sabato 22 gennaio 2011

Les salauds e le 120 notti di Arcore




La situazione è grave ma non seria. I due campi si battono in una battaglia senza scampo. O il cavaliere uscirà candeggiato dalla tenzone con la testa dei magistrati appesi alla sua sella o il bordello Italia sarà chiuso senza neppure l’intervento della cara Merlin che nella tomba deve prendere le posizioni più oscene del kamasutra, a forza di rigirarsi per la vergogna di essere stata ormai ridotta a portinaia del residence milanese dove parcheggiano le sfrontate veline di uno spettacolo senza veli.

Per forza senza veli, questo è uno spettacolo moderno, non siamo mica nell’Islam. Qui nessuno porta mutande di scorta. Al più qualche divisa da poliziotta per dirigere il traffico intenso tra Arcore, via Teulada e il parlamento, o da infermiera, vista l’età dei candidati al godimento di stato (nel senso del participio passato del verbo avere, anzi sembrare).

Non per caso stiamo parlando di un paese che senza false modestie si autodefinisce bello (come se fosse l’unico), un paese che produce da millenni formaggi deliziosi e amatori di eccelsa qualità (come se fosse l’unico).

Arrendetevi all’evidenza che si vuole tale per fede (minuscolo, mica è un nome proprio, è una cosa che si vende al miglior offerente): chi non conosce il Parmigiano (nel senso del formaggio grana e non di un pittore) e Casanova (nel senso poetico di un uomo che amava davvero le donne, non nel senso del maiale che gode grufolando nel pilu mercenario pagato ogni volta più o meno quanto cinque salari mensili di operaio)?

Sia chiaro: la bellezza, la bontà e la potenza non sono tutto per un paese dalla cultura e dalla creatività senza limiti (come se fosse l’unico), un paese che ha saputo marciare al passo dell’oca di poeti, di santi e di navigatori (qui il numero di paesi si assottiglia, ma non di molto).

Una tale becera trinità fascista è perfettamente incarnata in una sola persona: l’ignaro ma fiero Bondi, contemporaneamente poeta (per vocazione autoproclamata), santo (per destino e professione di eroe del trasformismo) e navigante (per necessità involontaria, quando il suo padrone gli revocherà la cuccia - di cui non sopporta di sentir parlare - per portarselo nell’harem di Antigua a spolverare i trofei di caccia). Vagherà allora, nostalgico, tra i mille scalpi puberali dei pubi toccati ma mai sfiorati con mano tremante dall’unto di se stesso, tra sfilze infinite di mutande, ricordo di romantici amplessi e collezionate in numero sufficiente, temo, per prevedere un’ultima conversione assai poco cattolica a religioni che di mutande, appunto abBondano.

E non chiedete, ora, con un numero da servitori volontari, a me che sto scrivendo fingendomi ubriaco - solo modo di attraversare il mare di merda che sta seppellendo l’Italia come uno tsunami ridicolo e pestilenziale senza naufragarvi -, di spiegare di quale signore è qui questione. I travestimenti cambiano ormai al ritmo di Fregoli e i fragili simboli del potere di oggi non sono mai quelli di ieri anche se si assomigliano come due gocce di pipì.

I tempi cambiano e i mostri sul cui regno non tramontava mai il sole si sono trasformati in marionette patetiche su cui non si spegne mai la televisione.

E i sudditi? Che ne è diventato di quei sudditi che si piegavano per prudenza al passaggio del re ma che sapevano ogni tanto ricordare ai loro aguzzini che le forche non servivano soltanto per ammassare il grano prima di lasciarselo rubare?

Lasciamo un momento questa questione in sospeso come la storia che è in sospeso da mezzo secolo. Altre più nobili questioni si arrovellano nelle menti pudibonde di un popolo che ha coniato nei secoli la gloriosa divisa: “Franza o Spagna purché se magna”. E non ditemi che erano tutti napoletani. La spazzatura in Italia non è dappertutto ugualmente visibile, ma è probabilmente la derrata più democraticamente distribuita dal Veneto alla Sicilia.

L’Italia di dolore ostello, diceva un piccolo poeta (minuscolo se paragonato ai versi immortali di un ministro dell’incultura talmente impregnato di creatività al servizio del suo mentore che non ha neppure avuto il tempo di accorgersi del crollo della casa dei gladiatori a Pompei), è anche il paese della morale e non di una qualunque: di quella cattolica che con inferno, purgatorio e paradiso ha saputo tracimare nei secoli e nelle coscienze di primitivi e di barbari mettendo loro le mutande; ma un solo paio per volta, perbacco, che la modernità al servizio dell’oscurantismo fa anch’essa parte del sacro quando aiuta a far marciare i chierichetti e le ranocchie da acqua benedetta sulla retta via del profitto.

Non si dice di mettere le mutande alle sedie lubriche come teorizzava la reginotta Vittoria nei paesi dove la birra tenta di ottenere effetti simili al vino con il risultato di far pisciare molto di più senza tuttavia vaccinare dall’addomesticamento di fronte all’autorità. La modernità cattolica non è altrettanto funzionale al capitalismo quanto hanno saputo esserlo i vari protestantesimi, ma serve Cesare fin da quando la parola “democrazia” faceva solo sghignazzare i dittatori e i circenses televisivi non avevano ancora sostituito i gladiatori con mezzani, mentitori seriali e squadristi virtuali.

Grandiosa mitologia quella cattolica, se confrontata alle volgarità delle altre cosmogonie inventate dagli uomini per raccontarsi origini assurde e darsi un quadro di comportamento sociale comune utile al sistema di potere dominante.

Per sottomettere al meglio ci vuole fantasia. La fantasia al potere, per scimmiottare il sinistro slogan che i peggiori nemici del ‘68 (quelli che ne adorano tutto salvo l’essenziale: la sua poesia radicale) hanno scelto come logo idiota per una rivolta epocale che aveva ben altri scopi poetici che quello sordido e analfabeta di fare l’apologia di una carriera pubblicitaria.

La pubblicità non è che la forma laica della propaganda fidei su cui si è sempre fondato il potere religioso e il potere tout court.

Può davvero digerire tutto chiunque arrivi a credere che Dio abbia inviato sulla terra suo figlio per poi farlo morire (almeno come mandante seriale che ci aveva già provato con Isacco - tipo il mostro di Firenze o di Betlemme, è lo stesso), facendolo scaturire come un coniglio dal cappello di una vergine che, non avendo altro da fare, riappare ogni tanto, piangendo o sanguinando davanti a qualche pastorella, anziché intimare a chi ha la bomba atomica di smetterla. E se almeno, occupandosi un po’ di se stessa, provasse ogni tanto a risolvere una buona volta il suo problema sessuale prima di diventare una vecchia zitella piagnucolosa!

Solo un tale delirante recipiente di tutte le più incredibili fandonie, dicevo, può insegnare a credere davvero a qualunque cosa: anche che tutti i preti amano i pargoli con paterno e disinteressato altruismo e che l’unto di se stesso aiuta le vergini (tu quoque, Ruby) a studiare senza nemmeno sfiorarle col dito medio che riserva soltanto alla Merkel durante i grandi incontri tra statisti mondiali.

Dovunque, l’uomo che in natura nasce libero è stato ridotto in catene ben prima di riuscire a diventare adulto. Chiedetelo ai gesuiti che hanno sempre affermato fieramente: “dateci i primi cinque anni di un essere umano e vi lasceremo il resto”. E ai pubblicitari, questi gesuiti della laicità capitalistica.

Le religioni, i monoteismi soprattutto, hanno ridotto il mondo all’unicità totalitaria risultata poi utile al capitalismo per addomesticare il mondo, rendendolo artificiale fin nella sua materialità.

Le religioni si sono premurate da sempre non di spezzare le catene della separazione tra corpo e spirito come promesso (re-ligo), ma di coprirle con la stessa foia lubrica con cui i credenti coprono l’innocenza del corpo sensuale con le mutande universali della loro ipocrisia terrorizzata e perversa.

Come si sia riusciti a far di quest’uomo a vocazione di libertà non solo uno schiavo ma addirittura uno schiavo contento di esserlo e che meno decide più si dice libero? Questo è il tragico quesito dalla cui risposta dipende l’emancipazione di una specie ormai a rischio di estinzione.

Gli esperti che sanno quasi tutto di quasi niente, vi risponderanno come i politici quando un giornalista con una lingua meno lunga di un metro (un metro è il minimo necessario per fare carriera in un giornale o alla televisione) osa stranamente far emergere delle questioni urgenti. Con l’aria di voler mettere i puntini sulle i della parola servo, vi parleranno d’altro, raccontando favole dal sapore scientifico e dall’indigeribile irrazionalismo, indignandosi su aspetti irrilevanti o chiaramente fuori tema e coprendo col velo di Maya delle loro menzogne, evidenze che persino l’ultimo imbecille non può, suo malgrado, fare a meno di registrare.

Credere è necessario per obbedire e combattere contro se stessi.

Chi s’inginocchia davanti a una qualunque presunta verità sarà sempre riempito di falsità di cui farà supinamente il suo credo. E più il dogma è allucinante, più ci s’invischia nel fanatismo idiota della fede.

Tutta la fierezza distorta di un qualunque adepto s’impiegherà allora per difendere il suo leader, il suo signore, il suo dio senza il quale sarebbe costretto ad accorgersi di non esistere.

Questo è il brodo di coltura di tutte le repubbliche di Salò, di tutte le logiche totalitarie scandite al ritmo ipnotico della parola libertà svuotata di significato.

Indignatevi pure del bunga bunga come dell’evidenza nauseabonda di una volgarità impotente che girovaga nelle notti insonni consumata dal fuoco glaciale della miseria sessuofobica. Fatelo, però, almeno in nome della volontà di vivere e della resistenza allo spettacolo umiliante di vite non vissute, non come i componenti della giuria del reality show di un mondo smutandato per meglio coprirne gli orrori che si continuano a perpetuare.

Sergio Ghirardi