Grillo, i commenti e gli schizzi di merda (e di democrazia)
di S. Feltri sul FattoQuotidiano del 24 marzo
In attesa
di Gaia,
delle apocalissi, della democrazia della rete preconizzata da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio,
dobbiamo accontentarci di quella che abbiamo. Il peggiore di tutti i sistemi
tranne gli altri, come noto (dove tra gli altri, per il momento, dobbiamo
includere la democrazia
del web).
Beppe
Grillo non ama il contraddittorio. Preferisce la modalità di comunicazione
top-down, palco-pubblico. Che funziona bene quando dall’altra parte ci sono
masse adoranti ed entusiaste, invece che capannelli di discussione. Ora se la
prende dal suo blog contro gli “schizzi
di merda” digitali che sarebbero i commenti che gli chiedono di sostenere il Pd, che
sostengono che
Pietro Grasso e Renato Schifani non sono la stessa cosa, che annunciano
di smettere di votare 5 stelle e così via.
Poi il
leader critica i media che scorrono i commenti, scelgono quelli più adatti alla
tesi che devono sostenere e annunciano che “il popolo del web si spacca”. Su
questo ha ragione. Perché i media non riescono (ancora) a raccontare la
politica che passa per il web. Ma è stato anche lo stesso Grillo, che considera
il web una divinità da venerare e non uno strumento, ad averli sobillati
enfatizzando tanto spesso la democrazia della rete.
Gli errori
che compiono i media sono dovuti agli stessi equivoci che spingono Grillo a
considerarsi l’apice della democrazia dal basso invece che un leader
monocratico.
1. Il
popolo del web non esiste. Su Internet ci andiamo tutti. Tutti abbiamo un account Facebook,
centinaia di migliaia di persone sono su Twitter. Quando i giornali parlano del
“popolo del web” o quando Grillo parla della “Rete” dicono entrambi una cosa
assurda. E’ come dire “il popolo della Metropolitana”, “le masse di tram”, “la
classe dei pedoni”. Non c’è un particolare gruppo di italiani che frequenta
Internet. E “la Rete”
non esiste separatamente da coloro che la usano.
2. Le
statistiche valgono anche in Rete. Ai giornali e alle tv piace
molto lanciare “sondaggi” on line e poi presentarne i risultati come se fossero
derivanti da sondaggi veri. Non hanno alcuna valenza statistica, i campioni non
sono rappresentativi e non c’è lavoro sui dati. Grillo ha contribuito in modo
rilevante a far passare l’idea che in rete valgano regole diverse che nel mondo
reale (per esempio lui considera i suoi 30mila votanti a parlamentarie chiuse
come un esempio migliore dei 3milioni alle primarie del Pd). Invece le regole
sono le stesse. Se io urlo dalla finestra “Pensate che il movimento 5 stelle
debba allearsi con Bersani?”, magari due passanti mi rispondono di sì, uno di
no e uno tace. Ma non per questo posso dire che il 50 per cento degli italiani
è a favore dell’alleanza Pd-M5S. Per le stesse ragioni non ci si può affidare
ai commenti di un blog come termometro statistico.
3. Le orde
di troll e quelle dei guerrieri della verità. Se un
commentatore sostiene la tua tesi è un onesto cittadino che cerca di far
trionfare la verità, se dice cose sgradevoli è un troll (che per i profani
significa un commentatore che ha l’obiettivo di boicottare la discussione
invece che contribuirvi). Questo schema mentale vale sia per Grillo che per i
crociati anti-grillini che vedono dietro ogni critica un complotto
dell’onnipotente azienda Casaleggio e associati. Per quel che vale la mia esperienza,
molti commentatori ossessivi compulsivi che insultano gli altri e intasano di
volgarità il nostro sito difendono Grillo e il M5S. Ma non saprei dire se sono
orde di troll o di guerrieri del bene.
4. La Rete non ha un cervello. Quando i
parlamentari grillini affermano “chiederemo alla rete chi votare come
presidente della Repubblica” dicono, semplicemente, un’idiozia. Cosa pensereste
di un deputato Pdl che dicesse “Chiederemo alla strada chi indicare”. O di uno
del Pd che affermasse “faremo scegliere all’illuminato popolo dei giornali tra
Prodi e Amato”? Direste che sono ingenui, ubriachi o in malafede. La Rete non ha un cervello, le
consultazioni in web sono sempre meno democratiche di quelle “fisiche” perché è
enormemente più facile alterarle. L’unico vantaggio che hanno è di essere
potenzialmente aperte a tutti. E infatti Grillo, quando ha dovuto fare una
consultazione virtuale con un effetto concreto (le parlamentarie), le ha chiuse
il più possibile.
5. Ma le
persone sì. Google ha imposto un nuovo paradigma: non è vero ciò che
è vero ma ciò che la maggioranza pensa che sia vero. Il motore di ricerca non
ti offre la risposta giusta, ma quella che pensa tu stia cercando sulla base
delle richieste degli altri. Ma il fatto che molte persone siano convinte di
qualcosa (tipo che la crisi è tutta colpa del Bilderberg, del signoraggio,
degli ebrei, della Trilaterale, degli alieni, o che i vaccini fanno male e che
abbiamo micorchip sotto pelle impiantati dalla Cia…) non significa che sia
vero. Essere connessi non rende intelligenti. Ma avere a disposizione tutte le
informazioni del mondo però toglie molti alibi agli stupidi, agli ignoranti,
alle persone volgari.
6. I
rappresentanti rappresentano. Quando il Movimento 5 stelle ha deciso di diventare un
partito (e non dite di no, c’è anche lo statuto registrato dal notaio e ci sono
i gruppi parlamentari) ha implicitamente accettato le regole della democrazia
rappresentativa. Se io voglio sapere la posizione del Pd su qualcosa, ascolto
Bersani oppure uno degli altri eletti o dirigenti titolati a parlare a nome del
partito. Perché nella democrazia rappresentativa loro rappresentano, con tutte
le approssimazioni che sappiamo, le idee di chi si riconosce nel centro
sinistra. Ma se io chiedo qualcosa a un deputato del Movimento 5 stelle, quello
di solito risponde citando “Beppe” oppure dice che decide la Rete o cose così. Non c’è
altra informazione ufficiale che non i post del leader. E, non essendoci alcun
processo decisionale esplicito, è impossibile avere informazioni se non dal
sito. Ma se tutto passa da lì, come può stupirsi Grillo che i giornalisti
considerino i commenti ai post più rilevanti delle dichiarazioni fumose dei
suoi eletti?
E ora apro
l’ombrello, perché mi pare di sentire le orde di troll in marcia verso questo
post, pronte a sommergermi dei suddetti schizzi.
Altro
che schizzi: tutti sotto, la ricreazione è finita.
Commento di
Sergio Ghirardi all’articolo di Feltri.
Nel mio auscultare brevemente, spero senza
concessioni, il pezzo di Feltri, non c’è niente di personale, visto che Feltri
non lo conosco e la sua identità apparente mi lascia perfettamente
indifferente. C’è invece la volontà di farne un indicatore di
controinformazione teorica per smantellare, a monte del buon senso economicista
a tanto al chilo, la struttura politica ben più che filosofica di un pensiero
ideologico ormai planetariamente diffuso. Il peggio di un tale argomentare al
quale cerco di oppormi, è che si fa sistematicamente passare per oggettivo e
razionale mentre il suo razionalismo imbedded
- consciamente o no - serve solo, vergognosamente, al sistema dominante.
Hegel notava argutamente che “il noto proprio perché noto non è conosciuto”.
Ciò è particolarmente vero oggi per un concetto usato e abusato fino a farlo
passare per quel che non è, togliendogli invece quello che lo caratterizza. Sto
parlando della “democrazia”, diventata il tema dominante di un secolo nato
sotto il segno del totalitarismo economicista trionfante.
In merito, i testi teorici da
consultare, da riflettere e da superare non mancano, da quasi due secoli fino a
oggi, per non rinviare sempre alla solita Grecia antica. Eppure, niente da
fare: gli economisti, teologi del materialismo del valore di scambio, di cui
Feltri è un piccolo esempio giornalistico tra i tanti, si gargarizzano spesso e
volentieri di democrazia, liberi poi di pulircisi i piedi al minimo richiamo
all’ordine redditizio da parte di un materialismo non solo volgare ma anche e
soprattutto cinico perché ragiona sulla pelle di quella maggioranza che l’economia
deruba e sfrutta senza ritegno.
Il populismo è subito invocato come un
mantra al primo stormir di fronde di una qualunque contestazione radicale della
democrazia spettacolare del sistema dominante. In realtà, nel suo senso deteriore
di “uso di una retorica che accarezza il
popolo nel senso del pelo per meglio fotterlo“, esso è l’appannaggio quasi
esclusivo di quanti hanno sempre in bocca il destino dei meno abbienti per
meglio conservarli nel loro ruolo di proletari, cioè di nullaoquasialtrotenenti
se non di una forza lavoro, per di più totalmente svalutata sul mercato
planetario.
Il dio progressista degli economisti
(e altri faccendieri mediatici, burocrati, legislatori e poliziotti) si chiama
benessere . In prospettiva lo star bene è previsto per tutti ma, come per ogni
paradiso, sarà ottenibile dai più solo in futuro a prezzo di enormi sacrifici
nella valle di lacrime del presente. Come tutte le divinità del vecchio mondo, facili
totem propagandistici di concezione religiosa, il progresso finisce sempre per
stare dalla parte di chi ha l’esercito più forte e la polizia, la cultura, le
istituzioni e le banche dalla sua.
Per il bene di tutti, i progressisti
vogliono andare sempre avanti, è nella loro natura. Non concepiscono dunque di
fermarsi mai, se non con ampie garanzie di riprendere subito e ancor meglio il
cammino nello stesso senso. Per quanto evidente di necessità, ogni decrescita
puntuale è per loro sempre indice di conservatorismo se non di reazione; è un
assurdo ritorno alle origini cui opporsi in nome della civiltà, dunque “viva la muerte”, in un nichilismo
schizofrenico, intriso di eroismo apocalittico, vera e propria orgia
pubblicitaria, fascista e antifascista nello stesso tempo.
Per questi ottimisti civilizzatori a
tassametro, decidere di interrompere la corsa verso l’abisso sarebbe una barbarie,
una mancanza di coraggio buona solo a ostacolare il sacrosanto progresso. I
precipizi, del resto, sono solo invenzioni catastrofiste immaginate dai nemici
del progresso. Poco importa se gli tsunami sono ormai tutt’altro che virtuali:
i populisti esecrabili sono tutti quelli che vogliono cambiare sistema, non
quelli che lo difendono tramite un delirante razionalismo morboso che mette sempre,
coraggiosamente, in gioco per primo il culo degli altri (per forza, nel vostro
giardino, democraticamente, dalla Val di Susa a Fukushima).
Il PIL val bene una messa a Chernobyl.
I servitori volontari di questo
sadomasochismo redditizio per pochi, trovano, tra i molti che lo subiscono, la
maggioranza democraticamente necessaria di malati di una sindrome di Stoccolma
della servitù volontaria.
L’ipotesi di cambiare direzione
diventa dunque blasfema, o ancor peggio, sovversiva, per adeguarsi ai parametri
più moderni della morale economica. Ne consegue un dato incontestabile: tutti
sotto, la ricreazione è finita.
Paternalisti del nulla saggiamente
contemplato, seduti su confortevoli poltrone politiche o mediatiche, pagati
abbastanza per preoccuparsi davanti a un caffè di chi neppure più il caffè può
permettersi (niente da fare, sono stato contaminato anch’io dal populismo), i
nostri beneamati decisionisti, pur di non ascoltare i “populismi” di chi dice:
“ora
basta!”, finiscono per consigliare a chi non ha pane di mangiare
brioche, come neppure la regina Maria Antonietta aveva osato.
Non che dire “ora basta” sia
sufficiente, né che garantisca che si hanno alternative da proporre, ma
diffidare spasmodicamente degli “ora basta” quando non se ne può più, equivale
a chiedersi se l’acqua con cui si cerca di spegnere un fuoco è potabile o no. Lodevole
sensibilità ecologica, certo, ma fuori posto, soprattutto se proclamata da chi
ha contribuito a innescare l’incendio.
Churchill viene sempre a fagiolo per
tirare il freno a mano della Storia confiscata da almeno mezzo secolo dai servi
sciocchi e mercenari del capitalismo: la democrazia è il meno peggio dei
governi, così come la libertà finisce sempre dove comincia quella altrui.
Vecchi proverbi idioti di una
borghesia ridotta a fantasma di se stessa, ma utili per nascondere che la libertà
non può essere che condivisa e quindi cominciare dove comincia quella altrui.
Cominciare, cioè, da una democrazia reale che non può nascere che sulle rovine
degli Stati e del Mercato finalmente gettati nella spazzatura della Storia.
Da destra a sinistra, queste due mani
simmetriche del Frankenstein capitalista, si fa a gara per azzerare la
coscienza riducendola a libertà individualista opposta a un altrettanto assurdo
collettivismo, del resto sempre più timido se non in tempo di crisi.
Liberalismo e collettivismo, Stato e
Mercato, qualunque sia il dosaggio proposto, restano comunque gli ingredienti
velenosi di un becero manicheismo che trasforma la critica radicale dell’economia
politica in un’ideologia interna all’ECONOMIA TOTALITARIA.
Da due secoli, l’idea
dell’emancipazione è in mano ai servi di un potere sempre più autonomo dagli
uomini che l’hanno inventato, ed è usata per rendere l’emancipazione
impossibile. Dei diritti dell’uomo usati di fatto per rendere inalienabili i
diritti della merce, sono diventati il perno su cui ruota il paradigma fondante
dell’organizzazione sociale.
Questo paradigma, finora i filosofi (e
gli economisti, ancelle teologiche, cioè filosofi senza filosofia) si sono
accontentati di interpretarlo, ora si tratta di cambiarlo.
Una tale rottura sarebbe foriera
dell’emergere concreto dei diritti dell’essere umano - uomo, donna, bambino -
allargati a tutto il vivente, dalla natura globale all’infinitamente piccolo,
in un’armonia d’intenti che dà senso umano alla vita come sinfonia moderata
cantabile.
Si tratta innanzitutto del ripristino concreto,
nella dimensione locale, di una comunità sociale tanto reale che molteplice e
moltiplicabile all’infinito.
La riduzione alla rete di questo
cambiamento è un’idiozia lobotomica; è la menzogna più ottusa e il miglior
regalo che i cittadini in rivolta potrebbero fare al sistema dominante. Nessuna
rete potrà mai sostituire la comunità reale mentre una comunità reale finalmente
ricostituita potrà abbondantemente usufruire della rete come di un utensile di
cui usare e diffidare, come di tutti gli utensili.
Aiutato dalla confusione che ancora
alberga tra gli esploratori di un nuovo mondo possibile, tutto questo un
economista deve rimuoverlo, ignorarlo, caricaturarlo e combatterlo perché il
suo Frankenstein produttivista deve alzarsi e camminare per andare al lavoro,
per spingere un carrello di supermercato, per alzare alternativamente la destra
o la sinistra e intonare ogni tanto l’inno della sua tragica patria planetaria
spettacolar-mercantile.
Chi attende Grillo per adorarlo o
esecrarlo e non conta su se stesso, sui propri desideri, sul proprio “ora
basta” e sulla proposta concreta di una nuova organizzazione della vita
sociale, che voti o no, per questo o per quello, è un cadavere che cammina sul
sentiero della sudditanza.
Quel che è in gioco oggi è la fine dei
vecchi giochi perversi per l’inizio di un libero gioco della vita di cui gli
economisti sono tra i carcerieri più odiosi.