lunedì 3 gennaio 2011

No! Il popolo non è una massa brutale e ignorante.


Come spesso la mattina, sono andato al bar del Jardin a bermi il caffè ristretto (come un caffè lungo italiano) e a sorbirmi i giornali a gentile disposizione.
Conosco Rancière per qualche testo interessante e, dopo averlo letto, ho deciso di donarvi la traduzione di questo scritto appena sfornato senza aggiungervi quei distinguo che pure risento su alcuni punti.
Sotto il gelido abbraccio del capitalismo planetario, il ricatto economicista varia ma non esce dallo schema fondamentale: criminalizzare ogni opposizione prima che diventi rivolta.
La conclusione di quest’articolo sulla situazione francese mi sembra applicarsi perfettamente al clima italiano, in particolare dopo il 14 dicembre e la criminalizzazione isterica di un movimento studentesco che mi ricorda la favola antica del lupo e dell’agnello.
Siamo internazionalmente aggrediti da un comune nemico, “legalmente” instaurato dovunque ai posti di comando. Non serve cambiare capitano, bisogna cambiare nave e rotta.
La società produttivistica delle multinazionali va ben oltre le differenze secondarie tra le due nazioni transalpine, diverse per storia e per cronaca, diventata piuttosto nera e verde per gli uni, sempre bleu, blanc, rouge per gli altri.
Sergio Ghirardi
Articolo del filosofo Jacques Rancière su Libération del 3-1-2011
Non passa giorno che non si senta denunciare il rischio di populismo. Eppure non è facile cogliere quel che il termine designa esattamente. Che cos’è un populista? Attraverso tutte le variazioni del termine, il discorso dominante sembra caratterizzarlo con tre tratti essenziali: uno stile d’interlocuzione che si rivolge direttamente al popolo scavalcando i suoi rappresentanti e i suoi notabili; l’affermazione che governi e élites dirigenti si preoccupano del loro interesse più che della cosa pubblica; una retorica identitaria che esprime il timore e il rigetto degli stranieri.
Risulta chiaro, tuttavia, che nessuna necessità collega questi tre tratti. Che esista un’entità chiamata popolo, fonte del potere e interlocutore prioritario del discorso politico, è la convinzione che animava gli oratori repubblicani e socialisti del passato. Non le si lega alcuna forma di sentimento razzista o xenofobo. Per proclamare che i nostri politici pensano alla loro carriera piuttosto che all’avvenire dei loro concittadini e che i nostri governanti vivono in simbiosi con i rappresentanti dei grandi interessi finanziari, non c’è bisogno di nessun demagogo (Rancière si riferisce alla Francia ma non credo proprio che gli italiani rischino di sentirsi spaesati in proposito - ndt). Quella stessa stampa che denuncia le derive “populiste” ce ne fornisce ogni giorno le testimonianze più dettagliate. Dal canto loro i capi di Stato e di governo detti “populisti” come Silvio Berlusconi o Nicolas Sarkozy si guardano bene dal diffondere l’idea “populista” che le élites sono corrotte. Il termine populismo non serve a caratterizzare una forza politica definita. Non designa un’ideologia e neppure uno stile politico coerente. Serve semplicemente a restituire l’immagine di un certo popolo.
Perché il popolo non esiste. Quel che esiste sono delle figure diverse, vuoi antagoniste del popolo, delle figure costruite privilegiando certi modi di riunirsi, certi tratti distintivi, certe capacità o incapacità. La nozione di populismo costruisce un popolo caratterizzato dalla fusione pericolosa di una capacità (la potenza bruta della moltitudine) e di un’incapacità (l’ignoranza attribuita a questa stessa moltitudine). Per questo il terzo tratto, il razzismo, è essenziale. Si tratta di mostrare a dei democratici sospettati di “buonismo” quel che in verità è il popolo profondo: una muta abitata da una pulsione primaria di rigetto che prende di mira contemporaneamente i governanti, denunciati come traditori dalla muta incapace di capire la complessità dei meccanismi politici, e gli stranieri che essa teme per attaccamento atavico a un quadro di vita minacciato dall’evoluzione demografica, economica e sociale. La nozione di populismo rimette in scena un’immagine del popolo elaborata alla fine del XIX° secolo da pensatori come Hippolyte Taine e Gustave Le Bon, terrorizzati dalla Comune di Parigi e dalla crescita del movimento operaio: quella delle folle ignoranti impressionate dalle forti parole dei “capi” e spinte alle violenze estreme dalla circolazione di rumori incontrollati e di paure contagiose.
Questi scatenamenti epidemici di folle cieche spinte da leader carismatici sono davvero attuali da noi? Quali che siano le accuse lanciate tutti i giorni contro gli immigrati e specialmente contro i “giovani delle banlieues”(in Italia, ora, sono nel mirino gli “studenti violenti”, come i nuovi Rom della politica, ndt), non si traducono in manifestazioni popolari di massa. Quel che si chiama razzismo oggi nel nostro paese è essenzialmente la congiunzione di due cose. Prima di tutto delle forme di discriminazione nelle assunzioni o nell’acquisizione dell’alloggio che si esercitano perfettamente in uffici asettici; e poi dei provvedimenti statali, nessuno dei quali ha avuto come conseguenza dei movimenti di massa: restrizioni relative all’entrata sul territorio, rifiuto di concedere il permesso di soggiorno a gente che lavora, finanzia la mutua e paga le tasse in Francia da anni, restrizione del diritto del suolo, doppia pena, legge contro il foulard e il burqa, tassi programmati di espulsione o di smantellamento di campi nomadi. Queste misure hanno lo scopo essenziale di precarizzare una parte della popolazione riguardo ai suoi diritti di lavoratori o cittadini, costituire una popolazione di lavoratori che possono sempre essere rimandati a casa loro e di francesi che non hanno certezza di restarlo.
Queste misure sono accompagnate da una campagna ideologica che giustifica una tale diminuzione dei diritti con l’evidenza di una non appartenenza ai tratti caratteristici dell’identità nazionale. Non sono, però, i populisti del Fronte Nazionale (amici recenti del compagno Fini - ndt) che hanno lanciato questa campagna. Sono degli intellettuali, di sinistra si dice, che hanno trovato l’argomento imparabile: questa gente non è veramente francese perché non è laica (paese che vai totalitarismo che trovi: nell’Italia verde di bigottismo e barbarie, questa gente è estranea perché non è cattolica, mentre gli intellettuali, detti di sinistra, sono scomparsi nel buco nero di un antifascismo umiliato dal berlusconismo - ndt).
La gaffe recente di Marine Le Pen (che ha detto a proposito dei musulmani di sentirsi invasa come ai tempi dell’occupazione nazista - ndt) è istruttiva in proposito. Non fa altro che condensare in un’immagine concreta una sequenza discorsiva (musulmano=islamista=nazista) che si trascina un po’ dovunque nella prosa cosiddetta repubblicana. L’estrema destra “populista” non esprime una passione xenofoba specifica emanante dal profondo del corpo popolare; essa è un satellite che monetizza a suo vantaggio le strategie di Stato e le campagne intellettuali distinte. Lo Stato coltiva il sentimento permanente di un’insicurezza che mescola i rischi della crisi e della disoccupazione a quelli del ghiaccio sull’asfalto o del Formamide per fare culminare il tutto nella minaccia suprema dell’islamista terrorista. L’estrema destra (in Italia, la Lega di lotta e di governo - ndt) mette i colori della carne e del sangue sul ritratto standard disegnato dai provvedimenti ministeriali e dalla prosa degli ideologi.
Così né i “populisti” né il popolo messo in scena dalle denunce rituali del populismo rispondono veramente alla loro definizione. Poco importa a quelli che ne agitano il fantasma: l’essenziale per loro è amalgamare l’idea stessa del popolo democratico con l’immagine della folla pericolosa. E trarne la conclusione che dobbiamo rimetterci a quelli che ci governano poiché ogni contestazione della loro legittimità è la porta aperta ai totalitarismi. “Meglio una repubblica bananiera che una Francia fascista”, diceva uno dei più sinistri slogan antilepenisti dell’aprile 2002. Il rumoreggiare attuale sui rischi mortali del populismo tende a dare una teoria all’idea che non abbiamo altra scelta.