invisibili di spettatori-consumatori.
La peste emozionale circola a vagoni
per impedire il godimento di essere al mondo con fraterna autonomia e
creatività. Comunque, l’uscita dal parlamentarismo verso una società altra e migliore
passa per il riconoscimento di microsocietà
“neofamiliari” (gruppi di affinità nel quotidiano probabilmente di non
più di una ventina di persone in contatto reciproco nell’intento di allargarsi
a macchia d’olio e perché no anche a macchia di vino e di cibi prelibati da
condividere in feste gioiose) spontaneamente emergenti dal locale al planetario,
in un tessuto di complicità non competitive ma solidali. Il tutto non perché è moralmente
giusto (anche se lo è) ma perché così si gode tutti di più e soprattutto meglio.
Lo Stato deve dissolversi nella
nazione (una nazione liberata da nazionalismi beceri e dementi supremazie
razziali) senza che la comunità reale perda un grammo della capacità
organizzativa degli individui sociali che la compongono.
Questo significherà la fine del
patriarcato e il ritorno della centralità femminile senza poteri gerarchici.
L’assemblea, il soviet, il consiglio,
al di là di tutte le ideologie è il magico luogo – agorà - in cui si crea collettivamente il consenso a forza di
scambi, di doni e di discussione. È la vita quotidiana che vedrà
nell’autogestione generalizzata la realizzazione della società umana oggi
inesistente.
Niente garantisce che riusciremo in
questo poetico intento ma è certo che io preferirei aver torto con queste idee pratiche
piuttosto che ragione con l’ottusa logica meccanicista del dominio predatore e
orgasticamente impotente. La vita è bella se la si vive.
Ci vogliamo provare a rendere
possibile l’altro mondo che è in noi o preferiamo morire di noia e ben presto
pure di fame e d’inquinamento?
Sergio Ghirardi