mercoledì 27 marzo 2013

LA STRATEGIA DELLO SCIOCCO






 Grillo, i commenti e gli schizzi di merda (e di democrazia)

 

di S. Feltri sul FattoQuotidiano del 24 marzo


In attesa di Gaia, delle apocalissi, della democrazia della rete preconizzata da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, dobbiamo accontentarci di quella che abbiamo. Il peggiore di tutti i sistemi tranne gli altri, come noto (dove tra gli altri, per il momento, dobbiamo includere la democrazia del web).
Beppe Grillo non ama il contraddittorio. Preferisce la modalità di comunicazione top-down, palco-pubblico. Che funziona bene quando dall’altra parte ci sono masse adoranti ed entusiaste, invece che capannelli di discussione. Ora se la prende dal suo blog contro gli “schizzi di merda” digitali che sarebbero i commenti che gli chiedono di sostenere il Pd, che sostengono che Pietro Grasso e Renato Schifani non sono la stessa cosa, che annunciano di smettere di votare 5 stelle e così via.
Poi il leader critica i media che scorrono i commenti, scelgono quelli più adatti alla tesi che devono sostenere e annunciano che “il popolo del web si spacca”. Su questo ha ragione. Perché i media non riescono (ancora) a raccontare la politica che passa per il web. Ma è stato anche lo stesso Grillo, che considera il web una divinità da venerare e non uno strumento, ad averli sobillati enfatizzando tanto spesso la democrazia della rete.
Gli errori che compiono i media sono dovuti agli stessi equivoci che spingono Grillo a considerarsi l’apice della democrazia dal basso invece che un leader monocratico.
1. Il popolo del web non esiste. Su Internet ci andiamo tutti. Tutti abbiamo un account Facebook, centinaia di migliaia di persone sono su Twitter. Quando i giornali parlano del “popolo del web” o quando Grillo parla della “Rete” dicono entrambi una cosa assurda. E’ come dire “il popolo della Metropolitana”, “le masse di tram”, “la classe dei pedoni”. Non c’è un particolare gruppo di italiani che frequenta Internet. E “la Rete” non esiste separatamente da coloro che la usano.
2. Le statistiche valgono anche in Rete. Ai giornali e alle tv piace molto lanciare “sondaggi” on line e poi presentarne i risultati come se fossero derivanti da sondaggi veri. Non hanno alcuna valenza statistica, i campioni non sono rappresentativi e non c’è lavoro sui dati. Grillo ha contribuito in modo rilevante a far passare l’idea che in rete valgano regole diverse che nel mondo reale (per esempio lui considera i suoi 30mila votanti a parlamentarie chiuse come un esempio migliore dei 3milioni alle primarie del Pd). Invece le regole sono le stesse. Se io urlo dalla finestra “Pensate che il movimento 5 stelle debba allearsi con Bersani?”, magari due passanti mi rispondono di sì, uno di no e uno tace. Ma non per questo posso dire che il 50 per cento degli italiani è a favore dell’alleanza Pd-M5S. Per le stesse ragioni non ci si può affidare ai commenti di un blog come termometro statistico.
3. Le orde di troll e quelle dei guerrieri della verità. Se un commentatore sostiene la tua tesi è un onesto cittadino che cerca di far trionfare la verità, se dice cose sgradevoli è un troll (che per i profani significa un commentatore che ha l’obiettivo di boicottare la discussione invece che contribuirvi). Questo schema mentale vale sia per Grillo che per i crociati anti-grillini che vedono dietro ogni critica un complotto dell’onnipotente azienda Casaleggio e associati. Per quel che vale la mia esperienza, molti commentatori ossessivi compulsivi che insultano gli altri e intasano di volgarità il nostro sito difendono Grillo e il M5S. Ma non saprei dire se sono orde di troll o di guerrieri del bene.
4. La Rete non ha un cervello. Quando i parlamentari grillini affermano “chiederemo alla rete chi votare come presidente della Repubblica” dicono, semplicemente, un’idiozia. Cosa pensereste di un deputato Pdl che dicesse “Chiederemo alla strada chi indicare”. O di uno del Pd che affermasse “faremo scegliere all’illuminato popolo dei giornali tra Prodi e Amato”? Direste che sono ingenui, ubriachi o in malafede. La Rete non ha un cervello, le consultazioni in web sono sempre meno democratiche di quelle “fisiche” perché è enormemente più facile alterarle. L’unico vantaggio che hanno è di essere potenzialmente aperte a tutti. E infatti Grillo, quando ha dovuto fare una consultazione virtuale con un effetto concreto (le parlamentarie), le ha chiuse il più possibile.
5. Ma le persone sì. Google ha imposto un nuovo paradigma: non è vero ciò che è vero ma ciò che la maggioranza pensa che sia vero. Il motore di ricerca non ti offre la risposta giusta, ma quella che pensa tu stia cercando sulla base delle richieste degli altri. Ma il fatto che molte persone siano convinte di qualcosa (tipo che la crisi è tutta colpa del Bilderberg, del signoraggio, degli ebrei, della Trilaterale, degli alieni, o che i vaccini fanno male e che abbiamo micorchip sotto pelle impiantati dalla Cia…) non significa che sia vero. Essere connessi non rende intelligenti. Ma avere a disposizione tutte le informazioni del mondo però toglie molti alibi agli stupidi, agli ignoranti, alle persone volgari.
6. I rappresentanti rappresentano. Quando il Movimento 5 stelle ha deciso di diventare un partito (e non dite di no, c’è anche lo statuto registrato dal notaio e ci sono i gruppi parlamentari) ha implicitamente accettato le regole della democrazia rappresentativa. Se io voglio sapere la posizione del Pd su qualcosa, ascolto Bersani oppure uno degli altri eletti o dirigenti titolati a parlare a nome del partito. Perché nella democrazia rappresentativa loro rappresentano, con tutte le approssimazioni che sappiamo, le idee di chi si riconosce nel centro sinistra. Ma se io chiedo qualcosa a un deputato del Movimento 5 stelle, quello di solito risponde citando “Beppe” oppure dice che decide la Rete o cose così. Non c’è altra informazione ufficiale che non i post del leader. E, non essendoci alcun processo decisionale esplicito, è impossibile avere informazioni se non dal sito. Ma se tutto passa da lì, come può stupirsi Grillo che i giornalisti considerino i commenti ai post più rilevanti delle dichiarazioni fumose dei suoi eletti?
E ora apro l’ombrello, perché mi pare di sentire le orde di troll in marcia verso questo post, pronte a sommergermi dei suddetti schizzi.


Altro che schizzi: tutti sotto, la ricreazione è finita.



Commento di Sergio Ghirardi all’articolo di Feltri.



Nel mio auscultare brevemente, spero senza concessioni, il pezzo di Feltri, non c’è niente di personale, visto che Feltri non lo conosco e la sua identità apparente mi lascia perfettamente indifferente. C’è invece la volontà di farne un indicatore di controinformazione teorica per smantellare, a monte del buon senso economicista a tanto al chilo, la struttura politica ben più che filosofica di un pensiero ideologico ormai planetariamente diffuso. Il peggio di un tale argomentare al quale cerco di oppormi, è che si fa sistematicamente passare per oggettivo e razionale mentre il suo razionalismo imbedded - consciamente o no - serve solo, vergognosamente, al sistema dominante.
Hegel notava argutamente che “il noto proprio perché noto non è conosciuto”. Ciò è particolarmente vero oggi per un concetto usato e abusato fino a farlo passare per quel che non è, togliendogli invece quello che lo caratterizza. Sto parlando della “democrazia”, diventata il tema dominante di un secolo nato sotto il segno del totalitarismo economicista trionfante.
In merito, i testi teorici da consultare, da riflettere e da superare non mancano, da quasi due secoli fino a oggi, per non rinviare sempre alla solita Grecia antica. Eppure, niente da fare: gli economisti, teologi del materialismo del valore di scambio, di cui Feltri è un piccolo esempio giornalistico tra i tanti, si gargarizzano spesso e volentieri di democrazia, liberi poi di pulircisi i piedi al minimo richiamo all’ordine redditizio da parte di un materialismo non solo volgare ma anche e soprattutto cinico perché ragiona sulla pelle di quella maggioranza che l’economia deruba e sfrutta senza ritegno.
Il populismo è subito invocato come un mantra al primo stormir di fronde di una qualunque contestazione radicale della democrazia spettacolare del sistema dominante. In realtà, nel suo senso deteriore di “uso di una retorica che accarezza il popolo nel senso del pelo per meglio fotterlo“, esso è l’appannaggio quasi esclusivo di quanti hanno sempre in bocca il destino dei meno abbienti per meglio conservarli nel loro ruolo di proletari, cioè di nullaoquasialtrotenenti se non di una forza lavoro, per di più totalmente svalutata sul mercato planetario.
Il dio progressista degli economisti (e altri faccendieri mediatici, burocrati, legislatori e poliziotti) si chiama benessere . In prospettiva lo star bene è previsto per tutti ma, come per ogni paradiso, sarà ottenibile dai più solo in futuro a prezzo di enormi sacrifici nella valle di lacrime del presente. Come tutte le divinità del vecchio mondo, facili totem propagandistici di concezione religiosa, il progresso finisce sempre per stare dalla parte di chi ha l’esercito più forte e la polizia, la cultura, le istituzioni e le banche dalla sua.
Per il bene di tutti, i progressisti vogliono andare sempre avanti, è nella loro natura. Non concepiscono dunque di fermarsi mai, se non con ampie garanzie di riprendere subito e ancor meglio il cammino nello stesso senso. Per quanto evidente di necessità, ogni decrescita puntuale è per loro sempre indice di conservatorismo se non di reazione; è un assurdo ritorno alle origini cui opporsi in nome della civiltà, dunque “viva la muerte”, in un nichilismo schizofrenico, intriso di eroismo apocalittico, vera e propria orgia pubblicitaria, fascista e antifascista nello stesso tempo.
Per questi ottimisti civilizzatori a tassametro, decidere di interrompere la corsa verso l’abisso sarebbe una barbarie, una mancanza di coraggio buona solo a ostacolare il sacrosanto progresso. I precipizi, del resto, sono solo invenzioni catastrofiste immaginate dai nemici del progresso. Poco importa se gli tsunami sono ormai tutt’altro che virtuali: i populisti esecrabili sono tutti quelli che vogliono cambiare sistema, non quelli che lo difendono tramite un delirante razionalismo morboso che mette sempre, coraggiosamente, in gioco per primo il culo degli altri (per forza, nel vostro giardino, democraticamente, dalla Val di Susa a Fukushima).
Il PIL val bene una messa a Chernobyl.
I servitori volontari di questo sadomasochismo redditizio per pochi, trovano, tra i molti che lo subiscono, la maggioranza democraticamente necessaria di malati di una sindrome di Stoccolma della servitù volontaria.
L’ipotesi di cambiare direzione diventa dunque blasfema, o ancor peggio, sovversiva, per adeguarsi ai parametri più moderni della morale economica. Ne consegue un dato incontestabile: tutti sotto, la ricreazione è finita.
Paternalisti del nulla saggiamente contemplato, seduti su confortevoli poltrone politiche o mediatiche, pagati abbastanza per preoccuparsi davanti a un caffè di chi neppure più il caffè può permettersi (niente da fare, sono stato contaminato anch’io dal populismo), i nostri beneamati decisionisti, pur di non ascoltare i “populismi” di chi dice: “ora basta!”, finiscono per consigliare a chi non ha pane di mangiare brioche, come neppure la regina Maria Antonietta aveva osato.
Non che dire “ora basta” sia sufficiente, né che garantisca che si hanno alternative da proporre, ma diffidare spasmodicamente degli “ora basta” quando non se ne può più, equivale a chiedersi se l’acqua con cui si cerca di spegnere un fuoco è potabile o no. Lodevole sensibilità ecologica, certo, ma fuori posto, soprattutto se proclamata da chi ha contribuito a innescare l’incendio.
Churchill viene sempre a fagiolo per tirare il freno a mano della Storia confiscata da almeno mezzo secolo dai servi sciocchi e mercenari del capitalismo: la democrazia è il meno peggio dei governi, così come la libertà finisce sempre dove comincia quella altrui.
Vecchi proverbi idioti di una borghesia ridotta a fantasma di se stessa, ma utili per nascondere che la libertà non può essere che condivisa e quindi cominciare dove comincia quella altrui. Cominciare, cioè, da una democrazia reale che non può nascere che sulle rovine degli Stati e del Mercato finalmente gettati nella spazzatura della Storia.
Da destra a sinistra, queste due mani simmetriche del Frankenstein capitalista, si fa a gara per azzerare la coscienza riducendola a libertà individualista opposta a un altrettanto assurdo collettivismo, del resto sempre più timido se non in tempo di crisi.
Liberalismo e collettivismo, Stato e Mercato, qualunque sia il dosaggio proposto, restano comunque gli ingredienti velenosi di un becero manicheismo che trasforma la critica radicale dell’economia politica in un’ideologia interna all’ECONOMIA TOTALITARIA.
Da due secoli, l’idea dell’emancipazione è in mano ai servi di un potere sempre più autonomo dagli uomini che l’hanno inventato, ed è usata per rendere l’emancipazione impossibile. Dei diritti dell’uomo usati di fatto per rendere inalienabili i diritti della merce, sono diventati il perno su cui ruota il paradigma fondante dell’organizzazione sociale.
Questo paradigma, finora i filosofi (e gli economisti, ancelle teologiche, cioè filosofi senza filosofia) si sono accontentati di interpretarlo, ora si tratta di cambiarlo.
Una tale rottura sarebbe foriera dell’emergere concreto dei diritti dell’essere umano - uomo, donna, bambino - allargati a tutto il vivente, dalla natura globale all’infinitamente piccolo, in un’armonia d’intenti che dà senso umano alla vita come sinfonia moderata cantabile.
Si tratta innanzitutto del ripristino concreto, nella dimensione locale, di una comunità sociale tanto reale che molteplice e moltiplicabile all’infinito.
La riduzione alla rete di questo cambiamento è un’idiozia lobotomica; è la menzogna più ottusa e il miglior regalo che i cittadini in rivolta potrebbero fare al sistema dominante. Nessuna rete potrà mai sostituire la comunità reale mentre una comunità reale finalmente ricostituita potrà abbondantemente usufruire della rete come di un utensile di cui usare e diffidare, come di tutti gli utensili.
Aiutato dalla confusione che ancora alberga tra gli esploratori di un nuovo mondo possibile, tutto questo un economista deve rimuoverlo, ignorarlo, caricaturarlo e combatterlo perché il suo Frankenstein produttivista deve alzarsi e camminare per andare al lavoro, per spingere un carrello di supermercato, per alzare alternativamente la destra o la sinistra e intonare ogni tanto l’inno della sua tragica patria planetaria spettacolar-mercantile.
Chi attende Grillo per adorarlo o esecrarlo e non conta su se stesso, sui propri desideri, sul proprio “ora basta” e sulla proposta concreta di una nuova organizzazione della vita sociale, che voti o no, per questo o per quello, è un cadavere che cammina sul sentiero della sudditanza.
Quel che è in gioco oggi è la fine dei vecchi giochi perversi per l’inizio di un libero gioco della vita di cui gli economisti sono tra i carcerieri più odiosi.