venerdì 7 gennaio 2011

Socialisme ou Barbara





Repubblica 5.1.11 Barbara Spinelli

Battisti e la Francia. L’ignoranza militante.

La lettera più difficile, più scabrosa, Bernard-Henri Lévy avrebbe dovuta scriverla non al Presidente Lula ma, informandosi sulla storia italiana, al Presidente Napolitano. Non mi consta l´abbia fatto. Il gesto più difficile e scabroso sarebbe stato quello di visitare, oltre a Cesare Battisti, le sue vittime. Non mi consta abbia fatto neanche questo. Né che abbiano fatto cose simili Philippe Sollers, Daniel Pennac, Fred Vargas, e i tanti francesi che guardano all´Italia come a un paese di scimmie, privo di magistrati dignitosi: bellissimo e incivilissimo, diceva Stendhal.

I francesi in questione sono esteti e assai selettivi: contro la mafia o la cultura dell´illegalità dilatata da Berlusconi, mai alzano la voce.

Usiamo la parola scabroso perché letteralmente deriva da scavare, cercare sotto la superficie. Con le sue dichiarazioni giubilanti e la lettera a Lula, Lévy pensa d´aver pensato, chiude il ragionamento in un boccale come una pietanza che si riscalda di tanto in tanto. Non ha preso neppure una pala, per smuovere la terra alla maniera in cui Rilke, meditando il buio, «ascolta come la notte s´inconca e s´incava». Danza sulla superficie, imbocca le vie più facili presumendole anticonformiste. Crede di cantare fuori da un coro. Azioni del genere screditano gesti compiuti da lui e altri: in Bosnia, Cecenia, Ruanda. L´accostamento del volto di Sakineh a quello di Battisti, sul suo sito, è empietà. Mostra un´incapacità radicale a comprendere il male inflitto all´innocente. Non è il vero sofferente che interessa, quando il fascino esercitato da un assassino è così trascinante, compiaciuto. André Glucksmann, vicino a Lévy, non ha mai cantato in questo coro.

Battisti non è neppure un terrorista, per chi lo sostiene. Lévy lo chiama un «ancien enragé divenuto scrittore». Gli enragés (letteralmente: «gli arrabbiati») furono i più estremisti nella Rivoluzione francese. Philippe Sollers lo battezza «eroe rivoluzionario». Altri, citando Céline, confutano i verdetti emessi contro «un uomo senza importanza collettiva, un semplice individuo», come se la giustizia concernesse altro che l´individuo. Il solo esser divenuto scrittore lo trasfigura, l´assolve. Lo tramuta in intellò, come se il titolo bastasse per issarlo all´altezza di Zola e di chi, tra il 1895 e il 1906, difese il capitano Dreyfus.

Il fatto, sempre che i fatti contino, è che Battisti non è solo un intellò. Fu un criminale comune fino a quando per comodità si mascherò da rivoluzionario, aderendo ai Pac (Proletari Armati per il Comunismo). Scappato dal carcere, fu condannato in contumacia per aver ucciso tre uomini e concorso a un quarto omicidio, fra il ´78 e il ´79, e nei tre gradi di giudizio fu assistito da avvocati da lui istruiti. Nell´81 era fuggito a Parigi profittando della dottrina Mitterrand, abiettamente travisata. In realtà il Presidente fu chiaro, quando l´espose il 22 febbraio e il 20 aprile ´85: l´asilo offerto escludeva tassativamente «chi si era macchiato di crimini di sangue» o di «complicità evidente in vicende di sangue», e riguardava i fiancheggiatori dissociati dal terrorismo.

Gli intellettuali mobilitatisi per Battisti si immaginano eredi non solo dei dreyfusardi ma dei moralistes francesi vissuti fra il ´500 e il ´700. I moralisti non facevano la morale ma descrivevano la storta natura dell´uomo, a cominciare dalla propria, con impietosa ironia. Penso a Montaigne, La Rochefoucauld, Pascal, Vauvenargues, Chamfort. Nei pretesi loro eredi non è mancato questo sguardo spietato e anticonformista, quando hanno fustigato il proprio esser comunisti: i «nuovi filosofi» hanno capito Solženicyn assai prima degli italiani, dei tedeschi. Ma uno strabismo singolare li affligge: ben più arduo, se non impossibile, è approfondire ancor più l´esame di sé. Quando maneggiano il concetto di rivoluzionario o di intellettuale, l´acume diminuisce. Aver ghigliottinato un re è motivo immutato d´orgoglio, che li rende superiori a ogni europeo.

Anche l´universalismo, di cui i francesi si vantano, li rende ciechi ai propri limiti, incapaci di apprendere. Il loro contributo all´unione europea è un impasto di universalismo decorativo e nazionalismo effettivo. Ci sono princìpi a tal punto sacralizzati da ossificarsi e perire come stelle che per noi brillano nonostante siano morte da tempo. Molte dispute intellettuali avvengono tra francesi. Non parlano all´Europa né al mondo, verso i quali l´ignoranza è spesso abissale.

È l´ignoranza militante che provai a descrivere il 14 marzo 2004 su Le Monde, in una lettera aperta su Battisti agli amici francesi, ma si sa che le parole informative non servono quando non si vuol sapere e si vive nel performativo (basta che io dica una cosa e la cosa è, anche se contraddetta dai fatti). Quel che si vuol ignorare è come funziona la giustizia in Italia, la sua indipendenza ben più solida che in Francia, la lotta che i magistrati conducono contro la mafia, la corruzione, la politica ridotta a lucro privato. È un´ignoranza non ingenua ma attivisticamente coltivata. Ebbe forme analoghe anche nel ´68: un ´68 che i francesi, più saggi, hanno saputo frenare prima che degenerasse in terrorismo. Essendosi tuttavia fermati in tempo, nulla sanno dei suoi baratri, del valore della legalità. Non a caso parlano lo stesso linguaggio di tanti marxisti finiti con Berlusconi. Lo spirito libertario del ´68, lo hanno stravolto facendosi libertini. Il disprezzo delle istituzioni, della Costituzione, della magistratura, accomuna perversamente tanti intellettuali francesi e Berlusconi: stessi attacchi ai giudici e ai «teoremi giudiziari», stesso istinto a parlare di Battisti come di un accusato o un capro espiatorio e non di un condannato. Non stupisce che qualche mese fa Berlusconi abbia confidato a un ministro: «Battisti è un personaggio orribile, e non capisco perché dovremmo fare i salti di gioia alla prospettiva di doverlo mantenere noi per anni nelle nostre galere».

Rivolgendosi agli italiani, Lévy ci invita a «voltare la pagina degli anni di piombo», o almeno a pensarli «senza passione, con equità, evitando la terribile logica del capro espiatorio». È una solfa che gli italiani conoscono: meglio voltar le pagine del fascismo, delle stragi, di Mani Pulite, dell´omicidio di Falcone, Borsellino, delle loro eroiche scorte. Ma le pagine si voltano ricordando e facendo giustizia (la clemenza viene dopo i verdetti), altrimenti restano lì, infezione letale. Oppure le si gira e basta, come fanno gli scemi o gli arruolati dell´Ignoranza, due categorie così affini. Persino Gesù faticava, con gli stupidi. C´è un suo detto islamico, citato da Sabino Chialà, che confessa: «Gli storpi li ho guariti, i ciechi pure. Con gli stupidi non sono riuscito» (I detti islamici di Gesù, Mondadori). Di ignoranza militante e ebete non abbiamo bisogno che venga da fuori: ne abbiamo già tanta in casa. L´amalgama creatosi fra terrorismo, mafia, corruzione, sprezzo della magistratura: non è una vecchia pagina da voltare. È il presente limaccioso che viviamo.

Tutte queste vicende i francesi non le capiscono. Pur avendo compiuto la rivoluzione e chiamato ogni uomo allo stesso modo – citoyen – lo spirito di casta è tenace. Se sei un intellettuale hai speciali immunità, anche se hai ammazzato tua moglie come il filosofo Althusser. Già Tocqueville trovava intollerabile la mistura francese tra politici e letterati.

Fa parte dell´astrattezza letteraria (la più obbrobriosa forse) considerare gli ex terroristi come sconfitti, vinti dalla storia. Sconfitto è chi esce battuto essendo stato un combattente, regolare o guerrigliero, o un vero enragé. Gli si deve rispetto: con lui si ricostruirà un ordine. Gli anni di piombo non sono stati una guerra civile. Sono stati una storia criminale, come gran parte della storia italiana.



Socialisme ou Barbara Spinelli


Un email di un amico che stimo ed apprezzo mi ha spinto, pur riluttante, alla lettura di questo articolo di Barbara Spinelli cui altrimenti non credo avrei dato un’attenzione eccessiva.

Non ho mai preso posizione per Battisti di cui non conosco né il passato né il presente, perché fin dagli anni sessanta la mia presumibile ignoranza si è ben guardata dall’essere militante. Fin da allora le mie frequentazioni mi avevano fortunatamente insegnato che il trionfo del militantismo faceva parte delle mode ideologiche correnti, funzionali alla società dello spettacolo con cui il capitalismo si stava rivestendo dopo uno streap-tease involontario.

Non ho, però, mai urlato con i benpensanti che l’odore della punizione eccita, perché non amo quel che ristabilisce la logica del dominio.

Da tempo ho la certezza che il tema della giustizia in una società ingiusta finisca comunque per fare il gioco del pensiero ideologico. Quel pensiero che per interessi di potere e/o equilibri narcisistici intimi si fonda comunque su dei pregiudizi per giustificare il suo partito preso.

Eppure, c’è un “ma” che mi rode: non ci si può esimere dal prendere posizione quando un fatto particolare si fa psicodramma collettivo e si manifesta come un nodo che coinvolge, per di più, la storia bella e dolorosa di una rivoluzione forse tradita, ma certo mancata, almeno per ora.

Ci risiamo: avere attraversato gli anni di piombo senza mai usare né pistole né bombe, né fucili, ma battendosi sempre radicalmente contro un sistema di sfruttamento e di alienazione intollerabile e invivibile, non mi induce a star zitto quando il confusionismo fa l’altalena da destra a sinistra tra la questione morale e la questione sociale, soffocandole entrambe sotto certezze povere di ogni dubbio necessario.

Gli intellettuali spettacolari del paese in cui vivo, la Francia, cui la signora Spinelli si riferisce, hanno da tempo, gratuitamente, il mio disprezzo. Quello che insieme a qualche amico di qualità ho sempre riservato ai molti che mostrano di averne un impellente bisogno: dai maoisti ai mondani (spesso si sono mostrati gli stessi in epoche diverse), non ho mai sopportato il dialogo con i perversi senza passione che mettono in scena una coscienza facilmente monetizzabile. Preferisco, tuttavia la critica di Noël Godin e delle sue torte in faccia a Bernard H. L. a quel che la signora Spinelli oppone a questo carrozzone circense in odore di “béchamel”.

La mia sensibilità non si appaga nel veder opporre un peloso buon senso provinciale e la compassione selettiva per le vittime all’universalismo della Francia Repubblicana e ai suoi attuali intellettuali da operetta.

Io rifiuto entrambi i poli di una tale opposizione spettacolare.

Distinguendo, inoltre, con ribrezzo, la guerra civile dagli anni di piombo, la signora si lancia, non so quanto consciamente, in un macabro elogio indiretto della guerra civile. Ora, la mostruosità di quegli anni è stata proprio di essere stati ridotti dagli “opposti estremismi” di regime a una guerra civile in vitro per impedire il superamento storico in fieri di un’intera civiltà. Un po’ quel che tocca oggi in ruolo al nichilismo fanatico religioso; vero e presunto, quanto quello politico di allora.

Siamo ormai di fronte alle rovine di un mondo e il progetto allora abbozzato ha preso, oggi, le caratteristiche dell’urgenza di fronte all’ampiezza delle macerie individuali e sociali accumulate. Tuttavia, questo, pur se fondamentale e attinente, è un altro discorso.

La differenza tra la Francia e l’Italia di allora non l’hanno fatta i fantomatici capi di una rivolta che nella sua parte autentica non ne aveva. I capi non mancano mai quando le rivoluzioni falliscono, e se non ci sono si inventano.

Una tale differenza l’hanno resa possibile, invece, il recupero dolce della poesia di rivolta da parte del post gaullismo pragmatico e l’attentato - questo sì, atto di guerra civile - delle bombe di piazza Fontana in Italia. Ma dov’era Lei mentre si sbattevano mostri in prima pagina? Quali giornali leggeva o scriveva? Una gioventù e una classe operaia insorta contro la società dei consumi senza possibili sbocchi rivoluzionari è stata costretta a scegliere tra la sottomissione umiliante e la rivolta nichilista perché la terza strada, ancor oggi aperta e auspicabile, era stata fatta letteralmente saltare. L’ideologia rivoluzionaria è diventata allora palesemente quello che è sempre stata: la peggiore nemica della teoria rivoluzionaria e della sua volontà pratica di esplorare un nuovo mondo

Né con lo Stato né con le BR” non è stato soltanto e sempre l’ennesimo ponziopilatismo all’italiana. Era anche il tentativo (fallito, bisogna ammetterlo, per il momento) di salvare il progetto epocale di rivoluzione sociale libertaria sia dalla psicosi nichilista, sia dal recupero controrivoluzionario.

Se poi si glissa dal tragico 12 dicembre 1969 al farsesco 14 del dicembre 2010 non si può certo dare tutti i torti a Stendhal nel suo giudizio sugli italiani.

Oltre ogni volontà polemica, che il tema in questione è soprattutto triste, la signora mi sembra sedersi oggi nella poltrona piccoloborghese di una sinistra moralista e liberale, bacchettona e benpensante che la domenica, alla messa, si scandalizza di un mondo globale che educa assassini e funziona su corruzione e inquinamento, ingiustizie e sofferenze che ammazzano e fanno ammazzare. Quella stessa opposizione fantasma che non si oppone radicalmente a niente e, durante la settimana lavorativa, si accontenta di far tornare i conti di una questione sociale tradita, pretendendo che paghi chi abbia –eventualmente- sbagliato un po’ troppo. Sti compagni che sbagliano non devono esagerare. Se no, Berlusconi ha ragione a dire che son tutti comunisti:

Come dopo un incidente stradale: constatazione di sinistro a carico del maldestro e la pratica è chiusa. Intanto, nella stessa logica, sembra giusto a parecchi, e soprattutto al potere economico, che si faccia pagare il debito - necessario al funzionamento dell’economia di mercato - a un terzo mondo di selvaggi e a masse di lavoratori (e qui le vittime sono milioni) colpevoli di non essere stati ben educati al produttivismo e al capitale finanziario.

Magari Battisti è davvero un terribile stronzo e un assassino, ma chi pretende di farlo marcire in prigione per fare giustizia deve assumere di essere un boia.

Se io fossi un parente di qualcuno ucciso vorrei probabilmente vendetta sotto forma di giustizia, o più se affinità. Vorrei vedere il colpevole almeno in prigione. E’ più che probabile: al dolore e alla rabbia non si comanda quasi mai.

Rivendicare, però, freddamente, in astratto, le regole sociali come un contratto da bottegai stabilito nel sangue e nel taglione di Stato, come sintomo di civiltà, è una barbarie civilizzata quanto lo sfruttamento del lavoro programmato e modernizzato nei secoli con obiettivo immutato: il profitto.

Io non mi sorprendo che queste miserie esistano, né che regolino i comportamenti concreti degli individui che formano una società alienata. Siamo ancora nella preistoria, lo so bene.

Mi scandalizzo che qualcuno che si pretende progressista si alzi dalla sedia per dare un senso filosofico di oggettività al commercio di scambio della miseria umana che regola una società di classe. Mi impressiona sfavorevolmente che ci si lanci col livore di Erinni senza Dioniso non per rivendicare l’instaurarsi della gioa collettiva carente, ma per richiedere l’esecuzione di un calcolo di morte individualizzato, pretendendo pure di agire in nome della civiltà. Purtroppo un tal filosofico desiderare una pena certa e conseguente non restituirà nessuno ai propri cari.

Come per Berlusconi, per Battisti o qualunque colpevole avverato, non si tratta di punire per vendetta o per saldare dei conti, ma di intervenire saggiamente per garantirsi che il delinquente non possa più fare danni.

Che gli Stati pretendano di veder confermata la loro leggittimità posso facilmente capirlo. Il loro potere legislativo ed esecutivo fa il paio con un potere repressivo che permette impunemente a un nugolo di poliziotti impauriti, improvvisamente assatanati dall’evidente debolezza della vittima, di calpestare in gruppo, come in un sabba, un manifestante a terra, inerme e indifeso.

Che un individuo non straziato direttamente dal dolore carnale di una morte di un prossimo invochi con passione la pena di morte o di reclusione mi fa, invece, rabbrividire perché so che la giustizia umana può cominciare soltanto dall’uguaglianza, dalla libertà e dalla fraternità riconosciute che si impegnano a rimediare all’errore e non a punire le colpe. Prima di ciò non usciremo mai da una laica barbarie.

A meno di mischiarvi il vecchio cadavere ormai freddo di un qualunque Dio, sempre utile per restituire a Cesare quel che sfugge alle grinfie sadiche dei suoi sacerdoti. Collaborazione tra cupole, palazzi, cattedrali, moschee e sinagoghe in una democrazia spettacolare.

Mi piacerebbe che la giusta critica all’intellettualismo parisien non arrivasse dallo spirito di Campo de’ Fiori.

Sergio Ghirardi