Il nostro 25 aprile di Paolo Flores d'Arcais | 25 aprile 2012
L’antifascismo non è un optional. La convivenza civile si basa sulle leggi,
le leggi sulla Costituzione, la
Costituzione solo su un fatto storico che la legittima e che
regge dunque l’intero ordinamento. Per l’Italia democratica questo fatto si
chiama Resistenza antifascista. Se viene meno il riconoscimento della
Resistenza crolla l’intero castello di legittimità. Per questo
il 25 aprile è festa nazionale: perché l’identità dell’Italia democratica,
della nostra Patria, ha il suo ultimo fondamento nella vittoria della
Resistenza antifascista, nella frase “Aldo dice 26×1”, con cui il Comitato
di Liberazione Nazionale Alta Italia dà l’ordine dell’insurrezione
generale e i partigiani liberano le grandi città del nord da nazisti e fascisti
prima dell’arrivo delle truppe alleate.
Patriottismo costituzionale e antifascismo fanno dunque tutt’uno. I
funzionari pubblici che giurano sulla Costituzione compiono spergiuro ogni
volta che non sono coerenti con i valori della Resistenza. E anche il semplice
a-fascismo segnala drastica indigenza di patriottismo. Chi non è
antifascista non è un autentico italiano. Chi poi è anti-antifascista è
semplicemente un nemico della Patria.
Oggi purtroppo l’antifascismo è in minoranza, maggioritaria è la morta gora
dell’indifferenza. I giovani nulla
sanno dell’epopea della Resistenza a cui devono la libertà di cui
godono.
Colpa delle generazioni che avrebbero dovuto educarli, di un establishment che
ha seppellito l’antifascismo nella retorica di celebrazioni bolse ed ipocrite,
o peggio.
I governi democristiani, da perfetti sepolcri imbiancati, commemoravano il
25 aprile mentre trescavano con ogni risma di neofascisti e rottami
repubblichini. Il regime berlusconiano ha voluto azzerare ogni memoria antifascista,
portando “risma e rottami” al governo, in un progetto coerente di
sovversione della Costituzione. La nostra convivenza civile poggia
oggi sul vuoto. Ricostruire quel supremo “bene comune” che è l’identità della
Patria repubblicana è perciò un compito morale, culturale e politico
prioritario e di lunga lena. Che deve bandire la retorica, restituire ai
giovani l’epos di rivolta che è stata la Resistenza e sopratutto la sua attualità in ogni
lotta odierna per “giustizia e libertà”.
Commento di Sergio Ghirardi :
Ho difficolta a posizionarmi di fronte a questo articolo
di cui condivido lo spirito ma non l'antiretorica.
Mio padre fu di Giustizia e libertà. Alla sua morte
abbiamo ritrovato il suo fazzoletto tricolore e un tesserino probabilmente
postbellico di appartenenza, una specie di carta d'identità resistenziale. Era
stata la sua giovinezza e la sua fierezza di cui non ha mai fatto commercio.
Sono dunque stato nutrito fin dalla culla dalle canzoni della resistenza che il
mio vecchio usava come ninne nanne. Fischia il vento, e la versione ligure e
partigiana di una famosa canzone alpina che faceva...Sui monti di Valtrebbia c'è il partigiano che marcia alla riscossa col
suo Bisagno... Compagno di banco di Walter Fillack al liceo prima che
questi ne fosse espulso e di Giacomo Buranello all'università, per fortuna non
è finito come loro se no non sarei qui.
Preciso questo background a cui resto affettivamente
legato, per non essere frainteso nella mia reticenza di fronte a ogni
sacralizzazione foriera di servitù volontaria e di nuovi signori dominanti.
Per chi come me si rivendica cittadino del mondo, parlare
di patria antifascista non può confondersi con uno Stato, semmai con una
nazione senza frontiere.
Il maggio sessantotto, questa resistenza finalmente
gioiosa in nome della vita e del rifiuto del lavoro salariato non aveva
un'anima nazionale e questa è stata la forza che rende ancor oggi quegli
avvenimenti una realtà storica che la società dominante non riesce a integrare
e continua a falsare, recuperare, esorcizzare nella speranza di farli
dimenticare e dimenticare soprattutto l'esigenza di un'insurrezione gioiosa
della specie in nome della felicità. Neppure questo è un optional e i suoi
fragili segni risorgenti sono la sola nota lieta di questo macabro presente.
Sono ancora colpito, quarant'anni dopo il "joli mai", dall'orgia di
interpretazioni ideologiche, false e riduttive, portate sia da chi se n'è
appropriato che da chi lo osteggia ancora. I servitori volontari più volgari ne
parlano ormai come qualcosa di sepolto nel cimitero della storia perché temono
ancora, senza saperlo chiaramente, l'essenziale di quello spettro che rode in
Europa e nel mondo e che resterà vivo e testardo finché non tramonterà la
volonta di vivere degli esseri umani.
Il maggio è stato, per un momento, la continuità pratica
e il superamento teorico della resistenza del periodo bellico, ma la società
dello spettacolo è riuscita a ridurlo a tutto e al contrario di tutto nelle
teste di lavoratori e intellettuali ridotti a risalire sempre alla vecchia
resistenza per ritrovare una parvenza di valori sostenibili.
Il maggio ha desacralizzato la sua propria resistenza al
capitalismo proponendo di seppellire il vecchio mondo con una risata mentre
l'anti retorica che riporta ogni resistenza alla resistenza contro il fascismo
arcaico permette al fascismo caratteriale di rinnovarsi costantemente e
impunemente.
Le Santanché, i Sallusti e gli Alemanno, insieme ai resti
di squadristi mediatici e non che bazzicano ancora tra la politica e la vita
quotidiana (hooligans, militanti neri, razzisti, integralisti, picchiatori e
nazisti vari) sono solo mostruosi - e puntualmente pericolosi - specchietti per
le allodole che il fascismo in profondo divenire ha usato e usa per
banalizzarsi e infiltrarsi nelle istituzioni antifasciste. Se Tambroni fu un
tentativo prematuro, la Lega, grazie alla mafiosità dilagante nelle
istituzioni, ne è stato un esempio concreto di franco successo che oggi,
in maniera meno paesana e dunque più pericolosa, riprende Marine Le Pen. La
quale ha commentato il suo trionfo elettorale evocando perversamente sulle sue
barricate elettorali quelle del maggio francese. La Giovanna d’Arco dei talk
show ha così poco innocentemente concluso: “Ce
n’est qu’un début, continuons le combat”.
Nessun fascista ormai si rivendica di un passato
invendibile e pochi ammettono di esserlo, tra negazionismo e pellegrinaggi in
Israele. Il fenomeno francese di Marine Le Pen che ha femministizzato la
barbarie del padre trovando consenso e accettazione, pur se ancora misti a sinistra
di un disgusto di facciata, indica la via che la banalità del male prende nello
spettacolo per sembrare ancora più banale e portare i germi di un male sempre
più profondo perché greffato nel comportamento quotidiano degli individui.
Il fascismo avanza ormai drappeggiato nei valori
democratici perché la democrazia non esiste. I vecchi dittatori hanno lasciato
il posto a beceri burocrati, magari in gonnella per non lasciare fuori dalle
adunate oceaniche di consumatori frustrati e impoveriti l'altra metà del cielo.
Nessuna costituzione potrà difendere una volontà di
vivere svenduta in saldo sul mercato del lavoro che non c'è più.
Dovunque, contro il fascismo che sale ci vuole una "
costituzione " davvero nuova che osi avere come primo articolo: L’Italia
(la Francia, la Grecia o il Perù...ecc.) è una nazione fondata sulla
solidarietà e quindi (finché esiste il denaro) su un salario di esistenza cui
ogni cittadino ha diritto indipendentemente dal lavoro che può svolgere in più
se lo vuole.
La costituzione italiana invece è all'immagine del
presidente che ne è il garante: vecchia, incartapecorita, statalista e
insufficiente a garantire dei valori che il nemico totalitario ha ormai
aggirato.
Si può resistere sui simboli, come l'articolo 18, ma il
vero problema è che il capitalismo ha fatto prima e al contrario quello che
avremmo voluto e dovuto fare noi al dritto.
Invece di smettere di lavorare per inventare un altro
mondo possibile, ci siamo così ritrovati a subire il ricatto di un lavoro
assente e totalmente manipolabile dai proprietari dei mezzi di produzione; un
lavoro che il capitalismo ha eliminato delocalizzandolo. Questa combine ormai
planetaria ha il grande pregio di far durare il vecchio mondo impossibile da
vivere per quegli esseri umani che il capitalismo amerebbe abolire ma di cui ha
bisogno.
Certo, oggi c'è poco da ridere, con la CRISI come
progetto strutturale del capitalismo finanziario e bancario, una politica
ridotta a corrutela, il fascismo banalizzato come un male folclorico, Petain
che riappare in Sarkozy e le sinistre che nascondono dietro le ultime bandiere
rosse sbiadite e sgualcite, il loro becero liberalismo d'accatto o un irreale
bolscevismo da zombi.
Quando l'antifascismo si riduce a fondamento di una
sacralità, si rischia di dar ragione alla provocazione di Bordiga - “l’antifascismo è il peggior prodotto del
fascismo” -, ponendo un limite al processo di emancipazione sociale di cui
l'antifascismo è stato una piccola pur se importante parte.
Ritornare ora all'antifascismo per difendersi dal
putridume mafioso dei repubblichini che riempiono da destra a sinistra il
parlamento italiano è un riflesso comprensibile ma pericolosamente regressivo.
La storia non sopporta le regressioni e rischia di essere
una nuova forma di fascismo banalizzato e integrato a ricordarcelo e a
obbligarci a un'ennesima resistenza tardiva e insufficiente.